"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

222 | marzo 2025

97888948401

10 tesi sull’archivio

gruppo pad.ma, edizione italiana a cura della redazione di Inannunciato

English abstract

Presentazione

Presentiamo la prima traduzione italiana di 10 Thesis on the Archive, co-realizzato dai membri del gruppo pad.ma, Shaina Anand, Laurence Liang, Sebastian Lütgert e Ashok Sukumaran, durante Don’t Wait for the Archive – I (workshop Homeworks, Beirut, aprile 2010). Questa precisazione sull’autorialità del testo la desumiamo da Autonomous Archiving (Barcelona 2016), dove il testo è pubblicato alle pagine 79-94. Non possiamo dire con certezza che questa sia l’attribuzione corretta o esaustiva di chi ha scritto le Tesi, in quanto altre fonti danno referenze diverse, non sempre conformi a questa. Non riuscire a dare un sicuro riferimento dell’autorialità delle Tesi ci sembra in linea con alcune delle indicazioni e degli auspici contenuti nel testo. La traduzione – realizzata durante il workshop “Faremo un film! (potremmo anche non farlo)” (Università Iuav di Venezia, 9-17 ottobre 2023) coordinato da Flavia Mazzarino, Filippo Perfetti e Elena Roccaro, condotto da Alessandro Gagliardo – è stata fatta collegialmente dalla redazione di Inannunciato (formata dai partecipanti al workshop), e poi revisionata da Chiara Velicogna.

I. Non aspettare l’archivio
II. Gli archivi non sono riducibili alle specifiche forme che assumono
III. La direzione dell’archiviare sarà estroflessa, non introflessa
IV. L’archivio non è una scena di redenzione
V. L’archivio tratta non solo con il residuo ma anche con la riserva
VI. Gli storici si sono limitati a interpretare l’archivio. Eppure lo scopo è sentirlo
VII. L’immagine non è solo il visibile, il testo non è solo il dicibile
VIII. Il passato delle esposizioni minaccia il futuro dell’archivio
IX. L’archivio è governato dalla legge dell’appropriatezza intellettuale che è contrapposta alla proprietà
X. Il tempo non è esterno all’archivio: è interno

I. Non aspettare l’archivio

Non aspettare l’archivio è spesso una risposta pratica all’assenza di archivi o di raccolte organizzate in molte parti del mondo. Ciò suggerisce che attendere l’archivio di stato, o aspettare un’altra forma di archiviazione, potrebbe non essere una buona pratica. Questo non implica necessariamente che ogni collezione o assemblaggio debba essere definito un archivio, né che tutte le pratiche mnemoniche delle arti debbano a loro volta essere costrette a formare un archivio. Ciò suggerisce invece che l’archivio vada messo in campo come un insieme di curiosità condivise, di politiche locali, oppure un’avventura epistemologica. In questo senso l’impulso archivistico può essere rilanciato, per esempio, come possibilità di creare alleanze: tra testo e immagini, tra istituzioni maggiori e minori, tra registi, fotografi, scrittori e computer, tra le pratiche online e offline, tra residuo e ciò che è conservato, tra il tempo e ciò che è sfasato dal tempo. Si tratta di alleanze contro la dispersione e la perdita, ma anche contro la segregazione, la privatizzazione e la tematizzazione degli archivi, che sono preoccupazioni globali, immediate e cogenti. 

L’archivio che ne risulta potrebbe non essere misurabile o valutabile qualitativamente con criteri ordinari: includerà e rivelerà conflitti, esacerberà le crisi circa la proprietà e l’autorialità. Rimarrà radicalmente incompleto, sia nel contenuto che nella forma. Nonostante ciò, è qualcosa che un osservatore interessato sarà in grado di attraversare: cavalcando la capacità connettiva della frase, i dirompenti balzi delle immagini, e la capacità distributiva che è innata alla tecnologia.

Non aspettare l’archivio significa entrare dalla porta laterale nel fiume del tempo, non annunciati, proprio come fece il digitale non molto tempo fa.

II. Gli archivi non sono riducibili alle specifiche forme che assumono

Le iniziative di archiviazione sono spesso una risposta al monopolio da parte dello Stato della memoria pubblica, oltre a essere una risposta agli effetti politici che scaturiscono da questo potere mnemonico. Ma i tentativi di creare un archivio non sono necessariamente suppletivi alla macchina statale della memoria.

