"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

222 | marzo 2025

97888948401

Per una liberazione dalla retorica dell’archivio

Verso una pratica dell’immagine come relazione

Alessandro Gagliardo con Filippo Perfetti e Giulia Zanon

English abstract

1 | Casa-studio di Alessandro Gagliardo e base operativa di Malastrada Film, Paternò.

Alessandro Gagliardo è un artista che lavora con le immagini custodite in formati oggi obsoleti: video analogici, nastri magnetici e altri supporti ormai dimenticati. La sua formazione, che prende avvio nelle televisioni locali siciliane, e prima ancora in una bottega fotografica, ha a che fare con il fare, con l’esperienza diretta con ciò che si ha di fronte e con chi si ha accanto. La sua pratica rifugge la ricerca di autorialità: ciò che lo muove è invece il non potersi accontentare di quanto è già assunto come dato, acquisito e prestabilito. Il distanziarsi dai modelli consueti del fare cinema – anche nel contesto del cinema indipendente contemporaneo – è evidente quanto la sua pirotecnica capacità di trasformare ogni ostacolo in un’apertura all’alternativa, in una deviazione produttiva. La domanda che innerva il suo lavoro riguarda il senso stesso del fare un film oggi, nel mondo saturo in cui il visivo e il sonoro sono trasmissibili per vie infinite. 

Una più attenta osservazione, tuttavia, sposta questa domanda, inscrivendola in un orizzonte più ampio, quello della problematicità dell’archivio audiovisivo, quello del suo costituirsi, quello della sua accessibilità. Non a caso, gli si sente spesso dire che “fare un film è il pretesto per fondare un archivio”.

La conversazione qui raccolta è il frutto di ventiquattro ore trascorse insieme tra Paternò – dove oggi Gagliardo vive e ha il suo laboratorio – e una Catania agghindata a festa per Sant’Agata. Insieme a Gagliardo e a chi scrive, sono Maria Hélène Bertino, Marco Lanzerotti e Stefano Roveda, compagni di riflessione e di visione, attorno al tavolo di discussione e davanti agli schermi. Quanto segue è un tentativo di restituire, in forma di sintesi, una trama di parole e pensieri che sarebbe impossibile trascrivere per intero.

Filippo Perfetti, Giulia Zanon | Raccontaci di questo spazio e di quello che stai facendo.

Alessandro Gagliardo | Questa è la mia base da circa più di 22 anni. Nel 2005 (credo) – esattamente vent’anni fa – è nata Malastrada Film. Questa casa è stata la prima base operativa di Malastrada Film e nel tempo è diventata, nonostante le frequenti assenze, il punto di riferimento stabile dove potevo lasciare tutte quante le mie cose, il mio archivio e il mio laboratorio. Oggi, però, le cose stanno per cambiare e fra circa un anno lascerò questo spazio perché abbiamo fatto un importante primo passo: la costituzione di una fondazione per una cineteca in un’altra parte della Sicilia, non troppo lontana da qua. Inoltre, questo è lo spazio dove vivo: là c’è il mio letto, qua c’è un cucinino, là la lavatrice, là i server.

FP | È interessante ricordare ciò che realizzavate circa una decina d’anni fa con il Festival dell’Archivio di Paternò. Qui, ad esempio, vedo il manifesto dell’edizione del 2014.

AG | L’idea del Festival Internazionale dell’Archivio e del Patrimonio (FIPA) nasce dopo quattro, forse cinque o sei anni di lavoro di raccolta di archivi. In quegli anni succedevano molte cose, era un periodo di grande fermento, e a un certo punto ci siamo detti: abbiamo accumulato un po’ di materiale, sarebbe bello farlo vedere, crearci un momento di vissuto attorno: facciamo un festival. All’epoca non esisteva nulla del genere, se si esclude, in un certo senso, Il Cinema Ritrovato a Bologna. Ma la nostra prospettiva era diversa – e lo è ancora – perché ci muovevamo – e ci muoviamo – dentro un’idea di palinsesto, ovvero di complessità non lineare. Pensavamo agli archivi non come collezioni da conservare o sui quali relazionare, ma come elementi attivi, vivi, da ricombinare, restituire all’esterno come fosse una trasmissione. Così, nel programma, non c’era mai indicazione delle proiezioni singole ma Archivio X, Archivio Y, Archivio Z… Ricordo la telefonata di uno spettatore che voleva vedere un film specifico e chiedeva a che ora sarebbe stato proiettato – gli risposi: vieni, il film capiterà. Da mezzogiorno alle quattro del pomeriggio ci riunivamo – io Maria Héléne Bertino, Andrea Coppola, Dario Castelli – per comporre/montare il palinsesto della sera, che iniziava al calare del buio. Nel frattempo, avevamo coinvolto una dozzina – forse quindici – musicisti. Il loro ingresso si basava anche sul percepire la sala e, a un certo punto, dire: dai, ora si suona. Ricordo un episodio con un suonatore di zampogna, Andrea Chesseri: era una serata in cui stavamo proiettando ore e ore di materiali montati – forse Blob, l’autoritratto ovale, forse riprese dell’Etna, non ricordo con precisione – quando, a un certo punto, sentii il verso di un gallo nel video. Mi voltai verso lo zampognaro e gli dissi: “Vai, entra suonando!”. Lui entrò, attraversando il centro della sala con questa scia lirica, ipnotica e inaspettata della zampogna (eravamo all’aperto) e, nel momento in cui raggiunse lo schermo, io tagliai l’immagine e passammo a un altro montaggio. Era questo il nostro modo di lavorare: un palinsesto pulsante, cangiante, una costruzione viva. Ogni giorno si montavano gli archivi in modo nuovo e accanto c’erano anche una mostra e tre laboratori.

GZ | Quali archivi erano?

AG | Diversi. Una mostra che avevamo allestito per il festival aveva come titolo Eterogenea. Questo era un po’ il concetto che volevamo giocare in quella prima edizione: il fatto che, per esempio, potessero coesistere una proiezione di Alberto Grifi con un filmato del carnevale di Paternò dell’Archivio Messina, archivio che avevamo messo insieme negli anni di ricerca precedente. C’erano anche i filmati della Filmoteca Regionale Siciliana, con la quale non mancarono le solite tarantelle. Nonostante la convenzioni, le riverenze formali, le carte bollate, quando presentammo la lista dei titoli che avevamo deciso di proiettare, la direttrice dell’epoca ci sollevò questioni rispetto alla “congruità” della selezione. Nei fatti, la nostra eterogeneità destabilizzava la classificazione storica e tematica di cui la Filmoteca è, o era (chissà), infarcita e tentarono di bloccarci le proiezioni. Noi rispondemmo che i film li avevamo presi e che avremmo mantenuto il programma secondo le nostre intenzioni. Che si producessero in qualche scandalo se avessero voluto impedircelo. E invece silenzio. A ripensarci, ponevamo la questione del bene comune e quell’attitudine hacker, pirata, era al contempo fame di sguardo e necessità di liberazione. Accanto a questi materiali c’era anche l’archivio di Fuori Orario, e l’intera serie televisiva di Rossellini La lotta dell’uomo per la sua sopravvivenza (di cui, a dire il vero, mandavamo sempre la sigla, proiettammo forse solo una puntata per intero). Tra gli altri titoli, Videograms of a Revolution di Ujica e Farocki (ricordo ancora la risposta di Farocki quando gli chiesi l’autorizzazione, semplicemente un: “Go ahead!”), canecapovolto, alcuni film di Gianikian e Ricci Lucchi, altri che non ricordo adesso, e c’era anche l’ultimo Debord. Per questo invitammo Alice, la moglie, per la proiezione di Son art et son temps. Per proiettare il film, Dario [Castelli] ebbe un’idea radicale: invece di sottotitolare integralmente il lavoro, che è in francese, preferì creare dei sottotitoli esplicativi, capaci di restituire il contesto della scena. Il film scorreva in francese, e ogni tanto compariva un sottotitolo che ne raccontava la situazione. Ricordo di essere andato da Alice prima di iniziare e di averle detto: “Enrico sta per partire”. Avevamo invitato Enrico Ghezzi al festival e lui, sistemato da qualche parte nello spazio, non segnalato, con un microfono radio avrebbe fatto aleggiare la sua voce introducendo il film, iniziando a parlare durante l’abbassamento di volume di una musica. Alice mi rispose meravigliosamente: “Lo fa a suo rischio e pericolo”. Gioco d’altezza e ironia rara. Maria [Bertino] ha trascritto l’intervento di Enrico. Mi sembra rilevante o comunque bello da far riemergere:

Un paio d’ore fa sulla soglia di questo spazio, mi è stato chiesto da alcune persone quando avrei parlato e di cosa: ho detto che veramente non pensavo che avrei parlato e quindi sapevo di cosa avrei parlato nel caso, ma mi sono dimenticato. Adesso, dopo tutta questa serata mi trovo in una situazione che a me piace molto e che ho sentito descrivere, sinteticamente, in modo abbastanza folgorante, ovvero: “ascoltare con la coda dell’occhio” e poi, se devo citare un esempio di eterogeneità oggi, è che sono felice di aver potuto partecipare in parte e collaborare ad una performance ai crateri silvestri dell’Etna. Però, tornando qua quello che ho trovato e che trovo fino a questo momento è una cosa molto fascinosa, ovvero non la capacità, ma direi, da parte di chi ha dis-organizzato [soffia il vento sul microfono mentre pronuncia la parola, Enrico lo rende suggestione nel discorso esclamando: “Bello, questo è il vento!”] questa cosa, di considerarci tutti e di considerarsi anche, loro per primi, un pezzo di archivio: un pezzo d’archivio di cui abbiamo pochissime tessere per mettere insieme qualcosa di chiaro, di leggibile, cioè il contrario quindi dei database che uccidono in modi diversi o ci vendono fino alla morte in modi diversi, ma qualcosa di più simile all’anarchivio, all’anarchivismo, al gioco se vogliamo, ma spesso è un gioco comunque anche molto duro. Quando parlo di anarchivio, penso, ho in mente il modo di ri-vedere le cose sul quale ci basiamo ogni momento senza volercene, potercene in qualche modo rendere conto. Per esempio, un racconto che mi ha sempre molto colpito è quello di Charcot, un maestro fondamentale per Sigmund Freud e per molti altri, che a volte, nelle sue lezioni praticamente fatte in diretta, confidava che questo corpocervello che stava in quel momento analizzando, indicando agli allievi, era in effetti un corpo che lui aveva già visto molte volte e che però non gli aveva suscitato nulla, non aveva saputo cosa pensare, mai. In quel momento, era come se gli fosse arrivata un’idea, non è proprio così impressionistico ma è vicino… e così, in generale, più in generale, diceva che osservare la cosa, […qui c’è un salto dell’audio brevissimo, ma abbastanza da non poter ricostruire effettivamente] se la cosa non esiste, ma appunto osservare la cosa, dei blocchi di cose immobili che non cambiano apparentemente, questa era la cosa che, rivedendo, mi viene in mente da dire come se fosse un film, una due tre quattro cinque sei… infinite volte una cosa che sembra sempre identica a se stessa, lì quando a un certo punto trovava il salto infinitesimale, partiva tutto se trovava un senso perfino nel suo fare individuale, che cercava normalmente di mettere da parte di… veramente, in qualche modo, di nascondere a sua volta. Direi che se pensiamo al titolo della cosa che stiamo per vedere, non dico né il titolo né l’autore, perché questo in qualche modo è in programma, è un titolo che trovo così stupendamente e ironicamente disperato che ci ridice di nuovo tutto sull’impossibilità di rendere davvero nostro un archivio, anche l’archivio noi stessi, se non vedendo in qualche modo lontano da smascherare, da ripulire, da sporcare, da mutarsi e quindi mi sembra davvero di aver parlato troppo o troppo poco… buona visione il faut danser e tutto quello che volete… ciao.

