Il sileno e Dioniso
Un cratere campano con attore comico in costume
Ludovico Rebaudo
English abstract
Il Civico Museo di Antichità ‘J.J. Winckelmann’ di Trieste (d’ora in poi MAW) possiede una notevole collezione di vasi figurati magnogreci che tra il 1871 e il 1930 circa si è andata arricchendo, fra acquisti, lasciti e donazioni, fino a raggiungere le circa trecento unità attuali. Elemento non trascurabile, la raccolta affonda le radici nel collezionismo delle famiglie mercantili della seconda metà dell’Ottocento, che grazie alle loro relazioni d’affari lungo l’asse adriatico avevano accumulato patrimoni ingenti. Poiché spesso le aziende commerciali avevano agenzie di rappresentanza a Taranto e Lecce che, fra l’altro, rendevano agevole l’acquisto di materiali provenienti dalla Puglia, la collezione è costituita per oltre tre quarti di vasi apuli. C’è tuttavia una significativa sezione di ventisei campani (tre a figure nere e ventitré a figure rosse), fra i quali il nostro cratere è il pezzo di maggiore qualità e interesse [Figg. 1-4]. Merita quindi di essere reso noto.
Stato di conservazione
Il vaso è stato ricomposto da diciotto frammenti, probabilmente all’inizio del XX secolo. È attualmente in buone condizioni, essendo stato nuovamente restaurato nel 2016 (Querini 2016). A quest’ultimo intervento si devono le integrazioni reversibili in gesso alabastrino sul lato A [Fig. 1], sopra l’ansa sinistra e sotto l’orlo [Fig. 4], nonché la stuccatura mimetica delle linee di giunzione dei frammenti precedentemente rettificati e non più combacianti. Fra i danni visibili restano piccole scheggiature e graffi sull’orlo, sulle anse, sul listello alla base del piede e all’interno della vasca. Sulla faccia superiore dell’orlo è tracciato in inchiostro bianco il numero d’inventario generale del Museo (1818).
Le riprese in luce UV [Figg. 5-6] evidenziano, oltre alle tracce dell’incollaggio ottocentesco, poche integrazioni moderne della vernice del fondo, specie vicino alle anse. Le parti figurate non sembrano essere state ritoccate in modo significativo, o sono addirittura intonse. La parziale luminescenza dei rialzi in bianco che riproducono la peluria di Sileno e la corona di Dioniso non implica che si tratti di aggiunte, poiché la fluorescenza ai raggi UV del carbonato basico di piombo presente nella vernice usata dai ceramografi antichi, descritta anche da Plinio (Nat. 34.54, 36.19), è fenomeno noto (sulla natura chimica e le proprietà fisiche del bianco di piombo (2PbCO3,Pb(OH)2), utilizzato anche per la misurazione dei livelli di radiocarbonio, v. da ultimo: Beck, Messenger et al. 2019).
Provenienza
Una notazione in stampatello maiuscolo sotto il piede (‘Zamboni’), emersa con il restauro del 2016, lo collega a Filippo Zamboni (1826-1910), che legò ai Civici Musei la propria collezione d’arte, con alcuni pezzi antichi, altre all’archivio e alla biblioteca (le carte relative al legato Zamboni si conservano nell’archivio dei Civici Musei di Trieste; nonostante l’ampiezza del fondo, costituito da quaranta scatole e cartolari, Cosenzi 2012, 277, note 3 e 4, a oggi non è emersa documentazione relativa ai materiali archeologici – comunicazione personale della dr.ssa M. Cosenzi, che ringrazio). Zamboni è personaggio di un certo interesse. Figlio di un console pontificio a Trieste, mazziniano, patriota, capitano e portabandiera del Battaglione Universitario Romano durante la difesa di Roma del 1849 (ciò che gli è valso un busto lungo la Passeggiata del Gianicolo; Tosti 1999, 210; sulla Passeggiata del Gianicolo: Cremona 2006), incarna alla perfezione il tipo del letterato tardoromantico, eccentrico e inquieto. Per buona parte della vita insegnò l’italiano alla Wiener Handelsakademie, ovvero all’Accademia del Commercio di Vienna, dove si trasferì esule nel 1856. Fu un infaticabile viaggiatore, ma scrisse anche molto sia per la stampa che per il teatro, con una predilezione per i drammi storici e i temi esotici. Nessuno dei suoi scritti è memorabile, eppure essi gli valsero l’amicizia di Carducci, che lo definì “onore domestico d’Italia in paese straniero” (per la biografia, v. Gentile 1911; Cosenzi 2012, spec. 276-277, nota 1). Nel 1937 ebbe una voce sull’Enciclopedia Italiana, e la redazione fu affidata a Guido Mazzoni (Mazzoni 1937).