L’archivio di stato è solo una forma di archivio e non la definizione di archivio stesso. Come forma specifica, gli archivi di stato non esauriscono il concetto di archivio. Il compito di creare un archivio non è quello di replicare o di imitare gli archivi di stato, ma di produrre creativamente un concetto di archivio.

Un archivio crea attivamente nuovi modi di pensare l’accesso alle nostre esperienze individuali e collettive. Un archivio non soltanto supplisce alle lacune degli archivi di stato, ma rende instabile anche ciò che vi si trova.

Nietzsche ha definito la felicità come la capacità o il potere di vivere ciascuno la propria vita attivamente – affermando la particolarità o la specificità del proprio momento nel tempo. Così facendo egli rifiutò di sussumere la possibilità concettuale di ciò che significa essere felice sotto una forma generica di felicità.

Quando noi sussumiamo il concetto di archivio alla sua forma nota, ne siamo esauriti e soffriamo di febbri e mal d’archivio. Gli impulsi contemporanei di archiviazione provano a realizzare il potenziale dell’archivio in quanto virtualità, e questo ci sfida a analizzare le possibilità generative di un archivio oltrepassando il ricatto della memoria e dell’oblio.

La produzione di un concetto è una provocazione, un rifiuto di rispondere alla chiamata del conosciuto e un’opportunità per intensificare le nostre esperienze. L’archivio è pertanto non rappresentativo, ma creativo, e l’atto di definire qualcosa un archivio non è la fine, ma l’inizio di un dibattito.

III. La direzione dell’archiviare sarà estroflessa, non introflessa

Tendiamo a pensare all’atto di archiviare come un movimento introflesso di raccolta di cose: trovi pezzi e pezzetti, li metti insieme, li conservi in un luogo stabile e sicuro. Il paradigma di ciò è la fortezza, o la biblioteca in fiamme. Questo modello fornisce già un senso chiaro dei limiti, o dei fini, dell’archivio: incendio, inondazione, perdita di dati.

Possiamo pensare diversamente all’archivio? Quando Henri Langlois, fondatore della Cinémathèque Française, affermava che “la maniera migliore di conservare un film è proiettarlo”, alludeva alla filosofia opposta dell’archiviare: quella di usare e consumare le cose, di tenerle o portarle in circolazione, e letteralmente proiettarle in avanti (latino: proicere), in un processo condiviso e distribuito che opera sulla base della diffusione e non della consolidazione, attraverso l’immaginazione e non la memoria, e rivolto alla creazione, non alla conservazione (Langlois in Roud 1999, 20).

Molti degli archivi digitali di oggi sembrano ancora aderire al modello della fortezza, nonostante, per definizione, non conservino più originali preziosi e unici ma forniscano copie economiche e riproducibili. Queste copie possono essere proiettate su scala più larga, e con migliore efficienza, rispetto a quel che né Henri Langlois né Walter Benjamin, teorico della riproduzione tecnica, sostenitore del suo potenziale tecnologico e critico del suo uso politico, avrebbero mai potuto immaginare. Archiviare e l’essere archiviato può diventare molto popolare.

Le pratiche di archiviazione sorprendentemente resilienti che gravitano attorno a Napster o Pirate Bay, e la promessa ancora più virulenta di archivi reali o immaginari ben più profonda di questi — se, per un momento, potessimo fare un passo al di fuori dall’epoca del copyright in cui tutti abitiamo, e abbracciare pienamente i mezzi della riproduzione digitale che la maggior parte di noi ha a disposizione— non solo seguendo direttamente la traiettoria tracciata da Benjamin e Langlois, ma estendendola a un momento in un futuro non troppo distante in cui penseremo all’archiviare principalmente come a un movimento di estroflessione, di distribuzione delle cose: si creerebbero dei network ad hoc con nuclei mobili e periferie dense, si scambierebbero le nostre matrici con una miriade di backup esterni, e quindi si abbandonerebbe la tecnicamente obsoleta dicotomia tra fornitori e consumatori.

Il modello di questo tipo di archivio, il suo concetto filosofico, potrebbe essere il virus o il parassita. E ancora, questo modello ci permette anche di fare una valutazione provvisoria dei rischi e dei pericoli dell’archiviazione estroflessa: mancata infezione (deficit di attenzione), mutazione rallentata (istituzionalizzazione), diffusione degli antibiotici (gestione dei diritti), morte dell’ospite (collasso del capitalismo).