Subito dopo la proiezione di Debord, partì una jam session con i cantori calabresi, seguiti da musicisti pugliesi, siciliani insieme a Dolores Melodia e altri. La serata si trasformò in danza, gioia, euforia. Durante tutto ciò vidi Alice poggiata su una parete che fumava una sigaretta, mi avvicinai per chiederle cosa ne pensasse: “Mi sembra perfetto”, disse. Il fatto che ci stessimo divertendo, che tutto fosse mosso da una giocosa vitalità, che avessimo resistito, e fino all’ultimo, ad ogni torsione disciplinare, per lei era esattamente ciò che doveva accadere, almeno mi porto dietro così, ancora oggi, le sue parole. Il festival era intessuto anche da materiali raccolti direttamente nei dintorni del paese, o da lavori come quello di un artista di una galleria di Los Angeles, William E. Jones, che aveva realizzato dei film usando immagini di banconote provenienti da tutto il mondo, o filmati della polizia americana con cineprese nascoste nei bagni pubblici per perseguire gli omosessuali.

Proiettammo anche estratti d’archivio dedicati a Giuseppe Fava. Fu anche l’occasione per la prima proiezione a Paternò di Un mito antropologico televisivo. A ogni modo ciò che definiva l’intero dispositivo era proprio la struttura del palinsesto: film proiettati nella loro interezza solo in rarissimi casi (due o tre su sei giorni), mentre tutto il resto era montaggio, una tessitura, un corpo vivo che si costruiva giorno per giorno, non una semplice sequenza di titoli, ma una forma compositiva aperta e presente a ciò che accadeva.

FP | Forse è interessante per il nostro discorso parlare del film Un mito antropologico televisivo realizzato con Malastradafilm.

AG | È un film che abbiamo fatto io, Maria Héléne Bertino e Dario Castelli – che è il Dario dei sottotitoli al Festival dell’Archivio – che è Malastrada Film. Quello è il film fondativo, in un certo senso. Io lavoravo in una televisione locale, avevo tra i 18 e i 20 anni credo. In quella televisione c’era un armadio enorme pieno di S-Vhs una accanto all’altra. Il contenuto dei nastri era composito, così che un nastro conteneva decine di “cose” diverse. L’operatore usciva per il paese a filmare le immagini per i vari servizi del telegiornale. Quando rientrava, annotava la data e la “cosa” sull’etichetta del nastro. Mi capitava spesso di leggerle, come quando sei davanti ad una libreria e inarchi il collo per leggere il titolo dei libri. Carnevale, omicidio, consiglio comunale, manifestazione, recita di fine anno, disservizi ospedali, problemi acquedotto e così via. Leggendo i titoli e le date mi accorsi che conoscevo molti di quegli avvenimenti, ad alcuni avevo preso parte, per esempio in un qualche carnevale sfilavo con la scuola vestito da caramella, c’ero anche io. Questo mi fece capire cosa significasse quel materiale, quell’archivio, per il luogo e per le persone dove e con cui sono nato e cresciuto. La televisione cambiò diversi editori in quel periodo. Durante un trasloco mi fu chiesto quali attrezzature tecniche occorreva conservare con particolare cura, risposi che se c’era una cosa di cui avere cura erano quei nastri. Dopo alterne vicende, entrate e uscite dalla tv, mi ritrovai con 36 di quei nastri. Non li avevo ancora visti, li avevo scelti a grosse mani per quello che riportavano le etichette, nel tentativo di salvarne un pezzetto. Iniziammo a lavorarci, per anni.

Quel progetto conteneva già tutti gli elementi fondativi che ci hanno condotto fin qui. È un film che esiste in almeno nove versioni certificate, ognuna con nome e cognome: la versione Valdivia, la versione Lisbona, Marsiglia, Torino, Vienna, Messico, Parigi… Ognuna differisce per delle soluzioni, sempre minime, di montaggio. Un taglio c’è in una versione, in un’altra no, nell’altra ancora inizia in un maniera, in quella successiva riappaiono o scompaiono tutte le modifiche precedenti. Questo perché la sala ci sembrava un ottimo luogo per testare un mutamento costante di montaggio, il verificare certe ipotesi. Nel film non c’è commento, non c’è voce fuori campo, non c’è testo, non c’è musica, non ci sono didascalie, addirittura la maggior parte delle versioni si apre con un trattino bianco su nero e si chiude con una scritta “un mito antropologico televisivo”, neanche un’indicazione di più, né coda né testa. Sono solo le immagini, il girato dell’operatore.

Le televisioni locali in Italia nascono alla fine degli anni Settanta, seguendo la scia delle radio libere. Ognuno inizia a fare la propria tv. Alcune poi verranno regolarizzate con la legge Mammì, e molte – nate in quel momento – esistono ancora oggi. E sono proprio queste televisioni locali a offrirci un modello produttivo di straordinario interesse. Con una premessa fondamentale: di solito, non hanno una lira. Ma che cos’è una televisione locale? È una televisione che si occupa di uno, due, al massimo tre paesi. Poi ci sono le televisioni provinciali, e quelle regionali – che però ci hanno sempre interessato meno. Quello che avevamo capito è che, per una televisione, l’elemento davvero cruciale – ed è così in tutta Italia – è il telegiornale della sera. Perché è attraverso il tg serale che si stabilisce un vero contatto con il territorio. È lì che il territorio riesce a vedersi, a riconoscersi.

2 | Casa-studio di Alessandro Gagliardo e base operativa di Malastrada Film, Paternò.

Per questo ci siamo ritrovati con un frammento d’archivio straordinario: immaginate che ogni giorno, per anni, un operatore usciva a filmare dentro una comunità, come quella di un paese, filmando per trent’anni tutti quei momenti in cui la società si produceva in forma di cronaca (così dicevamo). Che fosse l’arrivo di un’autorità politica centrale per un comizio o il decespugliamento di un parco, il crollo di un tetto, etc., l’operatore era lì. Questo ci diede le coordinate per definire il cuore e la ratio dell’antropologia televisiva, perchè nessun punto di osservazione e registrazione, mi pare, sia riuscito a essere così capillare e costante rispetto a una comunità. Ma c’era e c’è di più. Quello che risultava chiaro era anche che eravamo davanti a una prospettiva storica particolare. In sintesi, per esempio, le evidenze politiche che emergevano da quell’archivio riuscivano a parlare di una pagina della storia nazionale da un punto di vista particolare e dal basso. Il particolare, poteva e può parlare anche del totale, ma se invece si volessero affrontare le stesse tematiche da un archivio centrale, per esempio la Rai, la dignità di quella lotta particolare, di quella organizzazione umana periferica, non avrebbe né immagini né statuto. È a partire da queste osservazioni che si è via via strutturata la nostra tensione e attenzione per i soggetti di narrazione non egemonici. Nel caso delle televisioni locali, poi, la figura dell’operatore che registrava diventava un altro degli aspetti sorprendenti: la bellezza con cui l’operatore usa quei quattro semplici stilemi di ripresa. Secondo me sono universali, ma sicuramente in Italia sono diventati un linguaggio comune: panoramica da destra a sinistra, o viceversa, zoom in, zoom out, la dolcissima messa a fuoco su un dettaglio o volto e fine. Hai un cadavere? Zoom in, poi zoom out. C’è un dentista che inaugura lo studio? Zoom out e poi zoom in. C’era qualcosa di affascinante in questa autorialità ridotta a zero, che però registrava tutto – qualsiasi cosa – con una coerenza involontaria e assoluta. Per noi, l’operatore, divenne “lo scrittore” del mito e questa indistinta propensione a ripetere le modalità di ripresa iniziò a darci indicazioni piuttosto nette sulla questione della relazione con le immagini d’archivio.

FP GZ | Belting ha scritto di queste cose nel suo I Canoni dello sguardo, certo riferendosi ad altri contesti ma non è poi molto diverso.

Sono stati evocati gli archivi e la possibilità di un’osservazione quasi etnografica che le televisioni locali rendono possibile. Queste due questioni ne aprono un’altra, più ampia e cruciale: quella della raccolta di materiali che nascono privi di un’autorialità forte e che, proprio per questo, possono costituire un patrimonio collettivo. Tuttavia, nel momento in cui tali materiali vengono istituiti come archivio, si espongono al rischio di una doppia limitazione: da un lato, l’accesso può essere ostacolato da vincoli giuridici o gestionali; dall’altro, si affaccia una forma di appropriazione da parte di chi li conserva o ne detiene il controllo. Il risultato è contraddittorio: proprio il frammento, che potrebbe costituire una chiave preziosa per delineare un profilo antropologico di una società o di un contesto, rischia di essere sottratto alla collettività e reso inaccessibile – perdendo così il suo valore di testimonianza e osservazione condivisa. Le istituzioni che nelle intezioni dichiarano di voler tutelare il materiale, sono le medesime che spesso lo sottraggono dall’immaginario e dalla vista, producendo l’effetto paradossale che quel materiale rischia una più veloce sparizione se conservato in un archivio, che esposto alla visione o all’uso di chiunque.