La sua raccolta archeologica, pur in sé non trascurabile, non raggiunge i numeri delle grandi collezioni mercantili coeve. L’inventario generale del MAW registra comunque ventotto vasi antichi ripartiti fra attici a figure nere, attici a figure rosse, sud-italici a figure rosse, sovraddipinti nello stile di Gnathia e campani a vernice nera. Uno di essi, probabilmente il più significativo dal punto di vista tecnico e iconografico, è il nostro cratere. Tutti i vasi, in conseguenza della mancanza delle carte di acquisto dei materiali, sono privi di provenienza.
Descrizione
Alt. cm 24,7; diam. all’orlo cm 25; diam. del piede cm 12,4; diam. dello stelo (all’attacco del piede) cm 6,45. Colore dell’impasto vicino a Munsell 10R 7/4 (Pink). Su tutta la superficie sono presenti lievi irregolarità di tornitura, con avvallamenti nei quali si è depositato un leggero ingobbio rossastro simile a Munsell 10R 4/6 (Red). Vernice nera, compatta, discretamente lucida, stesa anche all’interno della vasca. Superficie parzialmente abrasa sul lato B. Parti del piede di colore bruno tendente al rosso per l’incompleta riduzione della vernice. Referenze fotografiche: Archivio MAW, neg. 27240, 6122 (lato A); 2741, 6123 (lato B).
Il cratere è caratterizzato da un corpo campaniforme regolare, poggiante su un corto stelo, a sua volta innestato senza raccordo sul piede svasato. Le anse a bastoncello, impostate a metà della vasca, si incurvano verso l’alto. Sotto l’orlo si sviluppa un tralcio di quattordici coppie di grandi foglie d’alloro, mentre sotto le scene figurate corre un fregio di onde marine nere inquadrato da un filetto risparmiato in basso, nonché da un cordolo nero e da un filetto risparmiato di maggior spessore in alto. Altri filetti si trovano all’attaccatura e sullo spigolo superiore dell’orlo. Ugualmente risparmiate sono la parete dietro le anse e la metà superiore delle stesse. Sotto ciascuna ansa si sviluppa una palmetta di sedici foglie sgorganti da un calice con pistillo. Ai lati della palmetta quattro semplici motivi vegetali costituiti da una foglia falcata, un fiore campaniforme con pistillo e una foglietta a spirale. All’esterno di ciascun fusto un’ulteriore foglia falcata libera e un germoglio emergente dal terreno.
Lato A | Dioniso e sileno
Dioniso siede su uno spuntone di forma elaborata, al quale si appoggia con il capo rivolto a sinistra. I dettagli della roccia sono resi con pennellate di vernice diluita. Lunghi capelli ricci ricadono sulle spalle, fermati da una ghirlanda in giallo e bianco. Due tenie bianche con orlo trapezoidale decorato da perline ricadono dalle tempie. Il torso presenta notazioni anatomiche semplificate, la mano sinistra si appoggia mollemente al tirso dall’esile fusto bianco appoggiato sulla spalla, culminante in una cuspide floreale gialla. Intorno ai polsi il dio porta bracciali d’oro ornati di piccole perle. Le gambe, che non poggiano a terra, sono avvolte da un himation fittamente panneggiato. Le ombre a vernice diluita e i tratti pesanti ma fitti e mossi del tessuto non sembrano, a prima vista, coerenti con il disegno lineare della parte superiore e con quello delle figure del lato B. L’irradiamento UV ha tuttavia escluso la presenza di pigmenti organici, dunque una ridipintura moderna è improbabile. Ai piedi il dio porta calzature a tacco basso, fermate da una cinghia.
