26 aprile, giorno di primavera: nozze fatali nel giardino di Venere
Una rivisitazione della lettura di Aby Warburg dei dipinti mitologici di Botticelli
Monica Centanni
English abstract
I. L'ipotesi di Aby Warburg
Come noto va ad Aby Warburg il merito di aver disegnato per primo l’ipotesi di una comune tramatura che sostiene – sotto il profilo del soggetto, dell’ispirazione tematica, della committenza – i tre dipinti ‘allegorici’ di Sandro Botticelli conservati alle Gallerie degli Uffizi a Firenze: la Nascita di Venere, la cosiddetta Primavera, la Pallade e il Centauro. Ancora a Warburg va il merito di aver impostato il tema di una lettura dei dipinti ‘profani’ di Botticelli, se non come serie consequenziale, come ‘ciclo’ riconducibile a un medesimo contesto di committenza e da considerare nel suo insieme, nel quadro di una interpretazione iconologica tematicamente coerente (Warburg [1893] 1966, 3 ss.).
La originale interpretazione critica dei dati documentari disponibili al tempo e l’imbastitura ermeneutica approntata da Warburg sono state in parte confermate, in parte precisate, in parte corrette dai molti studi che si sono succeduti nel corso del XX secolo e fino ai nostri giorni. A distanza di più di cento anni dalla sua formulazione l’ipotesi warburghiana, che mette in campo la possibilità di una interpretazione complessiva dei dipinti mitologici di Botticelli, resta però ancora sostanzialmente valida e, come si cercherà di argomentare in questo contributo, merita di essere rilanciata, con le dovute aggiustature e precisazioni, proprio in forza delle nuove acquisizioni critiche, tecnico-artistiche e documentali, e alla luce di tutte le nuove scoperte e letture intervenute nella lunga e intensa stagione di ricerche storico-artistiche e iconologiche sull’opera botticelliana.
Warburg richiamò l'attenzione su un passo della Vita di Botticelli di Giorgio Vasari in cui le "due Veneri" di Sandro Botticelli sono ricordate insieme, nella villa di Castello di Cosimo I:
Per la città in diverse case fece tondi di sua mano e femmine ignude assai, delle quali oggi ancora a Castello, villa del duca Cosimo, sono due quadri figurati: l’uno Venere che nasce, e quelle aure e venti, che la fanno venire in terra con gli amori, e così un’altra Venere che le grazie la fioriscono, dinotando la Primavera; le quali da lui con grazia si veggono espresse.
Nella descrizione vasariana, pur abbozzata in modo approssimativo e sommario, si identificano la Nascita di Venere e la cosiddetta Primavera. Verso la metà del XVI secolo, dunque, a quanto testimonia Vasari (ma confermano anche altri documenti: Acidini Luchinat 2001, 30) i due dipinti si trovavano nella Villa di Castello, che Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici aveva acquistato nel 1477 e che al tempo della compilazione delle Vite era una delle dimore di Cosimo I. In un altro passaggio della Vita di Sandro Botticelli, Vasari ricorda che:
In casa Medici, a Lorenzo Vecchio, lavorò molto cose, e massimamente una Pallade su una impresa di bronconi che buttavano fuoco, la quale dipinse grande quanto il vivo.
Per l’identificazione del dipinto descritto da Vasari la pista più immediata porterebbe all’unica opera botticelliana che ha come figura principale una ‘Pallade’: la Pallade che doma il centauro, le cui proporzioni, all'interno di una tavola che misura 207 centimetri di altezza per 148 di larghezza, corrisponderebbero alla "grandezza naturale" di cui parla Vasari.
Ma in questo caso, per una facile identificazione dell’opera a noi nota con quella descritta da Vasari, sono di ostacolo due elementi non già imprecisi ma affatto incongruenti e difficilmente giustificabili: la mancata menzione del centauro e la presenza di unla "impresa di bronconi che buttavano fuoco". Proprio la menzione dell’impresa, particolarmente importante per l’ipotesi ermeneutica di Warburg e per la sua riproposizione in questo contributo, ha condotto all’identificazione dell’opera descritta da Vasari con un’opera perduta di Botticelli, di cui possiamo ricostruire l’esistenza da alcuni esemplari su diverso supporto, dipendenti dall’originale perduto e da varie testimonianze documentarie e letterarie, dirette e indirette: la “Pallade su una impresa di bronconi”, ricostruibile sulla base della tarsia di una porta del Palazzo di Urbino e di un arazzo tessuto in quel torno d'anni, sulla base di un cartone botticelliano per Guy de Baudreuil (in collezione privata), e di due disegni conservati agli Uffizi e all’Ashmolean Museum, era con tutta probabilità lo stendardo che l’artista aveva eseguito per Giuliano de’ Medici per la giostra del 29 gennaio 1475, giostra che Giuliano vinse, dedicando la vittoria all’amata Simonetta Cattaneo Vespucci.
La tarsia, i disegni e l’arazzo sono opere già chiamate in causa nel saggio di Warburg e presenti nel pannello 39 del Bilderatlas Mnemosyne su cui Warburg appunta la preziosa nota: “Amor antikisch. Pallas als Turnierfahne. Venusbilder”.
Warburg individua in Ovidio, Fasti, e nell’Inno omerico ad Afrodite le principali fonti letterarie antiche che ispirano indirettamente, mediante la ‘traduzione’ polizianea, il soggetto delle "due Veneri" botticelliane: il nucleo antico su cui l’artista costruisce la sua ‘inventione’ sarebbero stati infatti alcuni passaggi di quelle opere che Angelo Poliziano (che in quel torno d’anni proprio sui testi di Ovidio e di Omero teneva i suoi corsi presso lo Studio fiorentino) aveva inserito, come preziosi castoni, nelle Stanze per la giostra.
L’interpretazione iconologica di Aby Warburg, perfezionata e affinata da Edgar Wind, il più fedele e insieme il più geniale prosecutore della lezione warburghiana (Wind [1958] 1971), sottolinea nei dipinti allegorici botticelliani l’impronta della filosofia neoplatonica, il pensiero teoretico ed estetico più in voga nella temperie culturale della Firenze del tempo, e legge in filigrana nella scelta dei soggetti principali e nei dettagli delle opere del ‘ciclo’ importanti riferimenti alle vicende che, pochi anni prima, avevano segnato la vita personale di Lorenzo e i destini della casata medicea: la ‘pace di Napoli’ siglata il 25 marzo 1480 tra Lorenzo e Ferdinando d’Aragona; la congiura dei Pazzi del 1478 con la morte del fratello Giuliano e la successiva nemesi; la morte precoce di Simonetta Cattaneo Vespucci, nel 1476. Warburg propone di riconoscere come tema centrale dei dipinti allegorici botticelliani nel loro complesso la celebrazione unificata di Giuliano e di Simonetta come icone di bellezza e di humanitas, ma insieme vittime sacrificali eccellenti di quella tormentata stagione di rinascita, culturale e politica, a cui Lorenzo aveva dato vita.
II. Aggiornamento dell’ipotesi warburghiana alla luce delle nuove acquisizioni critiche
È utile a questo punto ripercorrere le piste principali che si diramano dall’ipotesi interpretativa di Aby Warburg, rivisitandone le stazioni alla luce delle nuove acquisizioni critiche. Una prima questione, destinata a rimanere aperta per l’incertezza e la scarsità di elementi oggettivi e di documenti utili, riguarda il contesto di produzione delle opere. Vero è che, nell’assenza di dati incontrovertibili, non è possibile ricostruire un quadro certo delle circostanze in cui i capolavori botticelliani furono commissionati, ideati ed eseguiti. Vero è anche però che la collazione delle svariate osservazioni critiche presenti in bibliografia restituisce alcuni punti fermi, su cui convergono, al netto delle diverse prospettive critiche, tutti gli studiosi autorevoli, e che si possono riassumere in questi articoli: la cronologia, relativa e assoluta, dei dipinti; la collocazione e il contesto della committenza; il soggetto delle opere; le fonti di ispirazione antiche e i testi mediatori.