AG | C’è una storia che calza rispetto a questo proposito. Anni fa organizzammo una spedizione a Palermo, alla volta del Folkstudio. Volevamo conoscere quell’archivio che è il frutto di anni di ricerca antropologica in Sicilia. Riprese audio e video, fotografie, dischi, libri, insomma un catalogo variegato e ricco sulla tradizione popolare siciliana, con apertura al Mediterraneo più in generale. Ci installammo al Folkstudio per una settimana e, mentre spluciavamo, digitalizzavamo fondi che non erano ancora stati digitalizzati. Credo fosse l’anno prima del Festival dell’Archivio, così si pose proprio in quelle giornate la questione: se avremmo potuto o meno maneggiare quei materiali per programmarli al Festival, traghettarli, insomma, verso l’esterno, magari verso altre forme. Avviammo un confronto e la sostanza fu: meglio di no, per questo ci sono diritti d’autore, per quest’altro non è chiaro a chi chiedere l’autorizzazione, per questo manco a pensarci. Insomma, le difficoltà piuttosto tipiche e diffuse rispetto agli archivi, soltanto che, in quel caso, Maria individuò una questione che per me fu folgorante e resta tuttora un nodo da tenere presente. In sintesi, lei diceva: ma se questo materiale proviene dalla tradizione popolare, ovvero è stato conservato e trasmesso attraverso la cultura popolare da uomini e donne nell’arco del tempo e donato gratuitamente ai ricercatori, se le registrazioni e i materiali raccolti sono frutto di campagne sostenute con soldi pubblici, se i risultati di questi lavori hanno permesso lo sviluppo di carriere in ambito accademico e disciplinare, se gli istituti in cui questo materiale è conservato sono prevalentemente finanziati da soggetti pubblici, insomma, date queste condizioni, su quale base si rivendicano diritti economici, e anche autoriali volendo, per qualcosa che, per natura, è collettivo? Una domanda semplice e radicale alla quale però, solitamente, non fa seguito un dibattito franco ma un irrigidimento, una chiusura, quasi una corsa a blindare l’archivio.

È una faccenda seria, dalle implicazioni politiche non indifferenti e che, per questo, non si riducono alla sola questione dell’accesso ma implicano anche un più vasto ragionamento legato al valore, così come ai processi di storicizzazione. Partendo da quest’ultimo, poniamo il caso che adesso usciamo un attimo per strada, andiamo a fare una passeggiata in campagna e inciampiamo in un reperto archeologico, sapremmo immediatamente che quel reperto non ci può appartenere, non ne possiamo essere proprietari. Lo scarto è autoevidente, il reperto archeologico è inscritto per statuto in un patrimonio collettivo, quello audiovisivo è inscritto per statuto in una comportamentalità capitalista. Se il reperto archeologico ha un valore universale, quello audiovisivo è soggetto a una arbitrarietà regolamentata dalla proprietà e dallo sfruttamento. E attenzione: il problema non è tanto economico in sé. Non si tratta di dire che con le immagini non si possa guadagnare. Il nodo vero è un altro: è l’egemonia che si costruisce attraverso la proprietà. Più neghi l’accesso, più diventi un punto di riferimento esclusivo. E questa egemonia genera potere: economico, certo, ma anche politico, culturale, accademico. È un meccanismo e una logica che oggi si possono osservare diffusamente, ma per fortuna non in assoluto, con le cineteche, le fondazioni, le associazioni o le srl dedicate al cosiddetto cinema amatoriale. Ti digitalizzano, ti ‘preservano’ e poi fanno pagare per accedere al materiale – magari 2000 euro al minuto. Mi viene da pensare a Home Movies, che è la più grande e riconosciuta realtà italiana del settore (settore che, mi fa pensare, così, ironicamente, che possa nascere una Confarchivi di qui a poco). C’è una retorica pubblica sull’importanza di queste immagini, sulla loro delicatezza, sul valore del gesto di conservarle, e poi c’è una pratica privata che organizza, in senso antitetico alla retorica pubblica, accesso e circuitazione. Che sia con l’esercizio di un costo o una discrezionalità arbitraria all’accesso, il potere giocato è una questione.

C’è poi una grandissima falla in Italia, che è la pressoché totale disattenzione nei confronti del video. Le realtà italiane che si occupano di recupero e conservazione di immagini in movimento sembrano vivere ancora dentro un abbaglio nato anni fa, quando si è scoperto – o riscoperto – il formato ridotto, in particolare in Super8 e 8mm. Si è creata una narrazione legittima attorno al rischio della sua scomparsa e, dietro le pratiche di recupero e revisione di queste immagini, si è come specializzata un’estetica e un governo, delle priorità, dimenticando però che a partire dagli anni Settanta esiste una produzione video sconfinata ed estremamente fragile, sensibile.

Eppure, su questi materiali continua a pesare uno sguardo di serie B. Questa è l’area su cui vogliamo intervenire. Non solo perché è un vuoto da colmare, ma perché è lo spazio dentro cui siamo cresciuti, l’ambiente in cui si è formata la nostra sensibilità visiva. Il problema è che la marginalizzazione del video comporta anche una distorsione nei processi di storicizzazione. Voglio dire questo, riprendo un pezzo che avevo scritto nel libretto che presentava Gli ultimi giorni dell’umanità, quando ancora si chiamava On ne saurait penser a à rien:

Lo storico formalizza, mette in ordine date e conseguenze e fornisce una lettura scrivendo. Produce scarto e margine, poiché la sua cornice è sovente quella grande de La Storia. Tuttavia, prima del suo intervento, le vicende umane non sono che attraversamenti nello spazio e nel tempo di individui in relazione. L’oralità, dei tempi antichi e silenziosi, del suono naturale, ha creato i primi poemi immortali. Molti anni dopo, dopo innumerevoli, inenarrabili, incalcolabili altre vicende umane, la passione ossessionata di due fratelli, prossimi a decine di altri cercatori d’ingranaggi, in una tensione che univa il globo invisibilmente, congegnò un’invenzione che dissero, alla sua nascita, senza futuro. Erano i Lumière ormeggianti al cinematografo. Ancora un salto a gambe divaricate del gigante Fantasia, sopra la testa di capovolgimenti, pianti, amori, scoperte, miserie e glorie, lentissimi e costanti movimenti tettonici, ed ecco che l’immagine si fa per la prima volta elettronica. Lo storico non lo sa ancora, ma il dispositivo della sua grande cornice sta per essere preso definitivamente d’assalto da liberi scrittori in proprio della loro vita. 

Quando dico, scherzando, che ci sono “ottanta milioni di matrimoni o ottocento milioni di compleanni”, intendo proprio questo: che, guardando le cose lungo una parabola temporale, è evidente che alcuni di quei materiali resteranno. E che persino un compleanno filmato in video può avere, un giorno, lo stesso valore documentale che oggi attribuiamo a un frammento di ceramica da una latrina dell’antica Grecia. Chi avrebbe mai pensato che un coccio di cacatoio potesse restituire informazioni utili su una civiltà? Eppure è accaduto.

Ma tutto questo richiede una trasformazione del nostro sguardo archivistico: accettare che l’evidenza storica non si dà solo a posteriori, ma si costruisce attraverso una mediazione con il tempo a cui si è presenti, con gesti, sentimenti, pensieri, visioni. Richiede una prospettiva che non cerchi la conferma di ciò che già conosce, ma sappia affrontare l’inesplorato, l’ordinario, l’effimero. E implica anche la consapevolezza che oggi i nostri materiali – video, file, dati digitali – sono molto più fragili, più soggetti all’obsolescenza tecnica, di quanto non lo siano stati oggetti in pietra o terracotta o, scandalo degli scandali, la pellicola.

Allora come si risponde a questa fragilità strutturale del digitale? Un modo è riportare i file a una dimensione analogica attraverso sistemi di archiviazione più resistenti, come l’LTO (Linear Tape-Open), ovvero nastri magnetici ad alta durata, ampiamente usati per la conservazione dei dati digitali. Sono supporti più stabili rispetto a un hard disk: meno esposti a sbalzi elettrici, meno complessi nella meccanica.

In ogni caso, non esistono soluzioni definitive ma strategie composite. È un dato strutturale: tutto ciò che accumuliamo è soggetto alla dispersione. Il nostro compito è accettarlo consapevolmente e, al tempo stesso, attrezzarci – culturalmente, tecnicamente, politicamente – per orientare le nostre pratiche e tra queste consegnare un vissuto a qualcosa e con qualcuno continua a sembrarmi la più intelligente.

Quello che secondo me viene sistematicamente disatteso – e a cui anche le pratiche di conservazione e tutela spesso rispondono solo in modo formale – è l’elemento della cura. La conservazione acquista senso se pensata all’interno di un orizzonte affettivo, relazionale, di conoscenza, non solo tecnico. Non esiste una “tutela” neutra o oggettiva: c’è tutela se c’è una forma di relazione, di attenzione, di trasmissione. Quello che Un mito antropologico televisivo ci ha suggerito è anche questo. È una riflessione su come si trasmettono le cose, su come passano da una generazione all’altra. Su come il medium sia il tempo. Pensa a come si è trasmessa la mitologia: mutando, contaminandosi, riscrivendosi, perdendo pezzi, aggiungendone di nuovi, traghettando il tempo.

Forse per questo la visione che mi guida, magari utopica, ma per me profondamente concreta, è trasformare l’audiovisivo in scrittura. Intendo dire che viviamo in una fase ancora transitoria, che durerà forse altri venticinque anni – forse meno, forse di più. In questo tempo la priorità è esprimere informazioni testuali sulle immagini, diversamente detti metadata. È da lì che si costruisce la possibilità di una nuova scrittura collettiva. In questo processo ci sono due passaggi politici fondamentali. Il primo: la raccolta di questi metadati attraverso pratiche tecniche e relazionali distribuite come forma di resistenza alle catalogazioni e riconoscimenti automatici. Il secondo passaggio è la necessità di allenare il riconoscimento delle immagini e la loro traduzione in testo. Associare parola e immagine, creando un ponte continuo tra visivo e linguistico. Questo permette di costruire ricercabilità, attraversabilità, innesco, tensione intellettiva.