IV. L’ archivio non è una scena di redenzione

Per quanto sia importante l’impulso politico degli archivi, altrettanto importante è riconoscere che gli archivi non possono essere legati a una politica di redenzione. Gran parte di ciò che si può pensare come impulso progressista nella storiografia è connotato dal desiderio di redimere la storia tramite una logica emancipatrice: la resurrezione dei soggetti subalterni nella storia, la contrapposizione della storia orale contro quella scritta, e la speranza che il coinvolgimento con il residuale dell’archivio conduca a una politica trasformativa. Le tesi sulla filosofia della storia di Benjamin sono servite da importante punto di riferimento intellettuale per tali iniziative.

Benjamin afferma: “La tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato d’eccezio­ne’ in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo. Allora ci starà davanti, come nostro compito, di suscitare il vero stato d’eccezione” (Benjamin [1940] [1942] 2014, 486). 

Benjamin non nasconde la spinta di redenzione messianica nelle sue tesi: secondo lui “In altre parole, nell’idea di feli­cità risuona ineliminabile l’idea di redenzione” (Benjamin [1940] [1942], 483). La speranza, in questa formulazione, è primariamente messianica, “ogni secondo era la piccola porta attraverso la quale poteva entrare il messia” (Benjamin [1940] [1942] 2014, 493). Altrove Derrida scrive che “una messianicità spettrale lavora il concetto d’archivio e lo lega, come la religione, come la storia, come la scienza stessa, a un’esperienza molto singolare della promessa” (Derrida [1995] 1996, 47).

Le iniziative di archiviazione hanno inconsciamente continuato questo impulso teologico. Il loro desiderio di documentare ciò che è assente, perduto o dimenticato allestisce un dominio politico che spesso privilegia l’esperienza di violenza e trauma tale per cui l’esperienza di violenza distrugge il regno dell’ordinario e del quotidiano.

Dunque, se si esamina il modo in cui le storie degli oppressi sono scritte, è come se la vita fosse sempre sussunta dalla minaccia della morte, il vivere fosse per sempre condannato a un esistenza d’ombra sotto l’idea della “nuda vita”. La sussunzione della vita in una condizione di nudità è tanto illusoria quanto le pratiche estetiche che provano a redimere l’esperienza dalle grinfie del tempo e della storia.

Se l’immaginazione archivistica consiste nel recuperare se stessa dalle politiche di redenzione, dovrà tenere conto di una radicale contingenza dell’ordinario. Dovrà relazionarsi con “forme di vita” le quali eccedono lo sguardo totalizzante dello Stato così come il suo altro redentivo. La contingenza radicale riconosce le possibilità di sorpresa sia nell’archivio sia nella possibilità che una discesa nell’ordinario sospenda la rivendicazione urgente delle emergenze.

V. L’archivio tratta non solo con il residuo ma anche con la riserva

La produzione capitalistica procede isolando l’estratto dalle materie prime producendo il residuale, il materiale lasciato alle spalle. E l’archivio, resistendo all’obsolescenza, è formato con questi residui. Questa è una delle visioni comuni. Ma c’è anche un altro posto nella contemporaneità in cui si possono trovare il ruolo e la responsabilità dell’archivio. Ossia, riferendoci alla riserva, ciò che non è ancora stato messo in campo. Ed è ciò che, come il residuo, è messo in ombra.

Nei sistemi di sorveglianza, per esempio, siamo costretti a ripensare l’idea di “scarto”. Queste milioni di ore al giorno di immagini a circuito chiuso, non sono soltanto gli avanzi della macchina della sorveglianza, ma ne sono l’accumulazione costitutiva: sono la massa che attende l’evento, e questa stessa massa produce la minaccia.

Seguendo Michel Serres potremmo descrivere questa massa come dotata di un “valore di abuso”, qualcosa che precede il valore d’uso e il valore di scambio (Serres [1980] 2022, 104).

Certamente il valore di abuso e di scambio possono passare di mano in mano. La linea di demarcazione tra residuo e riserva può essere instabile. Improvvisamente, l’arsenale nucleare è reso inservibile e venduto come spazzatura. Le nostre idee accumulate scadono. Ma guardare alla riserva ha un valore strategico per l’archivio. Si tratta di un modo di considerare il capitale non solo come produzione di profitto dal lavoro e dalla merce, ma anche come l’accumulazione che può essere usata per la speculazione e l’estrazione di rendita.