Dioniso è intento a osservare, indicandolo con la mano destra, un Sileno seduto alla sua sinistra su una roccia ovoidale. Il volto del sileno ha tratti selvaggi, quasi grotteschi, con grandi orecchie triangolari, sopracciglia arcuate, naso camuso, capelli bianchi inframmezzati da ciuffi neri sulla fronte e sulle tempie. La barba è enfatizzata da una sottile linea di contorno, i baffi e parte della peluria sulle guance e intorno alla bocca sono anch’essi neri. Il corpo color ocra chiaro è punteggiato da vistosi ciuffi di peli bianchi su tutto il corpo, tranne che sulla pancia. L’appendice che spunta sulla schiena è quanto resta di una coda pressoché completamente evànida, di cui in luce radente si scorge traccia sulla vernice del fondo. Le mani e i piedi scoperti sono di colore più scuro. I piedi sono chiusi in bassi calzari con suola, cinghietta e ombre sulle caviglie e sulla tomaia. Egli tiene con la sinistra e percuote con la destra un tamburello dallo spesso telaio, ornato da una corona di punti neri che rappresentano probabilmente sonagli, oltre che da volants bianchi e due anelli di corda appesi sopra e sotto. Lo sguardo non è rivolto a Dioniso ma verso un punto indefinito fuori della scena.
Lato B | coppia di giovani ammantati
A sinistra un giovane di profilo procede verso destra, il corpo e gli arti avvolti in un grande himation, un lembo del quale cade lungo il fianco sinistro, mentre l’estremità opposta scende dalla spalla destra lungo la schiena. Il braccio destro piegato davanti al corpo e la mano sinistra visibile all’altezza dell’ombelico sono avvolte dal mantello. Ai piedi porta calzari senza tacco, con suola, cinghietta e orlo sopra la caviglia. Di fronte a lui un altro giovane stante rivolto a sinistra. L’himation drappeggiato intorno alle spalle ricade in grandi balze lungo il fianco sinistro. Dal tessuto spunta la mano destra, con l’indice portato al volto, fra il naso e la bocca, in un possibile gesto di intimazione del silenzio.
Classificazione e attribuzione
Trendall, che vide il cratere durante una visita all’allora Civico Museo di Storia e Arte, negli anni ’60, lo assegna al Pittore di Capua 7531 (LCS 331, nr. 770).
Sotto questa etichetta sono raggruppati tre soli vasi: oltre al nostro, il cratere eponimo del Museo Provinciale Campano [Figg. 7-10] e un’hydria già in collezione Paul Hartwig, scomparsa dopo essere transitata sul mercato antiquario romano (LCS 331, nr. 771).
Il Pittore di Capua 7531 è una delle figure con cui Trendall ha classificato una trentina di vasi il cui stile è vicino a quello della maggiore officina capuana della seconda metà del IV secolo, la bottega dei Pittori di Laghetto, Caivano ed Errera, ma non tale da consentire l’assegnazione alle personalità maggiori. Questi pittori (P. del Combattimento di Washington, P. del Duello, P. di Karlsruhe B 2400, Gr. di Napoli 128100, Gr. dei Giovani Smorfiosi, P. di Aversa) sono degli assemblaggi di non più di due o tre pezzi – solo il Pittore di Aversa ne conta cinque – che, se considerati individualmente, mostrano evidenti problemi di omogeneità. Il Pittore di Capua 7531 non fa eccezione. La somiglianza fra il cratere capuano e il nostro, per quanto Trendall ne avesse suggerito l’associazione già in occasione della visita al museo sono indiscutibili ma generiche (dell’expertise di Trendall resta traccia in un appunto sulla scheda inventariale del museo; archivio MAW, scheda Inv. 1818: “cratere appartenente al Gruppo di Errera secondo il prof. A.D. Trendall (stessa mano di Capua CVA 33, 2 [i.e. CVA Capua 1, tav. 33, nr. 2] = Museo Provinciale Capuano, inv. 7531”)).