Ma la prospettiva finale – quella più visionaria – è che questa pratica di trascrizione, questa pratica poetica, porti a una vera scrittura audiovisiva. L’esempio che uso spesso è semplice: immaginiamo un software come Word. Scrivo: “Il sole è nuovo ogni giorno”, ma invece di usare un carattere tipografico qualsiasi, seleziono un “font” che non è un font, ma un archivio. Scrivo “sole” e lo associo all’archivio di Giulia; “è nuovo ogni giorno” lo associo ad altri archivi, ad altre sorgenti visive (magari “ogni giorno” lo metto in grassetto e “sole” in corsivo, e grassetto e corsivo sono nelle shortcut di tastiera che posso personalizzare come fosse un software di editing video, indicazioni di tempo: velocizza, rallenta, piazza un nero di tot secondi). Così, mentre scrivo, il software attinge in tempo reale alle immagini contenute in quei bacini e genera un montaggio audiovisivo corrispondente. È una scrittura che genera visione, e una visione che retroagisce sulla scrittura. Retroagisce sulla scrittura perché non è affatto scontato che la frase “il sole è nuovo ogni giorno” con i font, la punteggiatura che ho scelto, si avvicini a ciò che pensavo di vedere e allora tenterò di variare la scrittura per muovermi verso la visione e quella frase potrebbe mutare in “c’era una banana sul tavolo, non mi era dato vedere il cielo”. Un processo compositivo fluido, sintagmatico, dove la costruzione testuale è anche costruzione audiovisiva. Se poi immagini che questo foglio Word possa essere un pad su di un server, dove questa scrittura può essere collettiva, che a ogni variazioni si costituisce una versione xml che tiene traccia delle modifiche, allora la cosa esplode, perché da una frase originaria posso vedere la dinamica di un’intelligenza all’opera che ha prodotto un movimento di scrittura forsennato e lo posso vedere come se fosse un film in una sequenza di immagini e leggerlo allo stesso momento come una poesia inaspettata. Questa è, per me, la forma futura del video: un film in A4. Perché, è bene ricordarlo, un foglio stampato può conservarsi più di un bit. Ma, per concepire questo passaggio, occorre liberarsi dall’infrastruttura intellettuale imperante e storicizzante sull’archivio e iniziarlo a immaginare come un gigantesco innesco cognitivo con il quale relazionarsi e giocare. Il capitale l’ha capito perfettamente, l’intelligenza artificiale fa quello: succhia, organizza statisticamente e risputa ordinatamente una banana sul tavolo a tot dollari al chilo. Il contro movimento a quest’ordine è scatenare i significati e moltiplicare i punti di ingresso e di uscita. Rompere l’unidirezionalità di ogni media. Uscire dall’autobus su cui siamo saliti nel 1895. La sala è l’autobus, lo schermo è il parabrezza, e noi tutti viaggiamo guardando davanti, senza mai la possibilità di fermarci, deviare, tornare indietro, interrogare, inscrivere: interagire! Se l’audiovisivo diventa scrittura – e se quella scrittura è open source, aperta – allora l’immagine (le immagini, l’archivio, gli archivi) diventa interpellabile, attraversabile, rimbalzante, in ogni punto. La nostra occupazione prevalente in questo senso dovrebbe essere mantenere congrue e sempre reperibili le fonti, gli archivi, in modo che possano essere ri-scalabili all’indietro per vedere da dove proviene ciò che vediamo e da quel punto, volendo, modificare il montaggio da cui abbiamo iniziato la scalata verso la fonte, cambiando l’ordine o la selezione degli elementi, dando luogo a una mutazione. E registrare questa mutazione in un registro di versioni. Un film come una repository di un codice, per esempio, che non bisogna più di essere esportato in nuovi pesanti file, basterebbero i puntamenti testuali (in xml): questo taglio da minuto a minuto, di questo archivio, in questa sequenza. È immaginare, en passant, il cinema come un’interfaccia, tra le possibili, di un archivio.

Non lo so quando ci siamo vicini o lontani, in base da dove la si vede si potrebbe dire “molto” in entrambi i casi. Allora intanto lavorare sulla liberazione dell’immagine e sulle tecniche di rottura dell’unidirezionale è un po’ la faccenda.

Quando dico liberazione dell’immagine, intendo l’esercizio di relazionarsi con l’autonomia singolare, fotogrammatica, il suo portato sintagmatico, la manifestazione autoevidente di ciò che è e, quindi, rifuggire, scacciare, le operazioni di piega e torsione dell’immagine, il suo addomesticamento a una funzione.

FP GZ | Il ragionamento che fai ora va oltre, perché il sintagma non è più arbitrariamente scelto da un repertorio ma emerge da un repertorio – non voglio usare la parolaccia di archetipo – come somma, come minimo comune denominatore in un sistema archivio. 

AG | Se volete, in maniera sovversiva, la mia indicazione, il mio suggerimento, continua a essere quello di non essere didascalici nella descrizione delle immagini al fine di determinare uno sbalzo costante nell’aderenza tra parole e immagini. Se cerco cielo voglio poter scoprire mare e, quindi, il pensiero di mare che qualcuno ha avuto guardando l’immagine di un cielo. In un archivio non mi interessa trovare, mi interessa scoprire. Mi interessa cognitivamente. Mi interessa spostarmi. Partendo da questo tipo di concezione, penso che già questa generazione intellettiva dell’essere umano sia pronta per scrivere sintagmaticamente attraverso le immagini. Nei fatti lo facciamo costantemente, soltanto che non l’abbiamo ancora portata al punto di diventare una forma di espressione di per sé. 

GZ | È quello che fa già un computer.

AG | Penso a una persona: significa esperienze, retaggi culturali, amori, odi, rotture fisiche, formazioni filosofiche, è molto più sofisticata e raffinata di un computer. Si esprime.

GZ | Però è comunque condizionata.

AG | Il problema è che, per come oggi costruiamo il rapporto con le macchine, l’approccio dominante è ancora quello didascalico. Insegniamo alle macchine a riconoscere, classificare, restituire senso in funzione di una riduzione della fatica umana. È così che le programmiamo: affinché semplifichino, velocizzino, sostituiscano. Se ho 5000 ore di materiale video, è comodo che sia una macchina a individuare tutte le occorrenze del “sole”. E va bene.

Ma il punto, per me, è un altro: è capire come costruire una rete di significazione che non sia funzionale, ma immaginativa. È qui che entra in gioco una metafora a cui tengo molto: quella della rete monastica di trascrittori. La questione non è solo quella di conservare, ma di continuare a traghettare senso (inteso come manifestazione umana) riscrivendo. Il genio collettivo può costruire significati che sfuggono al calcolo, che sovvertono la logica predittiva, che aprono varchi all’immaginazione nel tempo.

Perché non è affatto scontato che l’immaginazione umana – soprattutto quella non funzionale – sopravviva nei prossimi cinquant’anni. Potrebbe essere ridotta al funzionale, all’utile, all’efficiente, al produttivo. Ed è proprio questo il rischio. Ecco perché parlo di una battaglia monacale: la necessità di mantenere vivo lo spazio in cui l’immaginazione può ancora esercitarsi sui significati, sui poteri, sulle libertà, sulle relazioni. In questo senso, la prospettiva archivistica – proprio per la profondità temporale che richiama immediatamente, per la sua sottrazione ai clamori, agli imperativi del presente – è uno spazio fertile per questo lavoro. Questa iscrizione del proprio operato in una parabola di tempo che non possiamo verificare è uno slancio prospettico di noi esseri morenti. Se c’è una fortuna in quello che facciamo, non possiamo verificarla. Non possiamo contemplarne il compimento. Ed è per questo che il senso non sta nel compiacimento, ma nella tensione. Non so se o cosa mi sopravviverà, eppure trascrivo, esercito riconoscimento e manifesto scelte qualificando ciò che ritengo umanamente importante e, segnando questa importanza, combatto contro la sua sparizione. La battaglia tra poteri e povertà è eterna. È tutto ciò fa parte della mia prospettiva umanista.

FP GZ | In questa lotta monacale tra archivi egemoni e nuove possibilità di archiviazione che aprano altri modi del possibile e di interrogazione dell’immagine, uno degli strumenti è un software, pan.do/ra, ideato e sviluppato da Jan Berger e Sebastian Lütgert. Attualmente lo stai utilizzando per alcuni progetti su cui sei al lavoro.

AG | Il lavoro che ho concluso a dicembre riguarda l’Archivio per il Cinema Indipendente Italiano che verrà presentato a maggio a Bellaria. Si tratta dell’esito di un processo di digitalizzazione che ho condotto lo scorso anno su circa 5000 film esclusivamente analogici, a nastro – VHS, Betacam, 8mm, umatic, etc. L’archivio nasce da un’intuizione molto interessante maturata alla fine degli anni Ottanta, quando qualcuno si è posto una domanda semplice: se siamo un festival del cinema indipendente, perché non iniziare a raccogliere e conservare tutto quello che ci arriva, anche ciò che non selezioniamo? Così, a partire da quegli anni, è stato inserito nella scheda d’iscrizione un campo dedicato al lascito del film all’archivio e per quarant’anni questi materiali sono stati messi da parte, conservati, sedimentati, occupando alte scaffalature. In questo lavoro ho cercato di far confluire la ricerca degli ultimi 15 anni, e pan.do/ra insieme a Bonfire sono stati il punto di arrivo di un peregrinare che sarebbe bellissimo raccontare, ma è un’altra storia. Da una parte, la possibilità che un archivio esprimesse immediatamente il suo potenziale divenendo consultabile; dall’altra, creare una modalità di visione/consultazione che permettesse anche un approccio non lineare, ma favorisse balzi tra frammenti nella vastità di un insieme e in relazione con più curatori, o diversamente detti utenti. Pan.do/ra lo permette, nel software hai una parte di editor integrata, per cui basta stabilire un “in” e un “out”, annotare questa porzione temporale e, volendo, mettere in fila questi frammenti annotati da diversi film in una sequenza. Ogni frammento è collegato al master del film, da un piccolo estratto posso risalire al film completo, e sul master posso continuare a intervenire, tagliare, descrivere, collegare. È un archivio che si attraversa per continui entra-esci, una struttura aperta che non si limita a un sistema di schede statiche (Maria, le schede statiche le chiama minimità), ma si costruisce nel movimento. Ovviamente, le schede archivistiche classiche ci sono: autore, anno, formato, sinossi, etichetta, etc. Ma il punto è che su 5.000 film di cui nessuno sa quasi nulla, il modo più interessante di esplorarli non è cercare ciò che già conosci, per esempio autori e titoli, ma favorire l’interazione per la restituzione di risposte impreviste. La logica dominante degli archivi – quella che parte dalla conoscenza per trovare una conferma – qui si rovescia. Non si trova ma si scopre, ricorda qualcosa?