II.1 La datazione
Warburg nel suo studio non indugia sulle questioni di cronologia, assoluta e relativa, delle opere: preoccupato di ricostruire la sequenza narrativa che collega le due opere, tratta prima della Nascita di Venere e a seguire della Primavera, sottolineando esplicitamente che la Primavera “raffigura il momento successivo” rispetto alla Nascita di Venere che “raffigurava come essa è sospinta dagli Zefiri sulla riva di Cipro” (Warburg [1893] 1966, 46). È per altro questo, riproposto da Warburg, lo stesso ordine in cui le “due Veneri” sono presentate nel testo di Vasari.
I dati ricavati dagli esami di laboratorio sui supporti e sui materiali (eseguiti a partire dalla fine degli anni ’90 del XX secolo sui tre dipinti conservati agli Uffizi: Primavera, Nascita di Venere, Pallade), incrociati con le già precedentemente consolidate valutazioni critiche sull’evoluzione stilistica dell’artista, convergono sulla conferma di un ambito di datazione precisamente delimitato: i tre dipinti sono databili in un arco di tempo molto ristretto, collocabile al rientro a Firenze dell’artista dopo il soggiorno romano, e precisamente nel triennio che va dal 1482 (la data più alta proposta attualmente per la Primavera) e il 1485 (la data più bassa proposta per la Pallade), passando dagli anni 1483/84 in cui è da collocare La Nascita di Venere (Acidini Luchinat 2001, 18 e passim). Dunque, dato che le più recenti indagini tecniche e stilistiche concordano nello stabilire la precedenza dell’esecuzione della Primavera rispetto all’esecuzione della Nascita di Venere, sarà da rimarcare il fatto che la cronologia mitografica non coincide con la datazione dell’esecuzione delle due opere: il soggetto della Nascita di Venere sarà da considerare, dunque, una sorta di prequel rispetto all’opera in cui Warburg vede, giustamente, una celebrazione della piena potenza della dea dell’amore e che, sulla scorta dell’analisi del soggetto (ma anche giusta l’indicazione vasariana sulle “due Veneri”), propone brillantemente di reintitolare Nel regno di Venere.
II.2 La collocazione e la committenza
Sulla base dei dati documentari e critici disponibili al tempo (sulla scorta di Bayer 1885, ma non di Reber, Bayersdorfer 1889-1891), Warburg ipotizzava per la Primavera una collocazione originaria non già nella Villa di Castello dove Vasari dichiarerà di aver visto le “due Veneri”, ma nella Villa di Carreggi di Cosimo: secondo Warburg Carreggi sarebbe “probabile” in quanto “sede delle adunanze della società platonizzante” (Warburg [1893] 1966, 27).
Dalla testimonianza di Vasari sappiamo che le due opere che raffigurano 'Venere' alla metà del XVI secolo si trovavano nella Villa dell’Olmo a Castello (che era stata acquistata da Lorenzo di Pierfrancesco nel 1477 e che all’epoca di Vasari era in possesso di Cosimo I, pronipote di Lorenzo). Altri dati sono stati raccolti nel corso degli studi dell’ultimo secolo: in successivi elenchi inventariali abbiamo la conferma che almeno fino al 1761 le tre opere (compresa la Pallade) restano insieme nella stessa Villa di Castello. Importante, ai fini della definizione della prima collocazione delle opere e della loro committenza, è il ritrovamento di un inventario del 1498-99, scoperto e pubblicato negli anni ’70 del XX secolo, e di ulteriori elenchi inventariali, datati al 1503 e al 1516, che attestano la presenza, nella casa di Lorenzo e Giovanni di Pierfrancesco in Via Larga, di un dipinto su tavola identificabile con la Primavera – “un quadro di ligname apicato sopra el letucio [di Lorenzo di Pierfrancesco] nel quale è depinto nove figure de donne ch'omini” – e di un altro in cui è stata identificata la Pallade – “uno quadro di ligname di sopra l'usso di l'antichamara nel quale è depinto Chamilla con un satiro", che nell’inventario del 1516 diventa “figura con una minerva e centauro” (Smith 1975; Shearman 1975; Lightbown 1978: Acidini Luchinat 2001). Infine, in relazione più che alla Pallade alla “Pallade su bronconi” di cui fa menzione Vasari, in un inventario di Palazzo Medici del 1492 compare menzione del “panno […] di mano di sandro botticello” in cui si è riconosciuto lo stendardo originale della Giostra di Giuliano di cui la serie che comprende i disegni degli Uffizi e dell’Ashmolean sarebbero bozze preparatorie della figura centrale, e la tarsia di Urbino e l’arazzo sarebbero esemplari più o meno fedeli (Lightbown 1978 I, 82-85; II, 58-59; Acidini Luchinat 2001, 170). Tutti questi materiali erano comunque già stati chiamati in causa da Warburg come esemplari da mettere in relazione alla Pallade sia nel saggio pubblicato nel 1893, sia nella tavola 39 del Bilderatlas.
La mancanza di menzione della Nascita di Venere negli inventari del palazzo di Via Larga e negli altri inventari delle dimore medicee ha portato alcuni studiosi a sciogliere il vincolo, di committenza e di destinazione originaria, fra le opere: vincolo che era già stato messo in dubbio anche per la diversità di supporto tra la Primavera, eseguita su tavola, e la Nascita di Venere, su tela (Dempsey 1968, 266-267). Ma lo svincolamento della relazione tra le “due Veneri” era stato anche suggerito dalla valutazione di uno scarto stilistico, sulla base del quale, fino a qualche decennio fa, si supponeva un lasso di tempo di almeno sette anni tra la Primavera e la Nascita: una distanza che, come si è visto, è stata di molto raccorciata nelle valutazioni critiche più recenti.
Inoltre, incrociando le notazioni sulle opere di Botticelli contenute nel Codex Gaddiano (Cod. Magliab. XVII, 17) e il passaggio della Vita di Sandro Botticello di Vasari, è stata rintracciata una (pur debole) pista che consente di includere la Nascita di Venere fra le opere che erano in possesso di Giovanni dalle Bande Nere, nipote di Lorenzo di Pierfrancesco (ovvero figlio di suo fratello Giovanni), da cui passarono poi in eredità al figlio Cosimo e furono raccolte nella Villa di Castello (Acidini Luchinat 2001, 109, con bibliografia).
Resta comunque confermata dai dati degli inventari la compresenza nelle stesse dimore medicee del gruppo di opere botticelliane: già nell’ultimo decennio del XV secolo, nel palazzo di Via Larga erano presenti la Primavera, la Pallade e il centauro, forse la Nascita di Venere; successivamente nella Villa di Castello, la Primavera, la Nascita di Venere, la Pallade e il centauro e forse lo stendardo a cui potrebbe far riferimento, confondendolo con la pur presente Pallade, la descrizione di Vasari.
L’ipotesi di una commissione medicea risulta insomma corroborata dai dati, documentali e critici, emersi dagli studi. Rispetto all’ipotesi di Warburg emerge che la proprietà, se non la commissione, delle opere sia da ascrivere non direttamente a Lorenzo il Magnifico, ma al ramo che fa capo a Lorenzo e Giovanni di Pierfrancesco.
III. Una rivisitazione (con nuovi elementi) della lettura warburghiana
III.1 Le fonti e la composizione del soggetto della Pallade e il centauro
Protagonista assoluta delle fabulae botticelliane è Venere. Certamente la dea dell’amore è al centro delle due opere che la vedono attrice protagonista, ma come era già chiaro a Warburg ed è stato confermato dalla magistrale ricostruzione di Salvatore Settis (1971), una epifania di Venere, sotto dissimulate spoglie, è ravvisabile anche nello stendardo commissionato a Botticelli per la Giostra del 1475. L’impresa di Giuliano – già considerata particolarmente criptica dai contemporanei, anche dall'erudito Bernardo Bembo – era una ‘Pallade Citarea’: una inedita Minerva, armata ma con i tratti, la postura, le movenze di una Venere, nata non dalla testa di Giove, ma come la dea dell’amore a Citera, così come compare nella xilografia che illustra una edizione della Giostra polizianea, ma anche nella tarsia di Urbino (che pare l'esemplare più prossimo allo stendardo che Giuliano esibiva nella stessa giostra).
