Immagini di voci, di gesti, di riti: sul valore performativo dell’arte medievale
Maria Bergamo
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Se per l’oratoria antica il gesto era “l’abito della voce” – gestus autem vocis est habitus sosteneva Marziano Capella nel Commentario di Remigio di Auxerre – Chiara Frugoni nel suo ultimo libro La voce delle immagini riveste il gesto dei colori, delle forme, delle storie, dei simboli della creazione artistica medievale. Immagini come abito dei gesti. Ma non solo. Attraverso le ‘pillole iconografiche’ raccolte nel volume si è proiettati in un immaginario grandioso e assoluto, che spazia dall’imponente portale alla piccola miniatura, dall’affresco sulle pareti delle cattedrali agli ebani custoditi nei tesori, dall’icona bizantina al sarcofago antico; un sistema complesso popolato di storie, di personaggi, ma anche di vita reale, di quotidianità. E nella rifrazione dei gesti e nella ripetizione dei racconti da essi rappresentati si percepisce un vero e proprio sistema comunicativo, linguistico: “le immagini medievali si esprimevano con una loro lingua fatta di gesti in codice, di convenzioni architettoniche, di dettagli allusivi, di metafore, di simboli: se non li conosciamo, quelle immagini non hanno voce”.
Già Émile Mâle, scrivendo dei caratteri generali dell’iconografia medievale, ne enunciava il carattere enciclopedico, teologico e il strettissimo legame con i testi: “L’arte medievale è innanzitutto una scrittura sacra di cui ogni artista deve imparare gli elementi”. Una lingua codificata, comprensibile, veicolante significati, che in quanto ‘scrittura’ doveva essere insegnata, letta e parlata da tutti, e in quanto ‘sacra’ doveva essere celebrata, ritualizzata e rispettata.
Un’altra caratteristica è quella di essere un linguaggio simbolico: simbologia che non si arresta solo alla visione artistica o alla bidimensionalità della rappresentazione figurata, ma si espande tridimensionalmente nello spazio, e infine nel tempo, nell’azione. Uno dei più conosciuti testi di liturgia, il Rationale divinorum officiorum di Guillaume Durand (XIII sec.) descriveva l’intera liturgia Pasquale come un simbolo legato ai testi sacri e alla tradizione: il cero pasquale, la chiesa, l’abito del celebrante, la luce del mattino, i gesti dell’assemblea, lo spazio che occupa, l’inizio e la fine della Messa, il periodo dell’anno in cui si festeggia la Pasqua.
Così anche Suger (XII sec.) nei suoi celebri scritti descriveva la costruzione della cattedrale di Saint-Denis attraverso i significati simbolici dell’architettura e della liturgia. L’abate-architetto, ispirandosi alla mistica dello Pseudo-Dionigi, spiega come la liturgia collettiva, evocando il passo ordinato dei monaci nei riflessi colorati delle vetrate e la modulazione degli inni nel coro, assicuri la concordia dei corpi e delle anime, del materiale e dell’immateriale, dell’umano e dell’angelico, del visibile e dell’invisibile. Tutto parla, tutto evoca, tutto è riferito ad altro, tutto oscilla tra la realtà e la spiritualità suprema.
A occhi contemporanei potrebbe sembrare un eccesso di interpretazione o un’astrazione intellettuale, ma trova invece un fondamento considerando i soggetti agenti, ovvero chi e come vedeva, assimilava, percepiva, insomma viveva, l’arte. Scrive Jean-Claude Schmitt ne Il gesto nel Medioevo:
La funzione comunicativa del gesto spinge a tenere presenti i molteplici attori e gli spettatori impegnati in una comune relazione comunicativa, la manifestazione di segni diversi dai soli gesti (parole, rituali, emblemi, colori ecc.) e per finire lo spazio che i gesti individuali e collettivi contribuiscono a strutturare.
Nell’arte di argomento religioso – ma anche in alcune pratiche civili – è la liturgia che riesce a racchiudere in un’unitarietà l’ampiezza e la complessità della visione, perché pone in relazione il testo, il gesto, lo spazio, e l’immagine:
Le secche rubriche degli ordines o il carattere inevitabilmente statico delle miniature medievali rischiano di dare un’idea ingannevole della liturgia medievale: lo storico deve animare queste immagini, deve far risuonare le voci e la musica dei riti solenni e immaginare il movimento collettivo delle processioni. Le fonti narrative e agiografiche possono servire a capire meglio lo svolgersi di queste ultime, i loro itinerari, i loro rapporti con l’architettura religiosa, condizioni necessarie per situare i gesti nel loro insieme rituale e comprendere più a fondo la loro importanza simbolica.