È un approccio cognitivo: la forma si genera attraverso una sollecitazione esterna che non risponde a ciò che già avevo in mente. Se cerco “capelli” e la risposta che mi viene data, come dicevamo, è un cielo, allora il mio pensiero si sposta, si decostruisce, si riformula. Non ricevo la “chioma pronta all’uso” ma incontro una aneddotica poetica, qualcosa che apre e non chiude, che disorienta e quindi immagina. Questo per me è decisivo: la possibilità di scardinare il pensiero didascalico e lineare attraverso l’archivio. Un archivio che diventa un ambiente dinamico, in cui ogni gesto – un taglio, una nota, un metadato aggiunto – è già un atto di significazione che si deposita e che arricchisce l’archivio. È un gesto che trasforma un materiale muto in un materiale parlante, quindi capace di rispondere. Ogni azione rende l’archivio più vivo, più interrogabile, più ricercabile. E questo cambia il modo in cui pensiamo il montaggio, la forma audiovisiva. Ma cambia anche, forse addirittura relativizza, in un certo senso, la questione dell’accesso, perché una volta stabilito l’accesso la questione è come permettere una interazione.

GZ | L’archivio è autoriale?

AG | Non dico né sì né no, perché è una grande questione e mi piace di più aprirla. È una domanda da aprire e non da chiudere, che non deve avere una risposta univoca. Però, mi chiedo, nel momento in cui tu aggiungi il metadato – che è l’impressione e che ovviamente non è una descrizione didascalica dell’oggetto – questo ovviamente, da un lato, apre alla questione dell’oggettività: se è una persona fisica con le sue impressioni, con le sue conoscenze a fare le schede di qualsiasi archivio, anche quelli più canonici, comunque c’è una componente – lo si voglia o no – che esce dall’oggettività assoluta.

Che lo si voglia o no ogni atto di catalogazione porta con sé una selezione, un’interpretazione, un taglio prospettico. Anche il metadato più tecnico è, in realtà, una forma di sguardo. E questa è forse una delle questioni più interessanti da tenere aperte: come trasformare l’archivio in uno spazio che accoglie questa soggettività, invece di nasconderla sotto la finzione dell’impersonalità?

GZ | In questo caso, invece, si toglie dall’imbarazzo dell’oggettività assoluta.

AG | Sì. Al contrario qui si mette il dito nella piaga dentro questo imbarazzo, e si decide che l’impressione del singolo che si approccia all’archivio diventa uno strumento potenziale di navigazione anche per gli altri. 

GZ | Mi chiedo: quel singolo – chi aggiunge il metadato, che isola un frammento, che lascia una traccia – è davvero uno fra tanti? O è, in qualche modo, già una mente poetica che possiede un certo grado di consapevolezza su ciò che sta facendo?

AG | Da questo punto di vista, è uno fra tanti. È uno fra tanti nel senso che, comunque, quando sei tu davanti all’inciampo del tuo imbarazzo produrrai una cosa, se sono io davanti all’inciampo del mio imbarazzo sono un’altra cosa. Nessuno di noi però sta concorrendo a creare l’imbarazzo oggettivo di quella cosa, ma sono più livelli di inciampi di significato. Poter percorrere questo, anziché anelare a questa oggettività se vuoi storica, se vuoi estetica, se vuoi eccetera, secondo me è più generativo. Perché quel sistema di Gerber e Lütgert permette a ciascuno un’interazione, e l’introduzione di Bonfire come interfaccia rende popolare, attraverso la logica social alla quale si è diffusamente allenati, la modalità di questa interazione. E tutti, volendo, possono concorrere e guardare quello che fanno gli altri. Ritornando alla domanda iniziale, solleva anche dall’imbarazzo e dall’autorialità sì, ma perché comunque è insita volendo, è una plurima autorialità. Non perché si rivendichi l’autore come figura centrale, ma perché ogni atto di attribuzione di senso costruisce una posizione, un orientamento, una voce.

Per esempio, questo è un archivio che adoro proprio perché tutto si può dire, tranne che sia un archivio autoriale in senso tradizionale. E tuttavia, è autorializzato – paradossalmente – proprio attraverso la sua aspirazione, delle volte grottesca, a voler essere cinema. È pieno di tentativi mancati, di posture autoriali incerte, di slanci interrotti e di perle inimmaginate, ed è proprio questo che lo rende potente. Tutto ciò che è qui nasce prevalentemente dallo scarto, da ciò che non è stato mai riconosciuto, né premiato, né selezionato. Eppure, è una pagina significativa dell’immaginario italiano di quasi mezzo secolo e, proprio da questi margini, può attivarsi una nuova dinamica di senso: a partire dal frammento, da ciò che sembrava irrilevante, si riapre il gioco delle immagini e, quindi, delle idee: si rimettono in circolo forme che nessuno aveva mai considerato. È un movimento di segno contrario alla logica classica dell’autorialità – non perché l’autore debba scomparire ma perché non è da lì che bisogna partire.

GZ | Hai dei modi per difenderti dal pericolo di cedere a un compiacimento, a un’estetica, del brutto?

AG | La lotta, se vuoi, è tutta sulla persona. Sul modo in cui tu cedi al compiacimento. Perché, alla fine, penso, il compiacimento non riguarda la materia, ma la tua relazione con essa. Se cedi al compiacimento, non stai parlando dell’immagine: stai parlando di te stesso. È una questione soggettiva, quasi psicologica. Le dinamiche del compiacimento abitano dentro chi guarda, non dentro ciò che è guardato (anche se su questo occorrerebbe aprire proprio un altro capitolo di ragionamento). Allora la domanda diventa: di cosa mi sto compiacendo veramente? Se cedo al compiacimento, continuerò a compiacermi sempre – non importa di cosa. La forma cambia, ma la postura resta. L’esempio del compiacimento più banale è quello del bambino che ripete “cacca cacca cacca cacca cacca cacca”, godendo semplicemente del suono, della trasgressione, della ripetizione, dell’attenzione. Non ho quel tipo di compiacimento del brutto, ma per carità, perché dovrei? Però in un’immagine tipo questa: è un’immagine bella o brutta secondo te? 

GZ | Bella.

AG | Vedi, non è nemmeno questione di immagini belle o brutte. Il punto è che le immagini hanno anche un’altra grandissima potenzialità, perché il compiacimento è quello alla base di chi le produce e mette in forma, ok? Allora, secondo me, tutto questo lavoro che facciamo – questo approccio a balzi, questa pratica discontinua, disincantata – serve proprio a liberare le immagini da quel compiacimento originario, da quella volontà di forma che è già stata impressa su di loro nel momento della produzione. È un lavoro di liberazione, non di decorazione. Non si tratta di ‘mettere sopra’ nuovi significati, ma di far emergere quelli che già ci sono. Tutte le immagini, in un certo senso, portano in sé questa possibilità: quella di essere qualcosa d’altro, ovvero, paradossalmente, esattamente quello che sono, di significare diversamente in questo senso, di sfuggire al senso che era stato loro assegnato produttivamente, per esempio, in questo caso, nel loro dover essere cinema. Per questo dico che il rischio di compiacimento non è maggiore di quello che ogni essere umano ha in qualsiasi cosa che fa o guarda. A questo punto faccio un altro sondaggio, questa qua ti sembra un’immagine bella o brutta? 

GZ | No, questa è brutta.

AG | Non è per fare il gioco del a me piace a te no. Avevo fatto un diario di osservazione mentre lavoravo e ho scritto questo: “Pare non esserci un solo nastro, un solo lavoro, nel quale non esista un’immagine degna di essere traghettata verso un’altra struttura liberando un nuovo significato”. 

L’immagine possiede una sua autonomia. Ma questa indipendenza, da sola, non basta. Resta potenziale, latente. È lo sguardo – la sua libertà, la sua apertura, la sua disponibilità – che può attivare davvero quell’autonomia dell’immagine. Perché, senza uno sguardo capace di vedere, l’indipendenza dell’immagine rimane incompiuta. E allora torni inevitabilmente alla persona, a chi guarda. Per quel che mi ri-guarda, mi piace guardare con la coda dell’occhio, come dire, a gesto, a cattura di frame.

FP | Su questo punto ti fermo, perché per te è un’espressione di uso comune, ma per Giulia che non la conosce potrebbe non capirla del tutto. “Guardare con la coda dell’occhio” significa per Gagliardo vedere tramite una multivisione simultanea di più schermi o immagini, assumendo come principio l’incertezza, il sapere di non poter vedere tutto, che si rovescia nella possibilità di vedere anche ciò che non si sta guardando.

AG | La totalità dell’opera a me non interessa di per sé. Da tempo non riesco a vedere una cosa dall’inizio alla fine, nel senso che mi appassiona meno. Se vuoi è un approccio radicale, ma non per scelta ideologica: è semplicemente la dinamica mentale che mi dà più input, più movimento, più libertà. Forse è lo stesso tipo di imbarazzo che si prova davanti all’oggettività dell’archivio, alla sua interezza. Un’oggettività che non si riuscirà mai a ottenere – ed è giusto così. 

GZ | L’immagine che mi hai mostrato prima, per esempio – quel cadavere col cappello – l’ho trovata bella. Forse proprio perché, pur intuendo che proviene da un film italiano degli anni Ottanta, recitato da cani, quell’immagine, presa da sola, funziona. È composta perfettamente.