Si tratta di una famiglia eterogenea di testimoni che concorrono a ricostruire il modello perduto, di cui nessuno degli esemplari esistenti può essere considerato lavoro preparatorio o copia conforme: in tutti gli esemplari della famiglia però (già raccolti da Warburg nella stessa tavola 39) gli attributi e l’iconografia della dea delle virtù civili e della sapienza risultano ibridati con il profilo seducente di Venere (Settis 1971; Acidini Luchinat 2001, 14; 169-170). In particolare – come aveva già intuito Aby Warburg e ha poi ampiamente argomentato Salvatore Settis – nella xilografia che illustra le Stanze per la giostra di Poliziano, Giuliano sta inginocchiato davanti a un altare, sopra il quale brucia un fuoco e dietro il quale, in una nicchia, sta la statua di una divinità femminile, con una lancia nella mano destra. Sulla facciata frontale dell'altare si legge la scritta CITA/REA. Se l'iconografia assimila la divinità davanti a cui Giuliano è inginocchiato a una Pallade – più volte nominata nelle Stanze come figura di Simonetta – la scritta porta a identificare la figura con Venere. La figura ibrida di Pallade Citerea – dotata dell'aspetto e degli attributi di Minerva, ma dell'epiteto della dea dell'amore – è costruita su un'erudita allusione alla tipologia della Venus Victrix, la Venere che con la forza della seduzione riesce a denudare Marte e si appropria delle sue armi (Settis 1971, 169).
Nell’arazzo in particolare, con tutta probabilità vicino al “panno” botticelliano, la dea risulta impegnata in un’azione che, nell’iconografia e nell’immaginario del tempo, è propria della potenza di Venere: dismettere l’armatura guerresca. In questo caso Minerva impugna un lungo ramo di ulivo al posto della lancia e si è spogliata della sua stessa armatura – lo scudo con la Gorgone e la corazza, appesi ai tronchi degli alberi – laddove nello schema iconografico al tempo corrente era Marte a essere spogliato da Venere delle sue armi: è l’impresa di svestizione che Rossane/Afrodite, con l’aiuto degli eroti, compie su Alessandro/Ares nel dipinto ellenistico di cui Luciano aveva fatto l’ekphrasis e che Leon Battista Alberti propone agli artisti come esercizio di riconversione in pittura; è la stessa impresa che compare sul rovescio della medaglia pisanelliana per Sigismondo Malatesta, dove le armi del bellicoso signore di Rimini sono appese a un cespuglio di mirto. È, soprattutto, il soggetto di un’altra opera di Botticelli, datata a quegli stessi anni e con tutta probabilità riferibile allo stesso contesto di committenza: il Marte e Venere, ora alla National Gallery di Londra, oggetto di un’importante studio da parte di Ernst Gombrich che ravvisò nel favo di vespe che ronzano sulle orecchie di Marte un riferimento ai Vespucci, e che identificò in Venere una raffigurazione di Simonetta (Gombrich [1945] 1978).
Anche l’unica Pallade botticelliana che sia giunta a noi – la Pallade e il centauro – è tematicamente collegata alla Pallade su bronconi dello stendardo di Giuliano e non è un caso che Vasari, nella sua menzione, con tutta probabilità confonda le due: è una Pallade che ha assorbito in sé i tratti di Venere, ma è anche la dea della pace. Armata dell'alabarda simbolo di Firenze, porta una veste in cui compare, chiaramente visibile, un emblema ben noto della casa medicea: l’anello con diamante, unico, in intreccio triplicato – divisa dei Medici – o quadruplicato – divisa personale del Magnifico. L’immagine della domatrice del centauro compare anche in un comparto dello strabiliante fondale della Calunnia di Apelle, scenario allegorico di secondo grado in cui Botticelli ambienta la scena già in sè allegorica riconvertita in pittura da un'altra ekphrasis lucianea.
Nello sfondo architettonico de La Calunnia la figura femminile armata di lancia, che afferra per i capelli il centauro, aiutata da un erote che lo cavalca ed è impegnato a trattenerlo per i polsi dietro il dorso, è presente nel riquadro A6, interpretato sia come ‘Pallade con centauro’, sia come ‘Venere con centauro’ (Agnoletto 2013).
Nell'immaginario simbolico-allegorico già antico il centauro è figura della sapienza educatrice, come Chirone maestro di eroi e, fra tutti, di Achille, ma più spesso è figura della violenza brutale e selvaggia, come Nesso che tenta la violenza su Deianira, e come i forsennati centauri che si avventano contro le donne dei Lapiti alle nozze di Piritoo e Laodamia. Nell'immaginario rinascimentale riemerge dall'antico il fantasma del centauro brutale, piuttosto che quello del centauro sapiente: di Nesso piuttosto che di Chirone. Nel ciclo di Piero di Cosimo ricostruito e analizzato da Panofsky la presenza dei centauri ha proprio questa valenza: figure ibride, pre-umane, residui di una fase preistorica della vita dell'umanità che solo l'intervento delle technai che stanno sotto il segno di Vulcano, donate agli uomini dal benefattore Prometeo, potrà "civilizzare" (Panofsky [1939] 1975, 69 ss.).
La virtù di questa Pallade vince, facilmente, sul centauro che appare a lei del tutto sottomesso (Wittkover 1938-1939; Lightbown 1978; Acidini Luchinat 2001, che rilegge la raffigurazione piuttosto come allegoria della virtù filosofica e morale). Tutta fiorita di ulivo, è una figura pacificatrice, che protegge e custodisce l'armonia politica della città. Negli stessi anni in cui componeva le Stanze per la Giostra, così Poliziano si rivolgeva a Lorenzo:
O mihi plus superis dilecte, o magne, virentis
Spes una Etruriae, Laurens, quo florida tellus
Et nato genitrix et filia patre superbit,
Pectore qui dubium validis ne potentior armis,
Palladiam praefers gladio Mavortis olivam
Iusque pium refers, vix undis cedere passus.
Poliziano Sylva in Scabiem, 295-300
L'assimilazione Lorenzo-Pallade compare dunque esplicitamente nel testo di Poliziano, con la segnalazione della preferenza di Lorenzo per l’”ulivo di Pallade” contro la “spada di Marte”. Con un movimento ulteriore rispetto all’immaginario allegorico al tempo pervasivo che vede nella coppia Venere-Marte le figure dell’amore che vince sulla guerra, sul piano politico Pallade svolge l’impresa che Venere svolge sul piano erotico: risulta vittoriosa sulle armi di Marte.
III.2 Il modello archeologico, gli “accessori in movimento" e la scelta mitografica relativa a Zefiro
Come è stato ampiamente riconosciuto in tutti i contributi critici, il modello archeologico delle tre figure protagoniste del ‘ciclo’ allegorico è il medesimo: una serie di disegni risalenti ancora al primo Quattrocento denuncia la notorietà della cosiddetta "Venere pudica", di cui l'esemplare conosciuto come "Venere Medici", ora agli Uffizi, non doveva però essere ancora noto nel primo Rinascimento (Tolomeo Speranza 1981). Il confronto tra la statua romana e le tre figure botticelliane conferma la forte presenza del modello antico nella configurazione della postura del corpo femminile che Botticelli pone al centro delle sue composizioni.