Coincidono l’orizzonte cronologico, i modelli da cui derivano le figure di repertorio e l’apparato ornamentale, ma lo stile impressionistico del cratere del MAW, evidente nel tratteggio del manto di Dioniso e della maschera di Sileno, e ancor di più nelle ombreggiature sulle rocce [Fig. 8], ha poco in comune con la mano che ha dipinto con tratto spesso e fermo e con diverso gusto decorativo la Menade e il Dioniso del lato A del cratere capuano.
La medesima disomogeneità è nei fanciulli dei lati B [Fig. 9] e nei motivi sotto le anse [Fig. 10], che traspongono con stile diverso modelli simili o identici. Sembra dunque ragionevole lasciare da parte il Pittore di Capua 7531, che probabilmente non esiste, per collocare il nostro cratere nella cerchia della grande officina capuana. La maggiore vicinanza negli elementi ornamentali si riscontra con singoli vasi attribuiti al Pittore di Errera e al Pittore di B.M. F63, pur essendo impossibile l’identificazione sia con l’uno che con l’altro. La collocazione cronologica più verosimile è a cavallo del terzo e del quarto venticinquennio del IV secolo a.C., fra il 340 e il 320 a.C.
Satiri e sileni
L’iconografia dei sileni è ben indagata e non è necessario ripercorrerla in dettaglio (vedi, sul punto, la Nota bibliografica in calce), ma alcune osservazioni sul problema terminologico, ovvero sulla controversa distinzione fra satiri e sileni, sono necessarie. La differenza nella tradizione antica è vaga (in proposito ad es. Simon 1997, 1108); emblematico il caso di Marsia, satiro nella maggior parte della tradizione, ad esempio nel paragone con Socrate del Simposio platonico (215b), ma sileno in Erodoto (VII, 26) e Pausania (I, 24.1; II, 7.9). È abbastanza diffusa l’opinione che possa essersi verificata nel corso del VI secolo a.C. una sorta di sovrapposizione fra i sileni di origine ionico-attica e i satiri legati alla tradizione peloponnesiaca, cosicché i due termini sarebbero divenuti sostanzialmente intercambiabili alla fine dell’età arcaica (Seaford 2016). In realtà già molto prima l’Inno omerico ad Afrodite vede i sileni impegnati in un’attività tipicamente satiresca, ovvero l’intrattenimento amoroso delle ninfe all’interno delle grotte (Hom. Hymn. V, 262-263).
L’incerta distinzione antica si riflette nella letteratura specialistica moderna. In un contributo di G. Hedreen dedicato a un certo numero di scene vascolari che, con maggiore o minore verosimiglianza, vengono ricondotte al dramma satiresco e ai suoi precedenti rituali, è sempre utilizzato il termine ‘sileni’, qualunque sia l’aspetto degli esseri descritti: giovani o vecchi, irsuti o glabri, canuti o di pelo scuro (Hedreen 2007). Forse per questo in uno dei saggi introduttivi del volume il termine è costantemente usato fra virgolette, con una sfumatura polemica:
Is this choros of “silens” as represented in the vase paintings of Athens the same thing as the choros of “satyrs” in the satyr dramas of Athens as attested from around the beginning of the fifth century and thereafter? (Nagy 2007, 122).
La risposta alla domanda sulla base dello studio di Hedreen sarebbe sì, ma non è una posizione universalmente condivisa.
Un modo per superare l’ambiguità potrebbe essere adottare la distinzione di Pausania, secondo cui “sono chiamati sileni i satiri in là con gli anni” (I, 23.5: τοὺς γὰρ ἡλικίᾳ τῶν Σατύρων προήκοντας ὀνομάζουσι Σιληνούς). Con questo criterio sono satiri la maggior parte degli esseri ibridi rappresentati sui vasi, in età giovanile o adulta, con la barba e la peluria scure; sono sileni invece quelli anziani e canuti, con i tratti della vecchiaia evidenti, oggettivamente meno comuni.
Il dinos berlinese del Pittore del Dinos [Fig. 11] ci aiuta a visualizzare la differenza. Al corteo intorno a Dioniso banchettante prendono parte due satiri, uno dei quali suona il barbiton, e due sileni. I sileni accompagnano alla canizie la debolezza della vecchiaia: entrambi si appoggiano al bastone e, diversamente dai satiri, che sono nudi e scuri di pelo, portano a tracolla una pelle di capriolo.