AG | Ed è questo il punto: il distacco descrive esattamente le potenzialità dell’immagine. La mia, infatti, non è un’analisi critica, né estetica né storica – è un’analisi per colpo d’occhio. E non sarà forse una grande analisi, ma quando ti chiedo se un’immagine ti piace o meno, il solo gesto di isolarla, di prenderla e metterla da parte, è già una sottolineatura. Se la sottolineo, è perché mi ha colpito. Che sia bella o brutta, in fondo, non ci interessa. Quanti significati ti ha aperto? Se, invece, fossimo rimasti agganciati alla totalità – con un approccio storico, sistematico, estetico – forse non avremmo nemmeno avuto questo slancio, questa conversazione. Ed è proprio questa la resistenza che oppongono le forme chiuse di archivio: non accettano la dimensione del distacco, né della singola immagine rispetto al film, né del singolo film rispetto al corpus a cui è stato assegnato e archiviato. Da qui nasce una domanda molto interessante legata al valore. Per l’archivio classico, infatti, il distacco appare come una perdita di valore, come una confusione, una relativizzazione dell’importanza. Ma qui, al contrario, è tutta l’importanza possibile. Il fatto che qualcosa si stacchi da un significato che gli è stato attribuito, non lo cancella. Quel significato resta intatto. Nessuno lo viola. Ma quell’immagine, nel momento in cui è rimessa in circolo, può generare altri significati, denunciando contestualmente, ovvero sempre portando con sé, la propria provenienza. E questo è fondamentale: non esiste una scala fissa di valore o di attitudine per le immagini, così come non puoi spiegare a tutti – una volta per tutte – come non deridere qualcun altro. Sta alla persona.

Eppure, sulle immagini, sui valori, sulle cose, insiste una forma di chiusura tutelante – ma che, a ben vedere, non tutela nulla secondo me. È per questo che dico: puoi isolare una cosa qualsiasi e non farci niente. Poi arriva Giulia – e su quella cosa scrive un libro perfetto. Le due cose sono antitetiche, ed è giusto così: l’importante è che entrambe possano accadere. Se, invece, l’accesso viene concesso solo in funzione del ‘perfetto’, allora perdiamo una possibilità enorme. Perché non esiste occhio umano in grado di contenere tutta la produzione audiovisiva. Tutto è soggetto a perdita. E allora, cos’è che può permettere a un’immagine di esistere ancora, anche solo per un attimo in più?

L’intercettazione di uno sguardo. Chiamalo desiderante, chiamalo semplicemente sguardo: ma è quello che la riconosce, le dà un nuovo significato, la rimette in circolo, e così la prepara all’incontro con un altro sguardo ancora. Se questo sguardo non può imprimersi, non posso annotare, selezionare, mettere in relazione con altro, l’immagine resta muta. Non è un problema assoluto ma una potenzialità inespressa. Tutto è soggetto a perdita. E tutta l’attività che sto facendo, lo so, lascerà dietro di sé, se saremo bravi, e anche fortunati, non più di un frammento. Ma è un frammento che vive in una parabola archivistica che guarda ai prossimi 500, 600, 700 anni. 

E forse il punto più operativo, alla fine, è questo: quale frammento voglio che traghetti il tempo? Qual è quell’immagine che può incontrare nuovi significati, diffondersi in nuove forme, riattivare altre parabole, altre occasioni? Qual è il frammento che voglio aiutare, in cui mi voglio aiutare (azzarderei), a sopravvivere?

GZ | Non è una questione di eugenetica, è una questione di darwinismo: sopravvive l’immagine che sopravvive.

AG | Per un’ibridazione di desideranti, sopravvive l’immagine desiderata. 

FP | È quel punto di apertura finale che danno le 10 tesi sull’archivio scritte dal gruppo pad.ma. Dove il tempo e la cinefilia lasciano aperta la via non solo per riconsiderare quello che contiene un archivio, ma dare un al di là, un’apertura a quel materiale verso un altro tempo e l’altro:

Il recupero del tempo perduto del cinema e del contingente può essere catturato attraverso un’esperienza di cinefilia, poiché la cinefilia nomina il momento in cui il contingente assume un significato – forse un significato privato e idiosincratico, ma uno in cui l’amore per l’immagine esprime se stesso attraverso un allacciarsi all’effimero. 

L’archivio è dunque un apparato del tempo, ma la sua relazione al tempo non è garantita né intrinseca, è transitiva e deve essere innestata. L’archivio di immagini in movimento coglie questo problema in un modo erotico e sensuale, innestando l’esperienza del tempo come atto d’amore.

Antonio Negri in Il potere costituente parla dell’amore del tempo. Questi due registri, di amore del tempo e di amore del cinema, ci permettono di pensare l’apparato del tempo cinematico e archivistico e il modo in cui questi danno forma alla nostra relazione con il nostro tempo e il tempo dell’immagine.

AG | Certo, l’unico problema è che qui entra in gioco un contrasto di forze. Per me, per esempio, nel discorso degli archivi è molto interessante la potenzialità dell’atto fondativo dell’archivio. Non mi interessano gli archivi già costituiti, mi interessa costituirli. Nelle 10 tesi sull’archivio c’è pure scritto “non attendere l’archivio”, è qualcosa di molto vicino a questo. Quello di Bellaria è un archivio, la sua potenzialità d’essere archivio era evidente anche prima. La fondazione è semplicemente la creazione di uno spazio, di un metodo, l’individuazione di istanze, necessità, desideri e, inevitabilmente, l’innesco di relazioni tra le diverse parti in causa che sono responsabili di quello stato potenziale d’archivio.

L’atto di fondazione è mettere in essere il desiderio, in mezzo alle relazioni e nei confronti di un oggetto. Questo è quello che inizia a determinare l’archivio: inizia la negoziazione dei significati, delle importanze, dei valori, si mettono in moto delle energie. Quella è la pratica della fondazione, mentre tutta la riflessione in Italia è bloccata sull’uso. Tutti gli archivi sono pronti, e gli archivi in questo momento – secondo la teoria dell’uso – stanno gridando “usatemi! usatemi!”. Non stanno facendo così gli archivi, non stanno dicendo così, credo proprio il contrario: hai mai sentito un archivio gridare? Io no. E se sparissero andrebbe bene comunque: sarebbe una perdita, certo, ma questo rientra all’interno di una logica di fine che l’essere umano dovrebbe avere come una sorta di certezza liberatoria. Non abbiamo la necessità di salvare tutto, la pratica di fondazione sta proprio all’interno di questo discorso. Riconosco un potenziale, quel potenziale lo inizio a condividere con altri e così inizia una dinamica, se vuoi, intellettuale, tecnica, fattiva, anche economica, che porta una cosa da uno stato potenziale a uno stato di manifestazione. Quello, per me, è la pratica di fondazione e questa pratica, nello stabilire una relazione con l’oggetto, avvia una conoscenza, man mano che lavori al cambiamento di stato, da potenziale a manifesto: vedi, scopri, capisci, conosci.

Progetti come questo mettono in crisi il concetto di tutela e di conservazione. La grande tragedia è che è molto più minacciato un materiale che viene relegato in una teca e lasciato morto lì che uno messo a disposizione. Qui c’è un altro punto che potrebbe essere anche un terreno di scontro, o comunque di approfondimento. Il problema è che la questione non è l’accesso a tutti, perché l’accesso a tutti abbiamo visto che cosa determina: si relativizza l’importanza di qualsiasi cosa. Allora l’accesso, da questo punto di vista, è anche una pratica di negoziazione dei significati e delle importanze. Per questo faccio un accenno alla relazione. Mi riferisco anche a sistemi chiusi che però sono esponenziali, quell’archivio non è evidentemente mio, lo dobbiamo andare a presentare e si dice: sì, e ora che ce l’abbiamo online che facciamo? Ho proposto: iniziamo creando una comunità curatoriale con 100 persone, però 100 persone che ne iniziano a definire più o meno le importanze. Iniziamo a curarlo, a studiarla questa cosa, in un ambiente, come dire, più aperto di un piccolissimo gruppo ma che possa mettere anche le basi per mediare verso l’esterno. Per poi, dopo che se ne ha una conoscenza e coscienza, aprirlo completamente. Cioè, il punto non è la disponibilità a tutto: il punto è anche come viene data la disponibilità. In questo sistema basato su pan.do/ra mantieni sempre la matrice originaria, se noi non mantenessimo la matrice originaria i frammenti diventerebbero figurine: e, invece, quando tu vedi, estrapoli, capisci i potenziali liberatori. È un diritto di clip (così si chiama in legge), cioè io dovrei avere l’autorizzazione a utilizzare una porzione e metterla all’interno di un’altra forma. Però, questo diritto si fonda sul fatto che tu prevedi l’estrazione da una forma chiusa e l’immissione in un’altra chiusa, ma qui niente si immette in un’altra, è semplicemente la provenienza di più pezzi che però hanno una matrice che rimane intatta, la sto evidenziando in un nuovo flusso. A questo non avevo ancora pensato, però il diritto di clip in questa logica potrebbe essere rivisto, in quanto il montaggio definitivo è sempre un assemblaggio continuo e momentaneo. È come quando uno vuole fare gli abusi edilizi, no? Si parte col fare “una struttura precaria”, per poter sempre dire che è removibile, e però quella copertura poi magari diventa un salotto… è la stessa cosa: è un abuso di montaggio, anch’esso precario, ma smontabile davvero, che non altera l’originale, la provenienza.

FP | Uno dei punti toccati fin qui, e da approfondire, è la questione legata alla logica che presuppone un uso degli archivi. Uno dei cambi di prospettiva che solitamente ripeti è sempre questo: “non usare l’archivio per fare il film, ma il film come pretesto per fare l’archivio”.