Da notare il fatto che l’artista riproduce in modo sorprendentemente preciso non solo le fattezze delle singole membra dell’originale antico, dalle proporzioni degli arti alla morfologia del ventre, dalla posizione dei piedi alla forma dei seni. Riprodotta fedelmente nei tre esemplari è anche la posizione del braccio sinistro: nella Nascita di Venere e nella Primavera puntualmente coincidente rispetto al modello, nella Pallade facilmente adattato a impugnare l’alabarda. La posizione del braccio destro e il gesto della mano sono invece utilizzati dall’artista per configurare e semantizzare diversamente le diverse azioni delle tre figure: nella Nascita è lo stesso della Venere romana (che guadagna al marmo antico l’incongruo epiteto di pudica); nella Primavera il braccio si alza e la mano si atteggia in un gesto significativo, di invito e di ammaestramento; nella Pallade il braccio è quasi disteso e la mano è intesa ad afferrare per i capelli il domato centauro (sul tema si veda il saggio La serie botticelliana e la 'ventilata veste'. Materiali, letture grafiche e saggio interpretativo della Tavola 39 dell'Atlante di Aby Warburg in "Engramma" n. 4, dicembre 2000). Notevole è invece la libertà con cui l’artista taglia la testa al modello antico, per sostituirla con un volto che dell’antico non vuole avere più il sentore perché si vuole, orgogliosamente, come modernissimo, tutto contemporaneo.
È lo stesso procedimento di personalizzazione e modernizzazione ottenuto mediante la sola sostituzione della testa che metterà in campo il Pollaiolo nelle figure che animano la Danza dei nudi di Villa La Gallina, i cui corpi, nelle fattezze e nelle posture, come è stato brillantemente dimostrato, dipendono tutti da modelli di figure dionisiache tratte da sarcofagi romani, mentre le teste sono tutte contemporanee (Gelussi 2002, Gelussi 2005).
Botticelli dunque taglia la testa alla Venere antica (una testa, per altro, che rispondeva ai canoni estetici dell’età antonina, molto severi per quanto concerne la bellezza femminile), scioglie i capelli che nella Venere romana erano raccolti in una costumatissima acconciatura matronale, e sostituisce al volto antico un volto contemporaneo. Il volto di una modernissima ninfa, che nella Pallade e soprattutto nella Nascita di Venere esibisce una seducente non-acconciatura di lunghi capelli sciolti al vento.
Fu Warburg a mettere in relazione con i dipinti mitologici di Botticelli le indicazioni date agli artisti da Leon Battista Alberti nella versione in volgare del suo trattato Della Pittura:
Dilettano nei capelli, nei crini, ne' rami, frondi et veste vedere qualche movimento. Quanto certo a me piace nei capelli vedere quale io dissi sette movimenti: volgansi in uno giro quasi volendo anodarsi ed ondeggino in aria simile alle fiamme, parte quasi come serpe si tessano fra li altri, parte crescano qua et parte in là […]. A medesimo ancora le pieghe faccino; et nascano le pieghe come al troncho dell'albero i suo' rami. In queste adunque si seguano tutti i movimenti tale che parte niuna del panno sia senza vacuo movimento. Ma siano, quanto spesso ricordo i movimenti moderati et dolci, più tosto quali porgano gratia ad chi miri, che meraviglia di faticha alcuna. Ma dove così vogliamo ad i panni suoi movimenti, sendo i panni di natura gravi e continuo cadendo a terra, per questo starà bene in la pittura porvi la faccia del vento zeffiro o austro che soffi tra le nuvole, onde i panni ventoleggino; e quinci verrà a quella grazia che i corpi da questa parte percossi dal vento, sotto i panni in buona parte mostreranno il nudo, dall'altra parte i panni gittati dal vento dolce voleranno per aria.
Leon Battista Alberti, Della Pittura II, 45
Nella prescrizione albertiana Warburg trova conferma di un particolare tratto stilistico dei dipinti mitologici di Botticelli – il movimento degli accessori: “Il Poliziano può essere stato comunque ispirato o fortemente incoraggiato dai riferimenti dell’Alberti a considerare la riproduzione degli accessori mossi come problema artistico” (Warburg [1893] 1966, 12). Sintetizzando, secondo Warburg, può essere stato Poliziano, sulla scorta delle indicazioni tecniche di Alberti, a suggerire a Botticelli il teorema secondo cui ‘il movimento fa antico’, ovvero ‘fa rinascimento dell’antico’. E proprio il dottissimo amico potrebbe aver fornito al pittore una suggestione ulteriore nell’inventione del soggetto, orientandolo verso la scelta di un ben preciso tema mitografico.
Il suggerimento di Alberti sull’inserimento di venti personificati avrà successo, di là a breve, nelle rappresentazioni cartografiche come ad esempio nella Venezia di Jacopo de’ Barbari dove ai bordi della composizione compaiono, tra le nubi, le faccine dei diversi venti, ciascuna accompagnata dall’etichetta con il nome, tutti con le gote enfiate, tutti impegnati a soffiare ciascuno nella sua direzione. Ma nelle composizioni in cui venivano risceneggiate le fabulae antiche l’indicazione albertiana parve evidentemente troppo artificiosa per essere raccolta con favore. Botticelli propone però, probabilmente con l’aiuto di Poliziano, una soluzione mitografica che risponde in modo unico, ed ingegnoso, all’indicazione albertiana: in entrambe le composizioni delle “due Veneri” non compare una “faccia del vento zeffiro e austro” posta a soffiare tra le nuvole “onde i panni ventoleggino”, ma, pur tenendo come centrale nella composizione la figura di Venere, sono ricercati e prescelti i due unici episodi nella tradizione letteraria greca e latina in cui Zefiro interviene con un ruolo attivo in una scena mitografica in cui sia presente anche Venere: l’episodio in cui il vento della primavera con la sua spinta porta a riva Afrodite, generata dalla spuma del mare (Inno omerico VI, 3-5), e l’episodio in cui è l’attore della violenta cattura erotica della ninfa Chloris, che diventa poi Flora nel giardino di Venere (Ovidio, Fasti V, 195).
Quindi è ben vero che Poliziano propone a Botticelli i soggetti per le sue fabulae “modellando fedelmente le parole destinate a illustrare questi accessori mossi, sulle parole da lui cercate in poeti antichi” (Warburg [1893] 1966, 12), ma si pone il problema, più complesso, della verisimiglianza tematica della presenza di Zefiro nella composizione. La soluzione escogitata nelle “due Veneri” non corrisponde alla prescrizione albertiana in modo semplice e pedissequo, ma raccoglie l’indicazione rilanciandone e perfezionandone il senso: è una soluzione doppia che risponde a una equazione di secondo grado, l’istanza stilistica che vuole un vento che smuova i corpi e i loro accessori, e la congruenza mitografica della presenza in scena di Zefiro.
III. 3 Le fonti e la composizione del soggetto della (cosiddetta) Primavera
Per la cosiddetta Primavera Warburg per primo ha richiamato l’attenzione, come fonte della scena che si svolge sul lato destro della composizione, sul passo di Ovidio, Fasti V, 195-ss. che vede Flora in scena come protagonista, a raccontare la sua storia, prima, e quindi a illustrare gli effetti della sua virtù sulla natura e sulle stesse attività amorose degli dei e degli uomini:
Chloris eram quae Flora vocor: corrupta Latino
nominis est nostri littera Graeca sono.
Chloris eram Nymphae campi felicis [...]
Ver erat, errabam, Zephyrus conspexit: adibam
insequitur, fugio, fortior ille fuit
[...]
Vim tamen emendat dando mihi nomina nuptae
[...]
Vere fruor semper, semper nitidissimus annus
arbor habet frondes, pabula semper humus
[...]
Hunc meus implevit generoso flore maritus,
atque ait 'arbitrium tu dea floris habe'.
Saepe ego digestos volui numerare colores
nec potui: numero copia maior erat.
Roscida cum primum foliis excussa pruina est
et variae radiis intepuere comae,
conveniunt pictis incinctae vestibus Horae.