L’archivio, in questo senso, è congeniale alle pratiche che sabotano l’accumulazione capitalistica, e a quelle che hanno un interesse per il futuro, e per l’“irrealizzato”.

VI. Gli storici si sono limitati a interpretare l’archivio. Eppure lo scopo è sentirlo

Gli archivi sono stati tradizionalmente la dimora degli storici, e la concezione epistemica di storia è sempre stata alloggiata nella polvere degli archivi. Ma nell’ultima decade abbiamo anche visto un’esplosione di interesse per gli archivi da parte di ingegneri informatici, artisti, filosofi, professionisti dei media, filmmakers e performer.

Gli storici hanno risposto ricorrendo a una difesa disciplinare che si affida a un linguaggio “dell’autorità della conoscenza” e al “rigore”, mentre gli artisti si ritirano in una zona di beata trascendenza estetica. C’è qualcosa di estremamente comodo rispetto a questa zona, dove la storia continua a produrre “fatti sociali” e l’arte produce “affezione”. Le dichiarazioni di incommensurabilità forniscono una “sicurezza euforica” e pensare al potenziale affettivo dell’archivio significa disturbare la sicurezza euforica che nega le condizioni del conoscere, le possibilità di agire oltre il conosciuto.

Piuttosto che collassare in un rafforzamento di fortezze disciplinari che precludono i non addetti ai lavori e che presidiano gelosamente l’autenticità del sapere e dell’esperienza prodotte dagli storici, o ricorrere a un linguaggio ostile da parte di attivisti e artisti, come possiamo pensare agli sconfinamenti negli archivi come a un’espansione delle nostre sensibilità e le sensibilità degli archivi? Gli archivi non sono minacce, ma inviti. Lakhmi Chand, uno scrittore attivo nel media lab di Cybermohalla in New Delhi si chiede “Kya kshamta ke distribution ko disturb karta hai Media?”. I media disturbano la distribuzione di ‘capacità’ o ‘potenziale’? (Chand, Cybermohalla Ensemble 2011, 85)

L’invito a pensare alla capacità di disturbare il kshamta [potenziale] dell’archivio sembra essere connotata da una relazione diversa con il tempo. L’idea di portata segna un tempo: questo tempo non è nel passato né nel futuro, anche se possono essere connessi, è un segnale del presente – o precisamente di dove ti trovi.

Anna Achmatova scrive nel Requiem:

Nei terribili anni della “ežòvščina” ho trascorso diciasette mesi a fare la coda presso le carceri di Leningrado. Una volta un tale mi “riconobbe”. Allora una donna dalle labbra bluastre che stava dietro di me, e che, certamente, non aveva mai udito il mio nome, si ridestò dal torpore proprio a noi tutti e mi domandò all’orecchio (lì tutti parlavano sussurrando):
– Ma lei può descrivere questo?
E io dissi:
– Posso.
Allora una specie di sorriso scivolò per quello che una volta era stato il suo volto.
1 aprile 1957. Leningrado (Achmatova [1935-1940] [1963] 1997, 27)

La domanda “puoi descriverlo?” non era una domanda riguardante una capacità, o una possibilità del linguaggio di dire certe cose in certe condizioni. Si tratta di un momento oppure di un contesto che emergono e in cui ognuno può essere messo di fronte alla domanda “Puoi?”. E si deve rispondere “posso” o “non posso”.

Come pensiamo a fondo ai modi con i quali gli archivi ci pongono davanti alla sfida di pensare alle esperienze di potenzialità? Soffermarsi al potenziale affettivo dell’archivio è pensare come gli archivi possono animare le intensità.

Brian Massumi asserisce che l’affetto è criticamente legato all’intensità. Siamo sempre consapevoli del nostro potenziale di affezione reciproca, ma questo potenziale sembra anche essere appena fuori dalla nostra portata. Forse perchè non è presente in realtà – ma soltanto virtualmente. Massumi suggerisce che:

Forse se noi prendiamo misure piccole, pratiche, sperimentali, strategiche per espandere il nostro registro emozionale, o alleniamo il nostro pensiero,a ogni passo possiamo accedere a un poco in più del nostro potenziale, averne effettivamente di più a disposizione. Avere più di un solo potenziale intensifica la nostra vita. Non siamo schiavi delle nostre contingenze. Il nostro grado di libertà in ogni singolo momento corrisponde alla quantità di profondità esperienziale a cui possiamo accedere andando avanti – quanto intensamente stiamo vivendo e ci stiamo muovendo (Massumi 2002, 214).