La liturgia è uno dei contesti in cui la necessità posta da Schmitt trova compimento: le immagini devono essere ‘animate’, bisogna evocarne e seguirne il movimento. Lo storico quindi non deve creare un catalogo di gesti, o una grammatica di un visibile ormai passato, come a volte sembrano i manuali di iconografia medievale, ma un riferimento alla realtà in cui le immagini, come segni, vivevano. La vita di un’immagine infatti è tanto più complessa quanto più esce da essa stessa.
Ad esempio, un aspetto interessante è la relazione mimetica del gesto raffigurato con ii quotidiano: Claudio Franzoni in questo stesso numero di Engramma (Qualche appunto sui gesti del Medioevo) evidenzia che i meccanismi di trasmissione non procedono solo per copia-modello da fonti iconografiche antiche, ma che c’è anche un processo di imitazione-ripetizione di atteggiamenti semplicemente naturali.
Il movimento su cui si intende riflettere tuttavia non è la cristallizzazione di un atto, il fissare con i colori su una parete o un libro il ‘parlare’ o il ‘soffrire’, ma al contrario è percepire l’azione che scaturisce dall’immagine stessa. In tal senso le Note sul gesto che il filosofo Giorgio Agamben riserva al cinema possono essere chiarificatrici: poiché ogni immagine è animata da un’antinomia interna tra la capacità di immobilizzare il gesto, e dall’altro di conservarne intatta la forza dinamica, secondo Agamben per ogni immagine è sempre all’opera un potere paralizzante che occorre disincantare, “come se da tutta la storia dell’arte si levasse una muta invocazione verso la liberazione dell’immagine nel gesto”.
Per l’arte medievale il movimento che libera l’immagine è percepibile proprio attraverso lo studio comparato dell’arte, dei testi, del rito e della liturgia, che insieme creavano un vero e proprio sistema ‘performativo’, ‘sinestetico’ e ‘audiovisivo’ – usando le parole degli autori che si citeranno.
E’ interessante analizzare innnanzitutto il legame dell’arte con il testo, essendo questo il significato narrativo della figurazione stessa: sia considerando l’articolato sistema di libri e testi nel Medioevo – altro è un Vangelo, altro un Graduale, altro uno scritto devozionale – sia la loro relazione con le immagini, e infine con l’azione che da, intorno a, e con esso poteva svolgersi.
Se alcune fonti letterarie aiutano – come suggeriva Michael Baxandall – a ricostruire l’”occhio del tempo”, il modo cioè in cui i contemporanei percepivano le arti, secondo Lina Bolzoni ne La rete delle immagini attraverso lo studio delle tecniche mnemoniche medievali è possibile porre in un’ottica nuova la vecchia questione del rapporto tra parole e immagini, fra predicazione e iconografia sacra, fra tecniche di comunicazione e percorsi interni di elevazione:
La lunga tradizione delle tecniche di memoria della tradizione classica interagisce con le tecniche della meditazione monastica, e insegna a plasmare la mente, a crearvi una mappa di ‘luoghi’: qui si collocano i ricordi delle cose lette e sentite, di qui si traggono il materiale e le associazioni necessarie per nuovi pensieri, nuove parole, nuove opere.
I testi sono letti, ruminati, assimilati, ascoltati, fino a essere trasformati in un tesoro interiore che riemerge e si articola via via anche attraverso media diversi dalla parola: le liturgie, la predicazione, i manuali di devozione, le sacre rappresentazioni e infine l’architettura e l’arte visiva. L’uomo medievale viveva la sua religiosità in un vero e proprio sistema ‘audiovisivo’.
È un codice che segue procedure precise per agire sulla mente, per costruire immagini mentali efficaci, tali da influenzare le diverse facoltà: l’intelletto, la memoria, la volontà. A questo fine usa sistemi diversi, in modo tale, tuttavia, che siano riconvertibili gli uni negli altri.