Il racconto prende il via dal rapimento di Chloris da parte di Zefiro, e prosegue con la trasformazione della ninfa in Flora. Travolta dalla violenza dell'impeto amoroso, violentata dal vento, la fanciulla viene ripagata della violenza subita diventando la sposa di Zefiro e la dea Flora, dea degli innumerevoli fiori della Primavera: dea del tempo e del luogo in cui è possibile "vere semper frui"; in cui gli alberi danno sempre fiore e frutto, in cui i fiori fioriscono in tale numero e varietà da non poterli neppure contare (nel dipinto saranno i moltissimi e diversissimi fiori che compongono lo straordinario "erbario vivente" del prato: l’espressione è di Pozzi 1997; una accuratissima lettura delle specie botaniche presenti nel prato e nel boschetto della Primavera, con discutibili deduzioni ermeneutiche, è proposta da Levi d’Ancona 1983, Levi D’Ancona 1992).
Nella trasposizione figurativa il cambiamento del nome della ninfa da Chloris a Flora – che Ovidio ascrive alla traduzione latina del nome greco – diventa una vera, fisica, metamorfosi che ha l’effetto di uno sdoppiamento figurale. Chloris, rapita e violentata da Zefiro, diventa un'altra figura: la Flora che le sta accanto (a conferma del successo del tema dell’inseguimento e cattura della ninfa a partire dal Ninfale fiorentino di Boccaccio, fino ai testi di Poliziano e di altri poeti del tempo, Warburg richiama diversi loci paralleli: Warburg [1893] 1966, 34-35). Dopo la fuga e lo stupro, la preda del desiderio di Zefiro subisce una metamorfosi segnalata con efficacia icastica dal racemo che le esce dalla bocca: da ninfa fuggitiva diventa splendida dea. Per la postura di Flora, per altro convenzionale nella statuaria e nella pittura antica per l'Ora della Primavera, Warburg richiamava puntualmente l'attenzione su alcune stanze della Giostra di Poliziano; sono i versi in cui Giuliano assiste all'apparizione di Simonetta:
Candida è ella, e candida la vesta,
ma pur di rose e fior dipinta e d'erba;
lo inanellato crin dall'aurea testa
scende in la fronte umilmente superba.
Rideli a torno tutta la foresta,
e quanto può suo cure disacerba;
nell'atto regalmente è mansueta,
e pur col ciglio le tempeste acqueta.
[...]
Di celeste letizia il volto ha pieno
dolce dipinto di ligustri e rose;
[...]
Ell'era assisa sovra la verdura,
allegra, e ghirlandetta avea contesta
di quanti fior creassi mai natura,
de' quai tutta dipinta era sua vesta.
E come prima al gioven puose cura,
alquanto paurosa alzò la testa;
poi colla bianca man ripreso il lembo,
levossi in piè con di fior pieno un grembo.
Pare fuor di dubbio, dunque, per la composizione botticelliana della prima scena del dipinto – il trio Zefiro, Chloris, Flora –, la doppia ispirazione dal testo ovidiano e delle stanze della Giostra di Poliziano come due fasi distinte, messe insieme in un esercizio di riscrittura mitografica. La fuga, la paura, la sorpresa della ninfa ovidiana sono ben restituite nella postura della Chloris della Primavera, che mentre ancora fugge già volta il capo verso il suo nerboruto rapitore, già fatta docile dal sopruso della sua prepotenza. La Flora della Primavera è in piedi, non guarda verso la Chloris che era prima e a cui è legata icasticamente soltanto da un sottile racemo, quasi non ricordasse più lo stupro subìto nel racconto ovidiano: ora, seguendo alla lettera il dettato di Poliziano, è tutta impegnata a tenere in grembo i suoi fiori (“levossi in piè con di fior pieno un grembo”), con una mano tiene sollevato un lembo della veste (“poi colla bianca man ripreso il lembo”) costellata di fiori diversi, tutti sbocciati e variamente colorati (“di quanti fior creassi mai natura,/ de' quai tutta dipinta era sua vesta”).
Di tutto il poemetto di Poliziano, gli studiosi che si sono occupati del tema continuano a citare soltanto i versi e le stanze ‘scoperti’ da Warburg e letti – soltanto quei singoli passaggi – come una sorta di progetto iconografico sotto la cui dettatura sarebbero stati eseguiti poi i dipinti botticelliani. Ma le Stanze di Poliziano non servono soltanto da partitura scritta per la restituzione in immagine della storia di Flora, giusta Ovidio: l’operetta, letta nella sua completezza, a partire dalla sua sintassi compositiva e dal tema della storia mitologica, offre anche spunti più ampi, utili a una lettura complessiva della Primavera. Quella che viene sceneggiata dal Poliziano è la trama di una vera e propria conversione ad Amore di cui è utile proporre una sintesi:
Giuliano, chiamato classicamente ‘Iulo’, è giovane e non conosce Amore: è dedito solo alla caccia e devoto a Diana. Come un Ippolito euripideo, deride gli amanti, le loro smanie e i loro, per lui incomprensibili, sospiri. Giuliano-Iulo vive in una dimensione selvatica, all'aperto, tra i boschi, i monti e le selve. Ma si diletta anche delle arti liberali: frequenta Apollo "guida delle nove sorelle" e "si godea con le Muse e con Dïana" (I.11). Avverso però ad Amore, lo chiama "ceca peste" (I.13). Cupido si sente provocato ed esattamente come accade nell'episodio di Apollo e Dafne narrato nelle Metamorfosi di Ovidio (per fare un solo esempio, certamente noto a Poliziano), "crudelmente ridendo" (I.23), decide di reagire e di vendicarsi provando la sua invincibile potenza anche alla più renitente tra le creature. E, come conviene a un dio, mette alla prova il suo potere su una vittima di pregio: Iulo, quasi pari agli dei (I.23 ss). Così nel tempo di primavera, segnato dalla presenza prepotente di Zefiro (nominato più volte nel I libro: I.25, I.68, I.77, I.99, I.113), inganna Giuliano-Iulo che se ne va, come sempre, alla caccia, "inculto sempre e rigido in aspetto" (I.10), "colla chioma arruffata e polverosa/ e d'onusto sudor bagnato il petto" (I.33). Andando così in una radura, improvvisamente gli appare la ninfa. Allora in quel preciso momento Cupido: "Al nervo adatta del suo stral la cocca/ poi tira col suo braccio poderoso,/ tal che raggiugne l'una e l'altra cocca;/ la man sinistra con l'oro focoso/ la destra poppa colla corda tocca" (I.40). Iulo, colpito dalla freccia, "è preso nella rete". La descrizione della visione della ninfa, della sua veste e del suo gesto è quella già citata sopra nelle stanze 43-47. Dopo la visione: "Già s'inviava per quindi partire/ la ninfa sovra l'erba lenta lenta" (I.48). Fermata dalle domande incantate di Giuliano-Iulo, la ninfa si arresta e "ben parve che s'aprissi un paradiso" (I.50). La ninfa risponde e dopo aver parlato della sua provenienza, del suo status di donna maritata, e aver detto il suo nome – Simonetta –, dice: "Ma perch'io in tutto el gran desir t'adempi/ e 'l dubio tolga che tuo mente rompe/ meraviglia di mie bellezze tenere/ non prender già, ch'io nacqui in grembo a Venere" (I.53). Compiuta l'impresa, Cupido svolazzando si reca proprio nel Regno della madre, Venere (che troverà in compagnia di Marte), nel dolce regno "ov'ogni Grazia si diletta/ [...]/ ove tutto lascivo drieto a Flora/Zefiro vola e la verde erba infiora" (I.68; ma Zefiro e il suo alito vengono ricordati continuamente, anche in I.77 e I.80). Il Regno di Venere viene descritto come una "valle ombrosa di schietti arbuscelli/ [...]/ ove arma l'oro dei suoi strali Amore/ [...]/e lieta Primavera mai non manca" (I.71-72). Nel Regno di Venere viene rievocata la nascita dal mare della dea (già citata sopra, stanze 99-101) e un erudito Cupido "giovane nudo faretrato augello" (I.120) si impegna a polemizzare con l'Eros del Simposio platonico (II.9: "Io non son nato da ruvida scorza") e con l'Amore spennacchiato dei Trionfi di Petrarca. Dopo l'enumerazione dei suoi successi, le Stanze si interrompono con la menzione della giostra in cui Iulo promette ad Amore: "Io porterò di voi nel campo insegna" (II.46). Si tratta dell’"insegna" che Giuliano portò come suo stendardo nella giostra e che, stando alle ricostruzioni in base alle fonti documentarie e iconografiche, raffigurava un sole, una Pallade vestita con una veste "d’oro fine" ma con elmo, lancia e scudo, un ceppo di ulivo a cui era legato un cupido, con frecce e arco rotti e, sotto, "fiamme di fuoco che ardevano rami d'ulivo" (Settis 1971, 140 ss.).