Come immaginiamo le pratiche archivistiche come le misure piccole, pratiche, sperimentali, strategiche che perseguiamo per espandere le nostre sensibilità? Il potenziale affettivo degli archivi è dunque sia una questione politica che estetica nella sua abilità di attivare le capacità di agire, ed è nella facoltà stessa di immaginazione e possibilità che questo conflitto è collocato.

VII. L’immagine non è solo il visibile, il testo non è solo il dicibile

Serge Daney ha fatto una nota distinzione tra l’immagine e il visuale. L’immagine è ciò che ancora resiste contro l’esperienza della visione e il visuale. Il visuale è solo la verifica ottica di quello che potremmo già sapere o che potremmo leggere o decifrare attraverso i riflessi della lettura. L’immagine, d’altro canto, è alterità (vedi Daney 1999).

Jacques Rancière, in Il futuro dell’immagine, svilupperà ciò dicendo che le immagini non sono limitate al visibile. Rifiuterà la subordinazione dell’immagine al testo, del materiale alla storia, dell’affezione al senso. Suggerisce che il regime più comune delle immagini è quello che presenta una rapporto tra il dicibile e il visibile, tra immagine e testo, tra presenza e iscrizione. Una relazione che gioca sia sull’analogia che sulla dissimulazione reciproca. Ma certamente: “Questo rapporto esige solo che i due termini siano materialmente presenti. Il visibile si lascia disporre in tropi significativi, la parola offre una visibilità che può essere accecante” (Rancière [2003] 2007, 35).

Rancière dunque conia la frase-immagine. La frase-immagine è una forma che potrebbe trovarsi tanto in un romanzo così come in un montaggio cinematografico. In questo senso la frase-funzione fornisce la continuità contro il caos, mentre l’immagine-funzione interrompe il consenso (Rancière [2003] 2007, 80-81).

La frase-immagine fornisce un modo di pensare attraverso l’incommensurabilità modernista della pittura, dei lavori letterari, e dei film, cioè la loro autonomia. Ci permette di riconoscere le loro appropriazioni, invasioni e seduzioni reciproche. L’archivio assembla un altro luogo dove possiamo concepire, in modo simile o diverso, i punti di congiunzione e la distanza tra le funzioni della scrittura e delle immagini. Ciò suggerisce le possibilità dell’arte, se intendiamo l’arte come l’alterazione delle loro somiglianze. Con l’introduzione del software, abbiamo già un’altra possibilità di disgiunzione, una terza eterogeneità, un altro elemento di sorpresa. E dunque, per estendere forse le nostre tesi: il software non è solo il ricercabile o il database.

VIII. Il passato delle esposizioni minaccia il futuro dell’archivio

Qual è la relazione tra la memoria e la sua esposizione? Tra l’archivio, “il sistema che regola gli aspetti delle affermazioni” e una cultura di apparenze? In Archives of Modern Art, un saggio del 2002 per la rivista “October”, Hal Foster sviluppa tre fasi utili del museo quale luogo della memoria nell’arte moderna (Foster 2002).

Nella prima fase, nella metà dell’Ottocento, Baudelaire scrive che “l’arte è la mnemotecnica del bello” (in Foster 2002, 82). Quella che per esempio con Manet è diventata l’arte della citazione esplicita. Qui l’arte è arte della memoria, e il museo è la sua architettura.

Il secondo momento avviene con il saggio di Theodor Adorno Valéry, Proust e il museo, che introduce un germe di sospetto verso la concezione del museo come “mausoleo” dell’arte. Il museo è dove l’arte va a morire. Ma è anche il luogo di un progetto redentivo di “rianimazione”.

La terza fase avviene quando questa rianimazione è possibile tramite altri mezzi, vale a dire attraverso la riproducibilità tecnica benjaminiana. La differenza chiave si gioca qui tra il concetto di riproducibilità in Benjamin, che minaccia il museo, e il concetto di riproducibilità in Malraux che lo espande all’infinito. Per Malraux è esattamente la distruzione dell’aura che diviene la base per immaginare un museo senza fine.