AG | Sì, il cinema diventa un pretesto. Il cinema come qualsiasi macchinazione diventa un pretesto (che, poi, significa anche organizzare ed esprimere vissuto che giocoforza si sedimenta, ma anche questa è un altra ricca sfaccettatura). Questo era anche un po’ il gioco, la base, di quello che era il workshop fatto allo Iuav “Faremo un film! (potremmo anche non farlo)”, perché il film è veramente il pretesto per qualcos’altro, e può esserlo. Come è anche il caso de Gli ultimi giorni dell’umanità, il film è stato anche il pretesto per mettere insieme l’archivio del materiale di Enrico Ghezzi. Nel libretto che ho scritto sulla lavorazione del film c’è un testo che si chiama “note per la lavorazione dell’archivio egh”, dove parlo di tre movimenti: riconoscimento, estrazione, trascrizione. Ci sono diverse coordinate che per me restano ancora importanti, come quelle in cui dico: se vedi anche il baluginio di un gelato rosa sul marciapiede e quella cosa ti colpisce, annotala. Perché, se a te colpisce il gelato rosa che si sta sciogliendo sul marciapiede, è probabile che io, senza la tua annotazione, materialmente potrei non arrivare a vederlo mai, quel frammento (come quel nastro magnetico e quindi quello che lo precede e lo succede). Ma è il tuo bagliore, come dire, il quale mi può portare all’attenzione, che illumina il senso di quella cosa là e io, diciamo, creativamente sono molto più interessato a cogliere il bagliore di illuminazione che ha una persona, che ha un altro individuo umano, quello che muove la sua intelligenza, piuttosto che l’immagine in sé. Quell’annotazione serviva a montare, ma nello stesso momento metadatava l’archivio, e quelle informazioni sono ancora li, il cinema è stato anche un pretesto.

3 | Casa-studio di Alessandro Gagliardo e base operativa di Malastrada Film, Paternò.

GZ | Ciò è molto chiaro nella piccola e ristretta esperienza dell’archivio tradizionale. Succede, ad esempio, quando chiedi un faldone in un archivio cartaceo, di quelli estremamente convenzionali e vedi il registro delle consultazioni. E lì, dentro quella piccola enclave disciplinare in cui ti muovi, riconosci perfettamente i nomi degli studiosi, sai cosa studiano, cosa hanno pubblicato, di cosa si occupano. E allora, nel momento in cui vedi che anche loro hanno consultato quel documento, inevitabilmente ti chiedi: che cosa ci hanno cercato dentro?

AG | Certo, ed è molto divertente ovviamente, è un piacere assolutamente perverso, è nerd, però è di chi è dentro quelle cose ma è soprattutto una dinamica di intelligenza manifesta, o no? Cioè hai visto una curiosità in azione.

FP | Ovviamente di questo non c’è traccia in un archivio tradizionale, non c’è traccia se non il registro di chi ha visionato, di chi ha visionato quelle cose là. Quello che ti permette il software su cui stai lavorando è di entrare nel lavoro e nella scoperta degli altri, cioè di far vedere veramente in atto il lavoro degli altri, la categorizzazione dei file fatta dagli altri.

AG | E quella è una possibilità da acquisire, da controbattere o meno, o anche ignorare. In altri termini: se Giulia sta lavorando all’Archivio per il Cinema Indipendente, se Giulia segna una cosa mi arriva una notifica. L’abbiamo sperimentato per Gli ultimi giorni dell’umanità, dove abbiamo creato una redazione di 11 persone che lavoravano sull’archivio (ed è portato all’ennesima potenza sull’Archivio per il Cinema Indipendente Italiano), e avevamo fatto un sistema informatico per cui, ogni volta che qualcuno faceva un taglio, arrivava una segnalazione su Telegram che diceva: vedi che c’è questo taglio. Io cliccavo, ero curioso, e mi vedevo quella porzione. Questa cosa, se tu la metti in una collettività, non hai idea di quanto sia liberatoria dal punto di vista cognitivo della creazione, perché, anche se io sto perseguendo un’idea, da un input esterno mi arriva una nuova illuminazione di significato che mi sposta da un’altra parte. E questo secondo me arriva a concepire, a dare alla forma una libertà, perché poi attorno a tutto questo c’è una politica: cioè, da una parte, ci sono più intelligenze messe assieme che illuminano più significati. È proprio un aspetto politico della creazione in un certo senso, perché per me depotenzia tutti quelli che sono gli amor propri: l’amor proprio per la mia idea, che è una cosa che combatto, a proposito dei compiacimenti. Ma li combatto non perché voglio essere purista, ma perché voglio essere anche libero dalle mie ossessioni. La collettività mi dà la possibilità di liberarmi dalle mie ossessioni: è quello che dicevamo sul liberarsi dall’imbarazzo dell’autorialità. Se sono sottoposto agli input di intelligenze altrui, e io posso anche con la mia intelligenza contribuire agli input delle altre intelligenze, è un altro movimento: non sono più l’artista che sta cercando di codificare il suo senso e metto anche in crisi una lettura impressionistica. Cioè, sono costretto a disinnamorarmi di volta in volta delle mie impressioni. E questo è sano per la mente, è movimento. Cioè non è al servizio della mia idea, non è amor proprio, è una capacità di amare che è diversa, perché nell’amare per avere curiosità e attenzione nei confronti degli altri, devi anche avere una predisposizione per farlo. E questo crea, se vuoi, non dico un’impostazione, però in un certo senso delle condizioni che mettono al centro la figura dell’altra persona, la relazione umana, prima che l’opera, prima che l’archivio, prima che le immagini, prima che le cose nella potenzialità sterminata che un genio collettivo ha in sé. E questa logica applicata alla questione degli archivi incontra anche una possibilità materiale: cioè non ho la possibilità di vedere 5000 film, non ho la possibilità di allineare 87 giorni 24 ore su 24 di visione. Mi potrei anche torturare in questa maniera ma, siccome non mi interessa la totalità, preferisco che mi arrivino a frammenti le cose. E questa è un po’ la faccenda per cui siamo partiti da questo punto di vista: ovvero che laddove c’è impedimento in accesso, c’è una perdita di valore, del valore che scatena l’operare di più intelligenze su un archivio.

FP | Nella ricerca accademica è la stessa cosa. Per quello che facciamo io e Giulia, le sciocchezze più o meno grandi o più o meno giuste che scriviamo se ne vanno a finire in un contributo che forse compreranno 50 fortunati – ma a noi cosa interessa che questi lo comprino, non ci guadagniamo noi da quel qualcosa che può incassare una rivista che ci pubblica. L’unico interesse che noi possiamo avere, se quelle cose ci interessa veramente pubblicarle, nel senso letterale di renderle pubbliche, è il fatto che quelle cose siano raggiungibili dagli altri.

GZ | E questo è anche un po’ un discorso più generale sull’autorialità.

AG | Avete presente la Corrispondenza con un editore dei Situazionisti? 

FP | Sì, l’abbiamo letta in un seminario in preparazione del numero e usata per una locandina

AG | Lì loro dicono: se tu l’avessi preso senza chiedere avresti fatto bene, ma visto che la tua cultura borghese ti porta a fare questa domanda idiota, allora ti dico: non ti permettere, non hai capito. Stupendo. La rivista dell’Internazionale Situazionista si apriva così: “Tutti i testi pubblicati in ‘Internazionale Situazionista’ possono esere liberamente riprodotti, tradotti e adattati anche senza indicazione d’origine”. Praticamente indicando il “pubblico dominio” della loro opera, anche se non c’è un’indicazione chiara se possa essere commerciabile o no, che il pubblico dominio ha. Dei giganti. “Quando solo il meglio sarà sufficiente” è il titolo del primo articolo nel primo numero della rivista situazionista della sezione italiana. E questo mi fa ri-pensare, al netto del suo contenuto, come suggestione dal titolo, che se vuoi essere libero allora devi essere ancora più bravo. Ovvero, mettersi in relazione con la migliore espressione di sé in qualsiasi campo ci si trova, in qualsiasi epoca ci si trova, con tutti i mezzi che si hanno. È quello che farà la cifra della tua opera e del tuo operare. Su questa strada, dietro queste sollecitazioni e pratiche culturali, si sono poi via via sviluppati concetti e strumenti per favorire la circuitazione e la trasformazione delle opere dell’ingegno. Penso alle licenze Gnu Gpl della Free Software Foundation (1989), e poi via discorrendo sino alle Creative Commons che individuano nell’esplicazione sintetica e chiara di ciò che puoi fare o non fare, insieme ai common deed (simboli grafici diretti), la via paradigmatica per permettere agli autori di indicare le possibilità e le condizioni per l’uso della propria opera e ai fruitori di regolarsi di conseguenza in una maniera facilitata, manifesta.

Il primo e unico documentario che ho fatto si chiamava 13 Variazioni su un tema barocco, un documentario movimentista contro le trivellazioni in Sicilia. In quel periodo stava partendo il movimento delle Creative Commons in Italia. Stavano partendo tante cose, ad esempio il crowfunding per come lo conosciamo adesso. Produzionidalbasso.com era apparso da poco. La nostra era la prima produzione dal basso in Italia che stava integralmente finanziando un film. C’era stato anche il caso del Vangelo secondo precario, ma lì la Cgil era intervenuta economicamente. Per svelare il senso profondo della falsa retorica che i petrolieri portavano in Sicilia, a noi serviva qualcosa che potesse mostrarci, darci evidenza, di quello che pensavamo e sapevamo. Così mi misi a cercare e su archive.org trovai il Prelinger Archives che rilasciava i materiali della sua collezione in pubblico dominio. Trovai così le campagne dei petrolieri americani degli anni Quaranta e Cinquanta. Grazie a questo fondo messo a disposizione apertamente riesco a trovare immagini di propaganda dei petrolieri con delle scene meravigliose. Arrivato a un certo punto mi chiedo se possiamo trovare anche le musiche in questo modo, così rintraccio un compositore, Lee Maddeford, che pubblicava le sue musiche in Creative Commons e utilizziamo quelle. 13 Variazioni su un tema barocco è un film creato e rilasciato in Creative Commons.

FP | Ricordiamoci che ci sono album dei Nine Inch Nails tutti in Creative Commons: Ghosts I-IV e Ghosts V e VI, una cinquantina di tracce bellissime tutte liberamente utilizzabili.