Bisogna tuttavia ammettere che anche questo criterio non è privo di problemi, a partire dal fatto che la distinzione potrebbe essere il frutto di una tarda razionalizzazione. Nella tradizione figurativa i termini σάτυρος e σιληνός sono occasionalmente intercambiabili.
Sul vaso François (Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. 4209) i giovani satiri del corteo di Dioniso nel Ritorno di Efesto, tutti con barba e peluria scura, sono definiti nell’iscrizione Σιλενοί (Wachter 1991, nr. 124).
Un secolo e mezzo più tardi, nel cratere di Ruvo attribuito al Pittore di Kadmos dipinto tra il 420 e il 410 a.C., un giovane satiro seduto con la barba e i capelli neri, coronato d’edera e intento a suonare il doppio flauto, è chiamato σιληνός. Iconograficamente parlando, nulla lo distingue dal satiro Σίμος che verso il vino a Dioniso (Ruvo, Museo Archeologico Nazionale ‘A. Jatta’, inv. 1903: ARV2, 1184, nr. 1; Addenda2, 340, Paralipomena, 460, nr. 1; Bundrick 2005, 137-139; Ulieriu Rostàs 2011, 634-635; per un commento al corpus di iscrizioni del cratere: Ulieriu Rostàs 2011, 635).
C’è poi un tema particolare, la cattura di Sileno (in questo caso la maiuscola è d’obbligo, perché si tratta di un nome proprio) da parte dei pastori-guerrieri di Mida e il suo interrogatorio da parte del re frigio, in cui la distinzione in base all’età sembra non valere affatto. La scena dell’interrogatorio è legata alla celebre risposta che Sileno diede a Mida quando il re gli domandò cosa fosse meglio per un uomo: “la cosa migliore di tutte è non essere nati, e morire è meglio che vivere” (Ps. Plut. Cons. ad Apoll. 115c-d che cita Aristotele [= fr. 44]: ὡς ἄρα μὴ γενέσθαι μέν’ ἔφη ‘ἄριστον πάντων, τὸ δὲ τεθνάναι τοῦ ζῆν ἐστι κρεῖττον; sul fr. 44: Davies 2005; il topos “meglio non esser nati” ha conosciuto una lunga fortuna da Eschilo all’irrazionalismo novecentesco, v. Curi 2008; per l’iconografia si veda infra).
Data la popolarità del racconto, le rappresentazioni sono numerose, soprattutto a partire dalla seconda metà del VI secolo, ma per qualche ragione Sileno è invece sempre nel pieno dell’età, in nulla distinguibile dai satiri, tanto nell’episodio della cattura quanto in quello del colloquio (sulla leggenda di Mida e sull’episodio della cattura di Sileno v. Nota bibliografica in calce).
La circostanza sorprende, perché nella visione antica la sua disincantata saggezza sarebbe stata una virtù appropriata alla vecchiaia, ma bisogna prendere atto che le cose non stanno così.
La pelike a figure nere del 520-510 a.C. attribuita al Pittore di Acheloo e conservata al Metropolitan Museum di New York [Fig. 12]; lo stamnos eponimo del Pittore di Mida da Chiusi del 440 ca (Londra, British Museum, inv. 1851,0416.9, ARV2, 1035, nr. 3; Matheson 1995, 117-118; Miller 1997, 849, nr. 38; De Vries 2000, 346-348) e un più tardo cratere a figure rosse del Gruppo di Polignoto, transitato da poco sul mercato antiquario (Christie’s, Auction 12239, 6 lug. 2016) [Fig. 13], sono ottimi esempi di un intero secolo di tradizione.
A dispetto di queste eccezioni la distinzione per età resta, a mio parere, la più efficace, almeno dalla metà del V secolo in poi. I primi sileni, che compaiono in Attica intorno al 460 a.C., sono vecchi e macilenti [Fig. 11].
L’anfora attribuita al Pittore di Charmides del Museum of Fine Arts di Boston (inv. 1876.46, ca 460 a.C.), la più antica attestazione nota, rappresenta un sileno portato a spalle da un satiro (ARV2, 654 nr. 13; Addenda2, 276, Simon 1997, 1112, nr. 17).