Ma qui ci sono problemi di traduzione, scarti, tra il Museo immaginario di Malraux, che in inglese si traduce il “Museo senza pareti”, e il concetto di “Museo senza fine”. Da una parte, ciò ha alimentato la fantasia della circolazione senza fine e della vista attraverso il vetro da parte di molti architetti di musei modernisti, mentre dall’altra continua a tenere viva la promessa che le strutture istituzionali dell’arte possano avere una relazione con il mondo. Lo scritto di Foster sull’archivio dell’arte moderna occidentale si conclude con una divisione dell’arte stessa, tra la sua funzione di esposizione che appare in forma spettacolare nelle mostre, e la sua funzione di memoria, che si ritira nell’archivio.

La sfida per l’archivio, che oggi minaccia le esposizioni con la sua propria capacità seduttiva di ricollegare e riarticolare queste due funzioni, è come non andare a finire per diventare una rampa a spirale, o un mercatino delle pulci. In altre parole, come evitare la tirannia di due libertà “storiche”: una, le strategie formali (moderniste) del coinvolgimento del pubblico nello spettacolo; e due, l’eclettismo (postmodernista) in cui ogni cosa, cooptata e curata, può acquisire “valore espositivo”. Oppure si potrebbe metterla in questo modo: come l’archivio evita la confusione che persiste nelle mostre (come Irit Rogoff nota a proposito della Tate) tra accessibilità come intrattenimento e strategie di marketing, e l’accesso come qualcosa di più profondo, di “più vicino alla domanda” (vedi Rigoff 2014).

IX. L’archivio è governato dalla legge dell’appropriatezza intellettuale che è contrapposta alla proprietà

Man mano che il valore monetario dell’economia dell’informazione globale assume maggiore importanza, il valore astratto delle immagini viene articolato con il linguaggio delle proprietà e dei diritti. Il linguaggio della proprietà intellettuale normativizza la nostra relazione con la conoscenza e la cultura, naturalizzando e universalizzando idee limitate di autorialità, possesso e proprietà. Questo linguaggio si è esteso dal mondo dei software database agli archivi tradizionali dove il copyright serve da guardiano kafkiano e l’uso dell’archivio diviene una questione di gestione dei diritti.

Al di là della condizione dell’archivio come proprietà si trovano le proprietà dell’archivio che possono destabilizzare e complicare le nozioni acquisite sul diritto. Queste stabiliscono il loro stesso codice di condotta, fissano le loro proprie regole d’accesso e sviluppano un’etica dell’archivio che sono al di là dell’orizzonte dell’immaginazione della giurisprudenza. Se l’archivio è un campo di invenzione, allora quali norme sviluppa per sé che non diano per scontato un predeterminato codice dei diritti. Come le pratiche dell’archiviare destabilizzano le idee della proprietà mentre allo stesso tempo rimangono testardamente insistenti sulle questioni di “appropriatezza”.

L’appropriatezza intellettuale non stabilisce alcuna regola universale di come gli archivi raccolgono e mettono a disposizione gli artefatti. L’appropriatezza riconosce che l’archivista gioca un doppio ruolo: agisce come affidatario della memoria di altre persone e come trasmettitore di un sapere pubblico. L’impulso schizofrenico evita ogni facile adozione di una singola norma. L’appropriatezza non definisce un insieme di principi legislativi regolati da un’etichetta, piuttosto si basa sulla cura e la responsabilità che gli archivisti mostrano nella conservazione di oggetti culturali e storici. L’archivio digitale traduce questa etica della cura in una comprensione dell’ecologia del sapere e dei modi attraverso i quali questa si sostiene attraverso una logica di distribuzione, piuttosto che di mera accumulazione.

Ciò ricorda la storia di come gli archivisti siano stati definiti al pari di pirati, e passa in rassegna le acquisizioni dell’archivio, documenti e raccolte dati per produrre un resoconto di se stesso. Nel dichiarare la loro autonomia, gli archivi ambiscono a produrre norme al di là della normatività, e indirizzi etici al di là della legge.