Si comprende come alla creazione di questo bagaglio interiore sia necessaria una costellazione esterna di segni fisici che costantemente lo nutra e ne risvegli il ricordo. L’esperienza sensibile – vedere, sentire, toccare, parlare – non viene percepita solo come “un aiuto”, ma come forma della presenza di un Dio vicino (sul tema rimando al mio Nutrirsi di luce, in Engramma 84, ottobre 2010).
Molto utili sono gli studi di Michele Bacci sull’aspetto delle chiese medievali in relazione ad alcune pratiche devozionali per capire che ruolo aveva l’arte nella dimensione di “rete” proposta da Bolzoni. Nella descrizione dell’affastellamento di opere effimere e schermi visivi, statue e tavolette sospese, drappi e tendaggi, oreficerie e abiti, ex-voto più o meno macabri, ceri e offerte varie, Bacci restituisce la visione dei luoghi di culto medievali completamente lontani dal rigore spoglio e ascetico con cui sono pervenuti a noi attraverso un certo gusto ottocentesco.
La ricchezza degli apparati ecclesiastici, la loro natura mobile che è sottoposta alle regole del tempo liturgico annuale, lo splendore degli arredi, l’efficacia taumaturgica delle reliquie, la varietà degli usi e delle attività che si svolgono nelle chiese danno la possibilità di capire come lo spazio sacro e il suo decoro artistico e figurativo costituissero in quell’epoca il punto di riferimento simbolico di un’intera cultura, sul quale gli individui proiettavano le proprie incertezze come anche le proprie inquietudini e paure.
Il sistema figurativo è quindi molto complesso, perché è un dialogo innescato tra diversi supporti che occupano fisicamente lo spazio sacro in cui vive l’uomo medievale, e sebbene a ognuno di essi spetti un luogo deputato e un’importanza maggiore o minore, non è difficile immaginare come queste opere potessero interagire tra loro, potessero contribuire a veicolare programmi iconografici, richiamare alla mente parole o storie pronunciate, lette o ascoltate.
Ai cicli narrativi affrescati e alle rappresentazioni legate più direttamente alla vita liturgica delle istituzioni religiose che occupavano una parte della chiesa riservata, si affiancavano immagini disordinate di personaggi lungo pareti e pilastri: i fedeli amavano far ricoprire le pareti della chiesa con le immagini dei loro patroni celesti, e quando le loro originarie motivazioni venivano dimenticate o veniva meno l’interesse verso quello o quell’altro santo, era naturale che la sacra effigie venisse cancellata e sostituita senza troppi riguardi da una nuova.
Così anche le tavole dipinte avevano all’interno della chiesa collocazioni mutevoli e non necessariamente stabili: vi era l’uso di appenderle alle pareti, alle colonne o ai pilastri, di porle a coronamento di elementi di arredo architettonico come i fonti battesimali o i monumenti funebri, o ancora di fissarle ai tramezzi e alle diverse strutture pensili in legno o in pietra presenti nelle chiese. Poste nei punti visivi più importanti, definivano la sacralità dello spazio, ma in quanto oggetti ‘mobili’ potevano anche essere coinvolte nella vita cerimoniale: erano portate in processione o esibite per certe occasioni sull’altar maggiore o al di sopra del pulpito, potevano partecipare agli offici semidrammatici come ‘attori’, e per tutta una serie di pitture, come le tavole agiografiche, è stato ipotizzato un ruolo di supporto visivo nell’attività di predicazione. Spiega bene Bacci:
La percezione dell’immagine era solo un elemento dell’esperienza ‘sinestetica’ messa in atto dal rito attraverso la sequenza di gesti e movimenti, la solennità delle vesti e degli oggetti, lo splendore luminoso delle candele, il profumo degli incensi, il suono ritmato dei tintinnaboli mescolato ai toni del canto sacro.
La dimensione esperienziale diviene quindi il centro a cui ricondurre anche il sistema iconografico, ma è un’esperienza lontana dal piacere estetico della contemplazione formale a cui ancora purtroppo si fa riferimento negli studi storico-artistici. Non è nemmeno riconducibile al semplice apparato dottrinario, teologico o nozionistico, come scrive Luigi Canetti occupandosi di un sistema di credenze complicato come quello del culto delle reliquie:
Il cristianesimo antico e medievale era qualcosa di raccontato e di danzato assai più e ancor prima che di professato, e come tale esprimeva la sua efficacia mitica e rituale, e perciò la sua azione strutturante sul piano della memoria culturale e della dinamica sociale. In altre parole, è altrettanto se non più importante evidenziarne la dimensione performativa rispetto a quella epistemica.