Come cercherò di mostrare, dunque, non solo le stanze indicate da Warburg come testo di ispirazione diretta della scena di Flora, ma l’intera opera di Poliziano può essere chiamata in causa come fonte di ispirazione tematica, con importanti incidenze anche sui dettagli, per il soggetto Primavera: in questa prospettiva anche le altre due scene montate in successione da destra a sinistra (rispetto all’osservatore) possono essere ricollegate alla narrazione complessiva proposta da Poliziano.
Al centro della composizione una figura stante raffigura Venere: le svariate letture del significato della Primavera che, soprattutto a partire dagli anni ’70 del XX secolo, hanno avanzato altre ipotesi di identificazione per la protagonista della narrazione figurata (vedi, per tutti, il prezioso richiamo di Villa 1998 alle Nozze di Mercurio e Filologia di Marziano Capella e all’iconografia di Retorica nella tradizione delle miniature umanistiche) concorrono ad aggiungere altre suggestioni possibili, spesso raffinate e ingegnose, nonché plausibili nella sofisticata temperie intellettuale in cui opera Botticelli, ma non smentiscono l’identificazione primaria che resta collegata, fuor di ogni ragionevole dubbio, alla figura di Venere. Nessun margine di incertezza lascia la presenza del Cupido in volo, abbinato anche dall’asse sintattico alla figura femminile, né la veste della dea (quasi identica a quella della Venere e Marte di Londra) a cui è sovrapposto il mantello double face: rosso da un lato, stellato dall'altro, a richiamare la doppia natura della Venere Urania e Terrena, mediante il simbolismo della doppia facies della dea caro al neoplatonismo ficiniano e al tempo immediatamente eloquente e assolutamente perspicuo (Wind [1958] 1971, 154 ss., 171-173).
Sulla posa e la danza delle tre Grazie – già riconosciute da Warburg come le tre facies della charis erotica: Pulchritudo, Castitas, Voluptas – restano illuminanti le considerazioni contenute nello studio di Edgar Wind (Wind [1958] 1971, 145-147; ma vedi anche, in relazione alla medaglia con le tre Grazie di Giovanni Pico della Medaglia e all'incontro del suo pensiero con il neoplatonismo fiorentino, Scalini 2001 e Castelli 2001). Una importante lettura è offerta anche da Dempsey 1971, solo parzialmente in accordo con la lettura warburghiana di Wind e, prima, di Warburg [1893] 1966, 30).
Il gesto che Venere fa con la mano sinistra è senza dubbio un gesto di invito e di ammaestramento, più che, come pure è stato sostenuto da Wind, un gesto che mirerebbe a "temperare" la danza delle Grazie (Wind [1958] 1971, 148-149: l’ipotesi di una "Venere come dea della moderazione" obbliga lo studioso a una complicata e astrusa spiegazione, fondata su un passo di Plotino, tradotto da Marsilio Ficino, per la verità molto poco pertinente, che costituisce la pagina più debole dello splendido saggio). Si tratta dunque del gesto di una Venere che invita e insegna, esattamente sovrapponibile al gesto della ‘magistra artium’ che, nell’affresco di Villa Lemmi eseguito da Botticelli nello stesso torno di anni, invita e accoglie il giovane Signore nel consesso delle Arti.
Secondo la lezione già stilnovistica e segnatamente cavalcantiana, recuperata da Marsilio Ficino, è la Venere maestra d’amore, che emancipa l’uomo educandolo alla cultura e all’amore e che, mediante amore, schiude neoplatonicamente l’accesso al divino.
Al centro della composizione sta dunque la dea: celeste e terrena. L'arco di luce e fogliame che la circonda, il suo volto con quella dolcissima espressione e l’inclinazione della testa accostano la figura di Venere alla stupefacente Madonna della Pala Bardi, divina alma mater.
“Madonna Venere come ‘Nostra Signora del Giardino’” scrive Aby Warburg, con riferimento esplicito all’alma Venus lucreziana, divinità che nell’immaginario filosofico e figurale del tempo ha un ruolo chiave per la conciliazione tra il neoplatonismo e la cultura cristiana (Warburg [1893] 1966, 43); Venere che ritma l'"armonia discorde" della danza delle Grazie, che sono insieme il suo corteggio e la sua triplice figura (Wind [1958] 1971, 150).
Allo stesso Edgar Wind va anche il merito di aver proposto la lettura anche compositivamente più coerente e convincente della complessa architettura del dipinto: come indica eloquentemente la cifra delle Grazie in primo piano, le “nove figure” (così conteggiate negli inventari del tempo) saranno da raggruppare in triadi: Zefiro-Chloris-Flora, le tre Grazie e Cupido-Venere-Mercurio, uniti dal richiamo del colore rosso riservato alle vesti delle tre figure.
La figura maschile sul lato sinistro della composizione è dunque un Mercurio che del dio indossa il petaso e calzari ma è armato di spada e, con la verga ermetica su cui si avvinghiano due aggressivi draghetti, è intento a fugare le nubi tra i rami.
Strana azione di un ben strano Mercurio: non saranno da sottovalutare le letture astronomiche e stagionali che interpretano l’atto e la postura del dio come moti ricollegabili, in qualche modo, al pianeta che del dio porta il nome e il carattere (Levi D’Ancona 1983, Levi D’Ancona 1992, Villa 1998) o, più verosimilmente, in consonanza con la figura del dio con la raffigurazione contenuta nelle Symbolicae Quaestiones di Achille Bocchi del 1547, all’azione attribuita al dio-pianeta nei confronti delle ultime nubi dell’inverno che Mercurio fuga per consentire l’avvento della primavera (Zöllner 1998, 38).
A conforto di una chiave interpretativa che privilegia l’aspetto stagionale/atronomico dell’opera è stata suggerita anche una convincente lettura del dipinto come "parata di divinità primaverili" (Dempsey 1968, 252). Charles Dempsey mette a confronto con la Primavera un'incisione di Virgil Solis di Norimberga (1514-1562) che fa parte di un ciclo dedicato alle stagioni dell'anno (Dempsey 1968, 255 ss.).