Una oinochoe di poco più recente attribuita da A. Lezzi-Hafter a Hermonax, già in prestito all’Antikenmuseum di Basilea e ora inghiottita dal mercato antiquario, mostra il vecchio sileno curvo e affaticato, mentre cammina appoggiandosi a un bastone (CVA Basel 3 (1988), tavv. 40.3-4, 41.4; per l’attribuzione: Lezzi-Hafter 1976, I, 11, nota 54). Appartenuta a una collezione privata svizzera ed esposta in prestito presso l’Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig (inv. Kä 430), l’oinochoe è stata venduta presso la Galerie Cahn di Basilea il 5 novembre 2011 e la sua attuale localizzazione è ignota (Kressirer 2016, 293 e 648, cat. 552; Krumeich 2017, 46, nota 17).
Questa insistenza sulla debolezza può essere stato un espediente per accentuare la differenza fra le due categorie nel momento in cui la distinzione si andava definendo. È infatti un tratto che tende a scomparire presto, mentre la vecchiaia resta un carattere stabile. Negli stessi anni di Hermonax, il Pittore di Villa Giulia ha rappresentato un sileno canuto ma atletico che prende parte alla processione dionisiaca suonando il doppio flauto [Fig. 14]: sulla scena sono presenti ben tre generazioni della famiglia: il vecchio, l’adulto e il fanciullo.
Analogamente, sul notissimo cratere vulcente a fondo bianco del Pittore della Phiale in cui il piccolo Dioniso viene affidato a Sileno da Hermes [Fig. 15], il vecchio pedagogo è sano e atletico, per quanto canuto. La canizie, più della villosità, sembra dunque il tratto connotante, dato che il sileno sul cratere di Karlsruhe [Fig. 14] è glabro.
L’attore e Dioniso
Distinguendo sulla base dell’età, il personaggio che siede di fronte a Dioniso sul cratere triestino [Fig. 16] è un sileno. In realtà non solo: è molto probabile, per non dire certo, che si tratti di un attore in costume da sileno. Nonostante l’ambientazione non contenga alcun esplicito riferimento al teatro, e tanto meno elementi di un allestimento drammatico, alcuni particolari introdotti dal pittore tradiscono il costume di scena. Si tratta del colore delle mani, delle calzature e della maschera, anche se quest’ultima richiede qualche ulteriore riflessione.
È evidente che le mani sono più scure del resto del corpo. La superficie del vaso è coperta da un velo di vernice rosso-bruna simile a Munsell 10R 4/6 Red, una sorta di sottile ingobbio che il pittore ha usato su tutte le parti risparmiate, tranne appunto che sul corpo del sileno: la foto di dettaglio [Fig. 17] mostra chiaramente il tratto del pennello che sulla mano sinistra non ha coperto per negligenza la parte più interna del palmo. La vernice conferisce alle figure di Dioniso e dei giovani del lato B (per lo meno nei punti in cui è conservata a causa dell’ondulazione della superficie) la tinta ambrata che provoca lo scarto cromatico rispetto al costume, il quale, al di sotto dei rialzi bianchi, ha il colore dell’impasto ceramico, decisamente più giallo-rosato e vicino a Munsell 10R 7/4 (Pink).
La differenza ha chiaramente valore semantico. Il costume dell’attore è identico a quello dell’attore sul cratere attico di Pronomos da Ruvo [Fig. 17], l’archetipo di tutte le rappresentazioni vascolari a soggetto drammatico, ma anche di numerosi altri vasi meno noti ma più vicini nel tempo.
È interessante osservare che nel repertorio delle officine italiche il sileno sembra essere andato incontro a una sorta di teatralizzazione, anche quando non è connotato come un attore in costume.
I due sileni sulla magnifica situla del Pittore di Licurgo di New York [Fig. 18], uno peloso e uno quasi glabro, il primo intento a suonare il doppio flauto, il secondo impegnato ad attingere dal cratere al centro della scena il vino da offrire alle menadi, indossano le endromides in pelle con l’orlo rivoltato, ma sicuramente non sono attori.
