Stefania Rimini
Gli schermi del mito
Palinsesti dell’antico dalla celluloide al 3D
Il cinema fin dalle origini ha festosamente banchettato con gli eroi del mondo classico, accreditandosi, con buona pace di storici e accademici, come legittimo strumento di rappresentazione e rievocazione dell’antico. Il successo del genere peplum, variamente declinato in Italia e a Hollywood a partire dalle invenzioni ‘kolossali’ di Pastrone e Griffith, ha testimoniato la disponibilità del mito e della storia antica a lasciarsi riprodurre sullo schermo. Dopo una prima stagione pionieristica, perfettamente in linea con le potenzialità espressive ed estetiche del muto, la produzione epico-mitologica ha trovato una straordinaria fioritura a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta, spopolando ai botteghini. Il segno più evidente del filone sword and sandal era la compiaciuta esibizione del tono muscolare di eroi tutti d’un pezzo (Ercole, Maciste, Ursus, Ulisse, Golia), capaci di superare fatiche inaudite e di attraversare indenni confini spazio temporali a dir poco improbabili (si pensi per esempio al Maciste va all’inferno di Riccardo Reda, ambientato in un tormentato medioevo scozzese). Il plot di tali storie, spesso condito in salsa rosa (se non addirittura piccante), rispondeva alla logica di un intrattenimento popolare, distante da preoccupazioni filologiche e storiche, e quindi votato a una ricostruzione arbitrariamente spettacolare della classicità. La maschia virtù di personaggi senza macchia e senza paura era in linea con il bisogno di affermare un’identità che sapesse riproporre il mito dell’'uomo alla riscossa', e così – tanto in Italia quanto oltreoceano – la tunica e i sandali spalancano le porte a rinnovati orizzonti di gloria, onore e libertà.
Accanto al proliferare di superuomini in technicholor, meritano una menzione speciale gli intermezzi d’autore di Pasolini (soprattutto Edipo re e Medea, senza dimenticare però «lo stile senza stile» degli Appunti per un’Orestiade africana), che restituiscono al mito profondità di campo e spessore d’indagine. In bilico fra ricostruzione etnoantropologica e urgenze autobiografiche, il cinema mitologico di Pasolini avvia una feconda riflessione su alcuni archetipi della tragedia, spianando il terreno a ulteriori sperimentazioni (è il caso dell’Elettra di Jancsó, di O thiasos e To vlemma tou Ulisse di Anghelopulos, della Medea di von Trier, solo per citare alcuni dei testi più coerenti).
Dopo una pausa, dovuta probabilmente alla concorrenza del fantasy e dell’horror, le felici nozze tra cinema e tradizione classica vivono oggi un momento di grande effervescenza, a dispetto di quanti erano pronti a scommettere su una rottura definitiva (per esempio Gianni Canova, che nel 2002 chiudeva la voce 'peplum' della Garzantina Cinema escludendo la possibilità di rinascita del genere, e sottovalutando l’effetto revival di The gladiator). Occorre segnalare, infatti, un importante ritorno d’attenzione da parte delle major americane ed europee nei confronti della ‘classical-fiction’, come dimostrano i recenti Agorà (2009), Three Hundreds (2007), Alexander (2004), Troy (2004), The gladiator (2000) e gli imminenti Clash of the Titans e Memoirs of Hadrian (2010). Questi film riconfigurano le strategie di rappresentazione del passato grazie ad avanzati investimenti tecnologici– la computer graphics e il 3D – e in tal modo moltiplicano gli effetti visivi del profilmico. Non è detto che i risultati procedano nella direzione della verosimiglianza storica, ma certamente le nuove frontiere del mito passano da qui.