Nella stampa un corteo di divinità procede da sinistra a destra (quindi in senso inverso rispetto al dipinto di Botticelli) e nell'ordine sfilano: una nuda "Venus" lascivamente abbracciata a "Mars", un Pan, una "Urania", vestita e con il capo circondato da stelle, due Muse con lunghe tube che portano il nome di "Clio" e "Euterpes", quindi un carro che porta in trionfo, seduta su un trono sulla cui spalliera sta appollaiato un musico, "Ver", "Flora" intenta a intrecciare un serto di fiori; sopra di lei svolazza un "Copido" con l'arco teso; davanti, sul carro sta un satiro che soffia in una siringa; il carro è trascinato da due tori; la processione si conclude con un "Mercuri[us]" che guida il corteo, dotato di tutti i suoi attributi convenzionali (caduceo con i serpenti attorcigliati, petaso e sandali alati): come nell’opera di Botticelli, il dio è rivolto di spalle rispetto alle altre figure e volge il capo verso la sfilata che lo segue. L'incisione in effetti mostra notevoli consonanze, nei personaggi e nella composizione, con il dipinto botticelliano e fa ipotizzare che dietro la composizione ci sia anche memoria di un corteo in costume con divinità primaverili. Il dipinto sarebbe dunque un quadro ‘stagionale’, adatto secondo lo studioso alla collocazione rurale della villa di campagna dei Medici a cui sarebbe stato destinato (Dempsey 1968, 254). Vero che è nell'incisione tutte le figure hanno un carattere rustico, fattezze tozze e rozze, abiti da villani; il tono campestre è enfatizzato dalla presenza del satiro sul carro e del dio caprino accanto al lascivo Marte, impegnato a sbaciucchiare e abbracciare una Venere che esibisce una volgare e procace nudità. Il corteo è presentato come una sfilata carnascialesca, accompagnata da musica a fiato e a corda. Una tonalità del tutto diversa da quella che pervade i tratti e i gesti delle figure del dipinto di Botticelli, in cui tutte le figure sono caratterizzate da tratti somatici finissimi, i gesti sono composti e cortesi, le vesti sono raffinatissime, le nudità scoprono la grazia e l'eleganza di corpi perfetti; lo stesso Zefiro che prepotente e violento afferra la fuggente Chloris, comunica la potenza erotica invincibile dell'amore e non certo lascivia. La maggiore evidenza e semplicità degli elementi presenti nell'incisione può costituire una chiave di lettura facilitata dei ben più complessi elementi dell'opera di Botticelli: l’effetto del vento di primavera, che fa fremere di passione i corpi e vivifica tutta la natura, nell'incisione viene tradotto nell'amplesso sconcio di Venere e Marte e nella bassa sensualità delle figure caprine. La posizione di Mercurio alla testa del corteo nell'incisione, in analoga postura "retrograda", conferma una lettura progrediente anche del quadro (da sinistra a destra, in senso inverso rispetto all’incisione), in cui pure Mercurio sarà "scorta e duce" non solo della Grazie, ma dell'intera processione delle figure. Nell'incisione compare sia la nuda "Venus" che la stellata "Urania", le due ipostasi di Afrodite che nel quadro di Botticelli sono unificate nella figura centrale. Come si è visto, per altro, l’idea di una destinazione rurale dell’opera di Botticelli è stata smentita dai documenti pubblicati nel 1975 che testimoniano della presenza dei dipinti non già nella Villa di Castello, ma nella dimora urbana di Lorenzo di Piefrancesco, la casa di via Larga.
Secondo Dempsey, il dipinto potrebbe dunque essere letto come “parata” e perciò, riaccreditando la malcerta e imprecisa descrizione di Vasari, tutti i personaggi a loro modo "dinotano la primavera" nel senso che illustrano una progressione della stagione che muove da destra a sinistra e conduce per figuras da Zefiro, dio associato al mese di aprile, a Mercurio, dio associato al mese di maggio. "Spring thus begins and ends with the same cloud dispelling wind, starting with the advent of Zephyr, and departing with Mercury, in whose month the season turns to summer" (Dempsey 1968, 252): il collegamento tra Mercurio e maggio potrebbe trovare una conferma in Festo, De signif. verb. 133 e Ovidio Fasti V 669-670, in cui si registra che le idi di Maggio erano dedicate ai mercanti (perché in quel giorno era stato fondato il tempio dedicato a Mercurio ai piedi dell'Aventino), e soprattutto in Fasti V 103-104, laddove Ovidio sostiene che Mercurio dà al mese "maius" il nome della madre, Maia. La posizione di Mercurio, comunque, lo identifica anche come guida delle Grazie: un ruolo che è affidato al dio, in alternativa ad Apollo, già negli Inni orfici, avidamente compulsati nell’ultimo quarto del XV secolo dagli umanisti alla ricerca di vie esoteriche alla sapienza antica, e da lì passerà nei testi mitografici di Giraldi e Cartari, la cui tav. LXXXVIII è accompagnata dal testo: "Come ci insegnarono gli antichi parimente nella immagine delle Gratie, facendo che fosse loro scorta, e duce Mercurio [...]" (608-610).
Mercurio che dissolve le nubi dell’inverno; Mercurio retrogradus rispetto alle altre figure, come il moto del pianeta cui il dio si assimila per catasterismo; Mercurio dio della fine della primavera; Mercurio, guida delle Grazie: suggestioni iconografiche e mitografiche che concorrono nella complessa costruzione del profilo di Hermes nell’immaginario del Rinascimento. Perché Hermes nel XV secolo è, soprattutto, figura e nome della più profonda, più indicibile, sapienza, e anche nel dipinto di Botticelli l’azione che impegna il dio al punto da distrarlo dalle scene di amore e di grazia che si svolgono alle sue spalle non può non avere anche una valenza squisitamente filosofica; questo Hermes, come vede bene Wind, è impegnato nel gioco ermeneutico del velamento e disvelamento: "Gioca con le nubi, piuttosto, come uno ierofante platonico, toccandole ma solo leggermente, perché esse sono i veli benefici attraverso i quali lo splendore della verità trascendente può raggiungere lo spettatore senza distruggerlo. 'Rivelare i misteri' significa muovere i veli pur conservando la loro opacità, in modo tale che la verità possa passare attraverso di essi senza accecare. Il segreto trascendente è tenuto nascosto, eppure viene fatto trasparire attraverso il mascheramento [...]. La saggezza più alta consiste nel sapere che la luce divina abita le nubi" (Wind [1958] 1971, 153-154).
La Primavera si lascia leggere dunque anche come una sequenza narrativa che racconta icasticamente la sublimazione, nel regno perfetto di Venere, della potenza d’Amore. Amore, presente in triplice figura, entra prepotente nella sintassi dell’opera dal lato destro, in figura dell'impeto violento di Zefiro, che irrompe nel quadro con la sua vitale sensualità; svolazza sopra le figure, in figura di Cupido, bendato ma sapiente e veggente e perciò preciso e inesorabile nella sua mira (Wind [1958] 1971, 146); esce, guidando la danza delle Grazie, in figura di Mercurio, figura della saggezza e della rivelazione che dissipa le nubi che fanno velo alla verità.
Come aveva ben visto Warburg, il tema dell’opera di Botticelli è Il Regno di Venere: un regno-paradiso che è un boschetto d'aranci, dai tronchi pieni e virenti di fronde, dai cui rami pendono insieme fiori e frutti. Qui Venere non è solo protagonista e regina, ma regista di ogni scena che accade nel suo paradiso: e con il suo gesto cortese e perentorio si rivolge bensì alla triade delle sue Grazie, ma pare rivolgere anche un invito a Mercurio a voltarsi, a stare nel suo giardino.
III.4 Le fonti e la composizione del soggetto della Nascita di Venere
Per la Nascita di Venere Warburg appuntò l'attenzione sulle Stanze 99-101 della Giostra di Poliziano, direttamente ispirate ai vv. 1-13 dell'omerico Inno VI ad Afrodite. Così Poliziano descrive uno degli episodi mitici intarsiati sulla porta del palazzo di Venere:
Nel tempestoso Egeo in grembo a Teti
si vede il frusto genitale accolto,
sotto diverso volger di pianeti
errar per l'onde in bianca spuma avolto;
e drento nata in atti vaghi e lieti
una donzella non con uman volto,
de zefiri lascivi spinta a proda,
gir sovra un nicchio, e par che 'l cel ne goda.
Vera la schiuma e vero il mar diresti,
e vero il nicchio e ver soffiar di venti;
la dea negli occhi folgorar vedresti,
e 'l cel riderli a torno e gli elementi;
l'Ore premer l'arena in bianche vesti,
l'aura incresparle e crin distesi e lenti;
non una, non diversa esser lor faccia,
come par ch'a sorelle ben confaccia.
Giurar potresti che dell'onde uscissi
la dea premendo colla destra il crino,
coll'altra il dolce pome ricoprissi;
e, stampata dal piè sacro e divino,
d'erbe e di fior l'arena si vestissi;
poi, con sembiante lieto e peregrino,
dalle tre ninfe in grembo fussi accolta,
e di stellato vestimento involta.