Gli alti stivali di scena costituiscono una sorta di topos (sulle calzature degli attori, da ultimo: Athanasopoulou, Palaiokrassa, Paschalides 2018, 230-233; Phillippo 2019; la diffusione del motivo nella ceramica magnogreca, in particolare in relazione all’aspetto ‘teatrale vs. non-teatrale’ non è stata indagata in modo sistematico).
Il sileno che danza di fronte ad Ariadne κοτταβίζουσα, intenta a far ruotare la coppa di fronte allo stander metallico che serve da bersaglio nel gioco del kottabos, sul cratere attribuito al Pittore Schlaepfer conservato al British Museum di Londra [Fig. 19], di poco più antico del nostro, è un altro buon esempio. Il vaso è di produzione apula ma è stato rinvenuto a Capua, circostanza che lo rende potenzialmente significativo come vettore di trasmissione del motivo alle officine locali (RVAp I, 247, nr. 171).
L’atmosfera è chiaramente comica: l’attitudine discinta di Ariadne lo dimostra almeno quanto il pene itifallico del sileno. Ma anche qui si tratta di un motivo topico più che della volontà di caratterizzarlo come attore.
Non sembrano attori infine, anche se spesso interpretati in tal senso, il sileno che interroga la sfinge al posto di Edipo nel cratere pestano da Sant’Angelo dei Goti, ora al Museo Archeologico Nazionale di Napoli [Fig. 20] e quello praticamente identico che guida Dioniso in corteo sul cratere del Nicholson Museum dell’Università di Sydney (inv. 47.04, PP, nr. 116; RVP, 158, nr. 269; Green 1995, 107; per l’interpretazione legata al dramma satiresco: ad es. Grossmann 2003), entrambi attribuiti a Python.
Le endromides hanno lasciato il posto a calzature più basse, che tuttavia, essendo dotate di orlo rivoltato, possono ricordare quelle di scena, mente non c’è particolare enfasi né sul fallo né sulla maschera, che negli attori comici rappresentati come tali sono invece ben evidenti.
Nel nostro cratere la situazione è diversa. Le calzature, chiuse, appuntite e fermate a metà del piede da una cinghia, sono del tutto identiche a quelle di Dioniso [Fig. 21] e appartengono a un tipo comune nella pittura campana della seconda metà del IV secolo.
L’osservatore antico doveva riconoscerle subito come un dettaglio domestico (sulla rappresentazione delle calzature nell’arte greca, prevalentemente in età ellenistica e in Grecia continentale: Athanasopoulou, Palaiokrassa, Paschalides 2018; Pickup, Waite 2019; non tratta il problema del vestiario e degli accessori il recentissimo studio di N. Oakley sulla vita quotidiana: Oakley 2020). Le scarpe di tutti i giorni sono incongrue rispetto alla natura dei sileni, e in questo caso sono anche ben diverse dalle endromides che, incongrue a loro volta, erano comunque divenute un attributo fisso. A meno di non voler pensare a un’ingenuità o sciatteria del pittore, le scarpe sono un elemento in più a segnalare la natura artificiale della peluria del sileno, cioè il costume di scena.
Dato il costume è logico pensare che l’attore indossi la maschera. I tratti del sileno sono selvaggi al punto di sfiorare il grottesco, dunque appropriati a una maschera comica, che del resto il contesto suggerisce di riconoscere. Ci sono però due aspetti di cui si deve tener conto. Il primo è che il pittore non ha fatto nessuno sforzo per caratterizzare la maschera come tale. Eppure sappiamo fin troppo bene che nessun ceramografo avrebbe avuto la minima difficoltà a suggerirne agli spettatori la presenza. Il secondo aspetto, anche più importante, è che sul volto è applicata la vernice rossa diluita usata sulle mani e su tutte le altre figure del vaso. Questo particolare suggerisce che per il pittore quello era il ‘vero’ volto del personaggio. Ma se si tratta di un attore – ed è difficile dubitarne – la cosa risulta impossibile: un essere umano non ha quei tratti. Insomma, su quali fossero le intenzioni del pittore a proposito della maschera resta qualche dubbio, anche se l’ipotesi della maschera è certamente più verosimile. In definitiva l’ingobbio sul volto potrebbe semplicemente essere una svista.