X. Il tempo non esterno all’archivio: è interno

Nella sua storia del libro e della cultura della stampa, lo storico Adrian Johns argomenta contro ciò che storicamente è stato visto come “fissità tipografica” fondata dalla rivoluzione della stampa (Johns 1998). Prima di lui alcuni studiosi avevano argomentato che le civiltà della scrittura erano caratterizzate da ogni sorta di errori manuali, e che il libro non era pertanto un oggetto stabile di conoscenza fino all’avvento della tecnologia della stampa.

Adrian Johns dimostra la fallacia di questo assunto considerando i diversi conflitti che sono emersi con la tecnologia della stampa, e lungi da assicurare fissità o autorità, gli inizi della storia della stampa erano caratterizzati dall’incertezza. Per Johns, l’autorità della conoscenza non è una qualità intrinseca, ma transitiva. È un tema che non può essere separato dalle tecnologie che alterano i sensi, la nostra percezione e la nostra esperienza del sapere.

Anziché parlare di autorità come qualcosa di intrinseco a una particolare modalità di produzione della conoscenza o a una qualche altra forma tecnologica, il lavoro di Johns dimostra come sarebbe più utile considerare l’ampiezza degli apparati della conoscenza che contribuiscono a stabilire l’autorità. 

Le precondizioni di conoscenza non possono essere facilmente rese oggetto della conoscenza. Si tratta di rendere evidenti o note le strutture stesse della conoscenza, che offrono una prova inconfutabile dell’imperfettezza della conoscenza. 

Gli archivi sono anche apparati che coinvolgono le nostre esperienze e percezioni del tempo. Questo è particolarmente vero per gli archivi di immagini, dacché la fotografia e cinema sono anch’essi apparati che alterano i nostri sensi. La concezione tradizionale di un archivio come uno spazio che raccoglie il tempo perduto guarda all’esperienza del tempo come a qualcosa che è in qualche modo esterno all’archivio stesso. Si perde di vista il fatto che l’archivio sia anche il luogo dove gli oggetti acquisiscono il loro valore storico come risultato dell’essere collocati all’interno di un apparato temporale. L’immaginario di un archivio video quindi gioca con plurimi sensi del tempo dispiegato. 

Nella sua riflessione sul rapporto tra fotografia, cinema e archivio, Mary Ann Doane afferma che fotografia e cinema hanno un intrinseco istinto archivistico (Doane 2003). Eppure questa natura archivistica è paradossale, per via della relazione tra le immagini in movimento nella contingenza. La presenza del contingente, dell’effimero, e dell’involontario sono tutti aspetti del tempo cinematografico, e la sfida delle immagini in movimento in quanto archivio è il recupero del tempo perduto, ma entro il cinematico. 

Il recupero del tempo perduto del cinema e del contingente può essere catturato attraverso un’esperienza di cinefilia, poiché la cinefilia nomina il momento in cui il contingente assume un significato – forse un significato privato e idiosincratico, ma uno in cui l’amore per l’immagine esprime se stesso attraverso un allacciarsi all’effimero. 

L’archivio è dunque un apparato del tempo, ma la sua relazione al tempo non è garantita né intrinseca, è transitiva e deve essere innestata. L’archivio di immagini in movimento coglie questo problema in un modo erotico e sensuale, innestando l’esperienza del tempo come atto d’amore.

Antonio Negri in Il potere costituente parla dell’amore del tempo (Negri 1992). Questi due registri, di amore del tempo e di amore del cinema, ci permettono di pensare l’apparato del tempo cinematico e archivistico, e il modo in cui questi danno forma alla nostra relazione con il nostro tempo e il tempo dell’immagine.

Riferimenti bibliografici
English abstract

We publish here the first Italian translation of the 10 Thesis on the Archive by the pad.ma group (Shaina Anand, Laurence Liang, Sebastian Lütgert, and Ashok Sukumaran), exploring archives as distributed, affective, and political acts beyond state control and property logics. The editorial work was carried out during the workshop “Faremo un film! (potremmo anche non farlo)” (Università Iuav di Venezia, 9-17 ottobre 2023), coordinated by Flavia Mazzarino, Filippo Perfetti, and Elena Roccaro, with the participation of Alessandro Gagliardo. The translation was produced collaboratively by the workshop participants and revised by Chiara Velicogna.

keywords | Archives; Open Access; Memory Politics.

Per citare questo articolo / To cite this article: gruppo pad.ma, 10 tesi sull’archivio, edizione italiana a cura del collettivo Inannunciato, “La Rivista di Engramma” n. 222, marzo 2025.