Tale concetto di performance come elemento primario nella stessa esperienza religiosa cristiana viene illustrato molto bene in uno studio di Mauro Pesce e Adriana Destro che ricerca le origini dei riti partendo dai testi biblici, affidandone la lettura agli strumenti antropologici. L’antropologia infatti è attenta soprattutto ai comportamenti, perché in essi si svela concretamente ciò che il fatto religioso è e come viene realmente vissuto, individuando così non solo un sistema cognitivo, un insieme di dogmi, ma “esperienza significativa e significato ricavato dall’esperienza”. L’antropologia vede autore, testo e destinatario soprattutto come appartenenti a un processo e cioè entro le sequenze di un’azione e fenomeno di natura culturale e sociale. Il testo – e per esteso anche il testo figurativo - non è esclusivamente scrittura, lettura o comunicazione, ma oltre a tutto ciò, e principalmente in campo religioso, è parte e strumento di una performance.
Il rito o la memoria del rito permettono una trasmissione più chiara, più incisiva e più certa di quella che altrimenti sarebbe una semplice istruzione dottrinale, e nel ‘rito narrato’ si possono collocare più intensamente le esperienze religiose e le dottrine originarie che le fondano. Solo attraverso la lettura o l’ascolto o la rappresentazione il testo si trasforma e assume totalmente il valore di fatto culturale perché consente una comprensione e induce a un’azione.
Dagli scritti di uno dei principali studiosi del teatro come arte performativa, Victor Turner in Antropologia della performance, traspare lo stretto legame tra il sistema rituale religioso e alcune forme drammatiche; e proprio alla luce del valore più propriamente teatrale gli elementi che formano il rito trovano la loro giusta posizione.
Nel rito si vive attraverso gli eventi. Ossia, attraverso l’alchimia delle strutturazioni e dei simbolismi del rito, si rivivono gli eventi semiogenetici, gli atti e le parole dei profeti e dei santi, o se questi mancano, i miti e l’etica sacra.
Parte di un sistema simbolico, ingrediente indispensabile di un processo alchemico, l’arte figurativa diviene quindi uno degli elementi che concorrono allo scaturire dell’esperienza, ed è quindi a questa che va sempre ricondotta.
Bibliografia di riferimento
- Giorgio Agamben, Note sul gesto, in Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino 1996, pp. 46-53
- Michele Bacci, Investimenti per l’aldilà. Arte e raccomandazione dell’anima nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 2003
- Lina Bolzoni, La rete delle immagini. Predicazione in volgare dalle origini a Bernardino da Siena, Einaudi, Torino 2002
- Luigi Canetti, Frammenti di eternità. Corpi e reliquie tra Antichità e Medioevo, Viella, Roma 2002
- Arti e storia nel Medioevo. Del vedere: pubblici, forme e funzioni a c. di Enrico Castelnuovo, Giuseppe Sergi Einaudi, Torino 2004, vol. III
- Adriana Destro, Mauro Pesce, Antropologia delle origini cristiane, Laterza, Roma-Bari 1995
- Chiara Frugoni, La voce delle immagini. Pillole di iconografia medievale, Einaudi, Torino 2011
- Èmile Mâle, L'art religieux du 13 siècle en France: étude sur l'iconographie du Moyen age et sur ses sources d'inspiration, Coline, Paris 1902
- Jean-Claude Schmitt, Il gesto nel medioevo [1990], Laterza, Roma-Bari 1991
- Victor Turner, Antropologia della performance [1987], Il Mulino, Bologna 1993
Images of voices, gestures, rituals: the performative value of medieval art
As Èmile Mâle wrote, “Medieval art is above all a sacred writing which every artist must learn”. It is a coded language that is both understandable and meaningful: as ‘writing’, it should be taught, read and spoken by everyone, as ‘sacred’, it should be celebrated, ritualized and respected. Most importantly, images are not ‘self-explanatory’, but there is an entire world which they are part of that has to be considered. The true meaning of images can only be understood in the light of the relationship which exists between written and iconographical sources, liturgical rituals and devotional exercises. Such a ‘system’ could certainly be defined as ‘performative’, ‘synaesthetic’ and ‘audio-visual’.