Conclusioni
La scena rientra in quella categoria di composizioni che J.R. Green ha definito dei “motivi teatrali in un contesto non teatrale” (Green 1995). È una situazione talmente comune nella produzione vascolare magnogreca da potersi considerare standard o quasi: un’eco della popolarità del teatro a livello di repertorio che è saggio non caricare di significati eccessivi. La teatralizzazione di personaggi e situazioni si manifesta infatti per lo più attraverso quella che potremmo chiamare una ‘teatralizzazione implicita’, ovvero l’insinuarsi nei cartoni di particolari e allusioni che richiamano la scena indirettamente, a beneficio di un pubblico che palesemente ne godeva, come le endromides invece dei più logici piedi nudi nei sileni. Di contro la ‘teatralizzazione esplicita’, cioè l’affiancare nella stessa scena personaggi riconoscibilmente ‘teatrali’ e personaggi ‘reali’ è, anche se non rara, un po’ meno comune. Molti dei casi che Green ha classificato appartengono più al primo che al secondo tipo. Nel cratere triestino la situazione è diversa: la presenza dell’attore in costume è sicura e la commistione indiscutibile. Il gesto di Dioniso che lo indica allo spettatore potrebbe anche essere motivato proprio dal fatto che si tratta di un attore: “Bada, costui è al mio servizio!”.
Possiamo attribuire al nostro attore qualcosa di più della generica identità del sileno? Il riferimento più ovvio e seducente sarebbe alla maschera per eccellenza del teatro satiresco, ὀ Σειληνὸς πάππος, “il nonno Sileno”, citato da Giulio Polluce (4.142) come un personaggio di aspetto particolarmente ferino (τὴν ἰδέαν θηριωδέστερος) e, dato il nome, anziano. Le caratteristiche ci sono tutte: volto animalesco, coda equina, calvizie, barba canuta e peluria a grossi ciuffi bianchi sul corpo. Tuttavia non sono certo che una simile etichettatura sia lecita. Altro è il richiamo, seppur esplicito, a un genere popolare all’interno di fenomeno culturale di massa (il dramma satiresco), altro rappresentare una maschera specifica (Papposileno), rendendola riconoscibile rispetto a tutte le altre. Nel secondo caso occorre riconoscere al ceramografo una volontà e un bagaglio di conoscenze che confliggono con il prevalere delle consuetudini e l’applicazione meccanica del repertorio che caratterizza gran parte della ceramografia magnogreca. Ma questo è un problema che va molto oltre gli obiettivi e la portata di questo piccolo contributo: sarà opportuno trattarne in altra sede.
*Le foto del cratere inv. 7531 mi sono state fornite con cortesia e sollecitudine a titolo gratuito dal dr. Giovanni Solino, direttore del Museo Provinciale Campano di Capua: desidero quindi esprimere qui il mio sincero ringraziamento.
Bibliografia
-
Abbreviazioni
- ABV
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Nota bibliografica
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- Sul tema di Mida e il Sileno, v. Hubbard 1975; Roller 1983; Miller 1988; Miller 1997, 847-850, nrr. 7-41; Berndt-Ersöz 2008; alla leggenda di Mida è stato anche recentemente ricondotto, senza che l’ipotesi abbia però goduto di grande fortuna, il Fauno Barberini: Sorabella 2007, ma la distinzione satiro-sileno è ignorata nel contributo.
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English abstract
Silenus, the elderly, white-haired and wild-looking satyr, is a popular figure in South Italian vase painting. The Museo di Antichità ‘J.J. Winckelmann’ of Trieste hosts a high-quality bell crater, manufactured in the Capuan workshop of the Laghetto, Caivano and Errera Painters. On the obverse a Silenus is in conversation with Dionysus. The details of the costume, footwear and face reveal that it is an actor wearing a costume.
keywords | Campanian Bell Krater; Laghetto; Caivano and Errera Painters; Satyr; Silenus; Dionysus; Ancient Greek Actor; Actor’s costume.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo: Il sileno e Dioniso. Un cratere campano con attore comico in costume, a cura di L. Rebaudo, “La Rivista di Engramma” n. 183, luglio/agosto 2021, pp. 123-146 | PDF dell’articolo