AG | Ma certo. E scusa, i Radiohead quando tirano fuori In Rainbows fanno più soldi degli album precedenti grazie all’offerta libera. La cosa interessante è che quando poi vado per la pubblicazione del DVD di 13 Variazioni su un tema barocco, ballata ai petrolieri in Val di Noto, devo pagare il bollino SIAE, che è una licenza sul supporto, cioè una tassa sui supporti. E per quello compili una scheda in cui dici quale musica hai utilizzato. Nel mio caso ci fu una tarantella per dire che la musica è in Creative Commons, alla fine questa cosa passa, ma nella scheda del film stavo anche dicendo che volevo 600 bollini per fare 600 DVD e, allora, una porzione del costo del bollino che stavo pagando sarebbe andata all’autore delle musiche, perché, nonostante il libero utilizzo, il diritto d’autore è inalienabile, e a lui andava sempre e comunque una royalty. Però l'uso me l’aveva concesso senza doverglielo chiedere, questa è la cosa trasparente, no? E nel momento in cui si prospettava una commerciabilità del film, stando alle regole attuali, il compositore riceveva, comunque, qualcosa. E qui è proprio la questione dell’arricchire: cioè che se dài qualcosa, non è che viene depauperata in quanto viene usata da qualcun altro, o in questo modo ti viene sottratta, ma semplicemente lascia aperta la possibilità all’altro. Anzi, volendo, accresce il suo valore, perché entra in relazione con qualcos’altro.

Avrei io una domanda per voi: questi discorsi come li legate a Warburg? 

GZ | Aby Warburg sarebbe stato a favore per questo uso anarchico delle riproduzioni. C’è questo passaggio di una lettera in cui Warburg scrive: “La grossolana opposizione tra originale e imitazione può essere superata con la mediazione di un punto di vista superiore, secondo il quale l’imitazione non è che un problema giuridico ma fa parte di una psicologia della cultura”.

FP | Questo penso che possa essere l’esergo dell’editoriale.

AG | A proposito di atteggiamenti psicologici culturali, quando tu chiedi l’accesso a qualcuno che ha un archivio,ci devi andare con molte premesse e fatte bene. Io soltanto una persona ho conosciuto, una persona di una certa umanità e cultura politica, che è la moglie di Enrico Ghezzi, Nennella Bonaiuto, che la prima volta che ha saputo che dovevamo fare un film e ci siamo incontrati, lei arriva con una busta piena di cassette e mi dice (ed ero un perfetto sconosciuto): dovete fare il film, qua ci sono le cassette. Ho detto: cosa? E lei: dovete fare il film, qui ci sono le cassette. Parliamo parliamo, poi lei si alza – ed è bellissima questa cosa, che racconto sempre perché lei ha come un lapsus sociale – perché alzandosi va per prendersi la busta, io la guardo negli occhi, e fa: no no no, non ci ho ripensato, scusami, è venuto d’istinto. 

FP GZ | A questa eccezione corrisponde una normalità in cui l’accesso agli archivi è tutt’altro che facilitato. Quale può essere il motivo?

AG | Nell’esergo c’è la risposta, è psicologia della cultura. È un costume abitato da paure e proprietà o dalle paura che la proprietà agita. Per cui, il furto presuppone una sottrazione di proprietà a cui è associato un valore, ma ciò che non viene mai considerato è che ogni accesso, ogni gesto di lavoro sull’archivio, può invece apportare valore a ciò che c’è.

Questo è il paradigma che manca: non sai ciò che perdi nel non farmi accedere. Perché la scoperta che nasce dal lavoro sull’archivio – ed è qualcosa che è emerso chiaramente anche nella giornata di oggi – non è un valore prelevato, ma un valore generato. È proprio sperimentando sul materiale, attraversandolo, manipolandolo, accostandolo ad altro, che si svela un potenziale, che si accende un significato nuovo. Ed è questo il punto: l’alternativa – quella che oggi spesso viene scelta – è lasciare tutto inerte, chiuso, immobile, come se l’unica forma di tutela possibile fosse la cristallizzazione. Ma è proprio questa chiusura a negare il valore, a impedirne l’attivazione. L’archivio non è un deposito da proteggere: è un campo di possibilità che si apre nella relazione.

FP | È un passaggio che va al di là del concetto di autorialità, perché molto spesso questi archivi sono di altre persone, cioè sono in mano a persone a cui il materiale è arrivato o che hanno costruito quell’archivio con materiali altrui, non è neanche roba fatta da loro, su cui potrebbero accampare una dimensione di valore personale, affettivo. È invece una presa di possesso.

AG | Un timore di perdita è, in realtà, una vera e propria superfetazione del possesso, perché diventa un atteggiamento psicologico. Sì, di nuovo quello che dite di Warburg: una forma di psicologia della cultura. Non si tratta neanche più di tutelare il materiale: anzi, spesso è chi dice di tutelarlo a danneggiarlo. Il primo gesto realmente incurante per esempio è quando si insozza il materiale, rovinando la visione e l’ascolto, applicando limitazioni come watermark visivi o sonori. Se mi fai arrivare un materiale spazzatura, sei tu – curatore dell’archivio – a deturparlo. Ma perché mi fai arrivare un materiale così, anche quando sei tu stesso a chiedermi di farci qualcosa? Perchè l’investimento non è sulla relazione. Allora dico, prima costruiamo una relazione, poi ci mettiamo nei paradgmi tecnici di fruizione o tentiamo di costruirne di nuovi come esito di una interlocuzione umana, dove le paure, le possibilità, i limiti, non siano pre-imposti, ma sviluppo, occasione nuova. C’è poi un altro aspetto importante: la dinamica di cui abbiamo parlato oggi, quella del balzo, che viene completamente impedita. Prima di tutto, perché non hai tecnicamente la possibilità di fare balzi tra i contenuti: non puoi annotare, non puoi intervenire su quello che stai vedendo. E così diventa impossibile affrontare la quantità di materiale senza poter attivare quel gesto di riconoscimento, che non è altro che l’allineamento tra un’idea e un’immagine.

Perché se non posso immediatamente associare un significato a quel che vedo, perdo l’occasione dell’intuizione. Oggi, per esempio, volevo far vedere a Filippo una musica che avevo visto associata a certe immagini: ho dovuto rifare tutto il giro dei file. Alla fine ce l’abbiamo fatta, ma è stato frustrante. Perché in quel momento, quando ho visto quell’associazione, non avevo la possibilità di agire subito su quel legame, su quell’istanza, su quel momento lampante di comprensione di cui parlavamo prima. E questo cosa genera? Mi rallenta. Mi frustra. Mi impedisce anche di condividere e quindi inibisce nuovi inneschi, spreca occasioni. E in generale sono tutte condizioni che impediscono di apportare appunto valore. Mi vorrei liberare da questa logica del valore – però è chiaramente anche una valorizzazione, e perché è una valorizzazione? Per il semplice fatto che spostare il materiale da una fase muta a una fase parlante…

GZ | Puoi usare la parola uso.

AG | Uso? Ho un problema con la parola “uso”. Lo abbiamo accennato anche oggi: uso è diventato un paradigma egemonico nel discorso sugli archivi, soprattutto in Italia. Un paradigma che si fonda su una concezione disciplinare precisa che si struttura, coincidendo, con titolari di saperi e interessi accademici, artistici, istituzionali.

Secondo questa logica, agli artisti si dice: dovreste usare gli archivi. Ma che modo è di porre la questione? Cosa significa usare un archivio? Perché l’uso non è mai neutro: implica un’attivazione economica, un investimento simbolico, anche una produzione di prestigio. Non necessariamente profitto – certo – ma comunque un ritorno, un riconoscimento, un posizionamento. E, in questo senso, l’uso diventa una forma di estrazione, e spesso si riduce a una prassi estetica codificata. Ma c’è un problema più profondo: quando ti dicono usa l’archivio, quello che accade è che prendi un pezzo, lo inserisci in una forma chiusa – un’opera, un film, un progetto – e l’archivio non riceve nulla in cambio. Anche quando l’operazione è intelligente, raffinata, poetica, resta una relazione unidirezionale. Tu prendi, porti altrove, e non restituisci nulla. L’archivio resta identico a prima.

Per questo dico: non usare l’archivio. Ri-vedilo intanto, inizia a stabilire una relazione. Una relazione pluridirezionale. Fonda un archivio anziché usarne uno. Se l’archivio ti offre una visione, tu restituiscigli una poetica. Se ti dà un frammento, tu lascia un segno. Non è uso, è scambio: tu mi dài un’immagine e io ti restituisco il bagliore della mia scoperta, e in questo modo ti lascio qualcosa. L’uso è estrattivo – unidirezionale. La relazione è pluridirezionale. Il problema è che oggi siamo sopraffatti dalla quantità di immagini – e allora ci viene l’ansia: facciamone qualcosa, subito, qualsiasi cosa. Ma no, nessuna produttività forzata. Non è necessario che tutte le immagini servano a qualcosa. Possiamo anche non farne nulla, lasciarle lì, lasciarle in attesa.

Anche perché, in questo panico da eccesso d’immagini, si sta diffondendo una sorta di estetica automatica dell’archivio: rovistare per trovare materiali da integrare in un linguaggio già codificato, già leggibile, già prestabilito. L’occhio umano reagisce all’immagine del passato con una rapidità spaventosa: la classifica, la incasella, la inserisce in un filone, in uno stile. Ma l’archivio non deve diventare un banco di forme riconoscibili. Se, invece, si lavora su un processo di liberazione dell’immagine, allora non importa se è un Super8, una VHS, un negativo fotografico, etc., ciò che emerge è l’immagine in quanto tale, come frammento liberato in una nuova scrittura, come traccia che può ancora produrre senso, fuori dalle gabbie estetiche e dalle torsioni produttive. È in questa ottica che l’immagine può tornare a parlare. E può anche apportare una forma liberatoria nella società, proprio nella misura in cui smette di essere funzionale. Che resti degna di un canto.

English abstract

We present a dialogue with Alessandro Gagliardo, focusing on his artistic work with obsolete media formats and his approach to filmmaking as a militant use of the archive. The conversation delves into his experiences with Malastrada Film, the Festival dell'Archivio and his views on the role of archives in contemporary visual culture. Gagliardo advocates a dynamic, non-linear engagement with both archival material and the archive itself, emphasising the active role of the archivist in the creative process.

keywords | Alessandro Gagliardo; Malastrada Film; Archive; pan.do/ra; Enrico Ghezzi; Alice Debord; Festival del Cinema Indipendente Italiano.

Per citare questo articolo / To cite this article: Alessandro Gagliardo con Filippo Perfetti e Giulia Zanon, Per una liberazione dalla retorica dell’archivio. Verso una pratica dell’immagine come relazione, “La Rivista di Engramma” n. 222, marzo 2025.