A questa ondata di film storico-mitologici si accompagna un rinato fervore di attenzione nell'ambito degli studia humanitatis, sempre più orientati verso approfondimenti e incursioni intermediali. I frutti di tale sforzo ermeneutico fanno registrare un cospicuo incremento di convegni dedicati alle dinamiche di trasmissione del classico attraverso il cinema, in cui docenti appartenenti ad ambiti disciplinari differenti provano a intrecciare saperi e competenze. Non sempre si riesce a superare la riserva pregiudiziale verso l’inattendibilità della narrazione filmica, ma finalmente anche da noi gli accademici si prestano al confronto, e a volte collaborano anche come consulenti scientifici per correggere errori e orrori dei film storici (su questo torna utile il saggio di Kathleen Coleman The pedant goes to Hollywood: the role of academic consultant, Blackwell 2004). L’organizzazione dei simposi, nei casi più fortunati, si traduce nella pubblicazione degli atti, e così è possibile verificare lo stato di avanzamento del dibattito interdisciplinare. Alla luce delle ultime uscite, si conferma la volontà di storici e studiosi del mondo classico di cimentarsi con l’analisi del medium cinematografico, anche se poi spesso non ci si interroga fino in fondo sulla specificità del linguaggio delle immagini nella ricodificazione delle tracce del passato. Il film, così, si riduce a un piatto catalogo di rovine, scenari, situazioni e personaggi, e viene esclusa la disposizione paradigmatica dei segni e la loro cifra simbolica. Per di più manca il riferimento al contesto di produzione delle opere, e non si arriva a cogliere quella che Pierre Sorlin definisce «la storia lenta», indispensabile per ragionare intorno alle dinamiche della tradizione della memoria nell’età contemporanea.
Proprio a partire dalla lezione di Sorlin, e spostandosi via via su più ampi riferimenti alla visual culture, "Engramma" inaugura con questo numero un nuovo tema di ricerca, dedicato alla relazione e alle interferenze fra cinema e tradizione classica, a partire dai lavori per le giornate di studio Luminar 8 (Venezia, 5-6 febbraio 2009), da cui sono tratti alcuni dei contributi pubblicati in questo numero della rivista.
L’attenzione alla forza del cinema come strumento di produzione di ‘visioni’ dell’antico ha per altro da sempre costituito un preciso campo di interesse della rivista, come emerge dall’Indice tematico dei contributi pubblicati in "Engramma" dal 2000 in avanti; la sfida è adesso tentare di costruire, sulla base delle esperienze e delle competenze acquisite, un atlante delle mitologie cinematografiche, che sappia coniugare un approccio tematico con l’analisi dei processi culturali, e segnatamente mediologici, da cui ha origine l’attuale rinascita del classico.
Questo primo numero disegna una sorta di palinsesto cinematografico di Medea, declinato a partire dalla doppia opzione fra attualizzazione e universalizzazione del mito: il contributo di Massimo Fusillo offre una intensa galleria di ritratti cinematografici dell’eroina della Colchide, la cui fortuna non si arresta neanche nell’era dell’iPad.
Il mio saggio
Tragedia di una "femme revoltée" s
i concentra, invece, sulla particolare rilettura filmica di Lars von Trier, che immerge la barbarica Medea nell’ambiente umido e nebbioso dello Jutland, proiettando così la vicenda dentro un’astratta cornice spazio-temporale.
Il testo di Andrea Rodighiero presenta una ragionata ouverture alla carrellata di film su Medea, e in generale al nuovo tema di ricerca, perché riflette sui rapporti fra cinema e tragedia, annoverando una serie di questioni nodali – il problema dei modelli, la matrice intellettuale delle tragedie cinematografiche, le dinamiche di adattamento del mito e la sua «irriducibile storicità».
Il contributo di Lorenzo Bonoldi svela, attraverso un prezioso corredo iconografico, artifici, inganni e prestiti archeologici in due versioni cinematografiche dedicate all’avventura di Alessandro il Grande (1956, Robert Rossen; 2004, Oliver Stone)
, tracciando con grande competenza la linea di intersezione fra reminescenze classiche e traduzioni-tradimenti spettacolari.
L’intervista al regista Milcho Manchevski, curata da Cinzia Dal Maso, racconta poi le profonde contraddizioni storico-culturali che segnano lo spirito della Macedonia, lacerata fra i gloriosi fasti del mito di Alessandro e il boicottaggio politico della Grecia.
Come strumento di ricerca e di approfondimento presentiamo infine una ricognizione bibliografica ragionata sul tema, a partire dagli anni '60 fino ai contributi critici più recenti.