Questa con ambe man le tien sospesa
sopra l'umide trezze una ghirlanda
d'oro e di gemme orientali accesa,
questa una perla alli orecchi accomanda;
l'altra al bel petto e' bianchi omeri intesa,
par che ricchi monili intorno spanda,
de' quai solien cerchiar lor proprie gole,
quando nel ciel guidavon le carole.
Stanze per la giostra, 99-102
Da notare come anche in questo caso la sofisticata operazione di Botticelli sia in linea con le raccomandazioni albertiane sull’esercizio che i pittori possono fare riconvertendo in pittura le ekphraseis di opere antiche (Maffei 1994), e anzi vada oltre le indicazioni del De Pictura complicando il gioco con una riconversione pittorica dall’ekphrasis contemporanea ‘anticheggiante’ contenuta nelle Stanze del Poliziano, che a sua volta prende spunto da un testo e da un modello antico (l’Inno omerico a Venere; la figura della Venus pudica). Anche per la Nascita di Venere, dunque, è evidente che il testo di Poliziano ispira l’insieme e i dettagli della esecuzione di Botticelli. Warburg arriva ad asserire che: “La supposizione che proprio Poliziano […] abbia fornito a Botticelli il concetto diviene certezza pel fatto che il pittore si allontana dall’Inno omerico negli stessi particolari in cui se ne allontana il poeta” (Warburg [1876] 1966, 5; 16). Ciò tuttavia non è esattamente vero, in primo luogo perché il testo greco è molto più succinto e generico rispetto alla ampia e dettagliata descrizione polizianea (come lo stesso Warburg, per altro, finisce per riconoscere: Warburg [1876] 1966, 8); in secondo luogo perché la composizione di Botticelli si discosta dalla descrizione delle Stanze per un dettaglio a cui non viene generalmente riconosciuta una particolare rilevanza ma al quale invece, in una resa così attenta, puntuale qual è quella botticelliana rispetto al testo di riferimento, sarà da restituire il senso di una scelta significativa: la presenza di una sola figura femminile che attende e accoglie la dea del mare e la avvolge nel manto, al posto delle “Ore in bianche vesti”, le “tre ninfe” previste dal testo di Poliziano.
Rispetto alle Stanze l'azione che nel testo polizianesco è articolata in momenti diversi e successivi è riassunta in un unico tempo compositivo, in cui simultaneamente Venere nasce dalla spuma del mare resa feconda da Urano (la restituzione pittorica della schiuma è ottenuta con il particolare effetto di luminescenze che caratterizza la tecnica sperimentale esercitata nel dipinto, ben descritta da Acidini Luchinat 2001, 110-111), viene sospinta sulla conchiglia – il "nicchio" del testo di Poliziano – dagli Zefiri, approda alla sponda e viene accolta a terra da una premurosa ninfa che attende di avvolgerla nel mantello.
Sulla sinistra della composizione – secondo il dettato del testo di riferimento – gli "zefiri" sono tanto "lascivi" da essere rappresentati come una coppia di amanti: la posa sensuale che allaccia in un abbraccio i due venti, intrecciando le gambe dell'uno sul fianco dell'altro e le braccia intorno alla vita; la diversa taglia delle due figure (molto più piccola e sottile quella in secondo piano, allacciata al corpo del primo); la diversità nel colore dei capelli (scuri per la figura in primo piano, biondi per l'altra); i tratti del volto (decisamente virili nel primo, delicati nel secondo); la grazia delle mani intrecciate, che abbracciano il vento più poderoso; la sensibile morbidezza delle carni del vento biondo; l'accennata rotondità del suo seno che sbuca dal mantello; tutti questi elementi fanno intendere che si tratti senza dubbio di una coppia maschio-femmina. Anche l’incarnato è di diverso colorito, secondo una convenzione già propria della pittura classica che caratterizza le figure maschili con una carnagione più bruna, le femminili con un colorito decisamente più pallido (stessa carnagione hanno, per altro, lo "Zefiro femmina", la Venere e la Ninfa; ma si veda la stessa variazione di incarnato nelle figure maschili e femminili della Primavera). Lascivi dunque in quanto Zefiri perché ispirano il desiderio amoroso: ma contemporaneamente, nella sincresi figurativa, “lascivi” in quanto essi stessi coppia di amanti, lascivamente stretti l'una all'altro, dal loro stesso alito ispirati: e quell’amplesso in volo comprende anche “gli amori” menzionati nel testo accanto agli “zefiri” che fanno venire a terra il "nicchio" della dea.
Al centro della composizione Venere, sulla conchiglia-nicchio, risponde alla postura descritta da Poliziano, fatta eccezione per l'inversione dei gesti compiuti dalle due mani: nel dipinto, all'inverso rispetto al testo, la dea si copre con la mano destra il "dolce pomo" del seno, mentre con la sinistra trattiene i capelli, riproducendo però esattamente il doppio gesto del modello archeologico, la cosiddetta "Venus pudica".
La più significativa differenza rispetto al testo di Poliziano è, come si diceva, la riduzione delle "tre ninfe", poco sopra chiamate "Ore", che in bianche vesti "premono l'arena", a una sola. Ed è una ninfa, sì, questa Ora della Primavera: una primavera, al suo inizio, in figura di adolescente. La veste che indossa è bensì “bianca” (come prescrive il testo di riferimento) ma soltanto nel colore di fondo, dato che è tutta fiorita: il quale dettaglio corrisponde invece meglio a un passaggio di Ovidio (che di poco segue i versi indicati come ispiratori della scena di Flora nella Primavera) che evoca le "pictis incinctae vestibus Horae" (Fasti V, 217), che fanno da corteggio alla ninfa Flora in primavera. I fiori che adornano il fondo bianco della veste sono mazzetti in boccio, chiusi, teneri, quasi monocromi. Un serto di rami e foglie incornicia la scollatura della veste; un cinto di rami e foglie le stringe la veste ("incincta", come le ovidiane Horae) sotto l'acerbo seno. I capelli non sono del tutto sciolti (come il testo polizianesco suggerirebbe), ma ancora in parte raccolti in trecce infantili. Il manto, che nei versi di Poliziano è uno “stellato vestimento” è invece un panno dal fondo rosso, cosparso di un motivo floreale. Sullo sfondo, dietro all'Ora della Primavera, si intravede un boschetto di agrumi: i fusti degli alberi sono sottili, le fronde verdissime, e ancora spunta da terra qualche ramo d'arbusto non ancora fattosi tronco. Più che un bosco è l'anticipo, la promessa di un bosco: così come la giovanissima Ora promette, annuncia, più che far risplendere, la bellezza della primavera.
"The Birth of Venus was not intended as a pendant to the Primavera; it is rather an independent expression, a refinement, of the same idea": già Charles Dempsey, nel suo primo importante saggio del 1968, metteva in stretta connessione tema e dettagli figurativi della Nascita di Venere e della Primavera, fino ad arrivare al punto di identificare la “rudely female figure” stretta tra le braccia di Zefiro con la ninfa Chloris, passando sopra al dettaglio delle ali che caratterizza senza ombra di dubbio la figura come ‘Zefira’ o Aura (giusta Vasari), vento femmina (Dempsey 1968, 266-267). Sta di fatto però che i nessi figurativi e i richiami tra l’una e l’altra opera confermano l’ipotesi che si tratti propriamente di “a refinement of the same idea”.
La prima conferma viene dall’evidenza dell’uso incrociato dello stesso modello archeologico per la postura e l’atteggiamento delle due figure centrali. Si aggiunge il ricorso, che abbiamo cercato di illustrare poco sopra, degli stessi passaggi degli stessi testi – Fasti di Ovidio e Stanze di Poliziano – per l’una e l’altra opera: la veste "picta" dell'Ora nella Nascita di Venere proviene da un verso ovidiano che segue di poco il racconto di Chloris-Flora; lo "stellato vestimento" di cui Venere, accolta dalle Ore, dovrebbe essere "involta" secondo la descrizione di Poliziano (stanza 101), si trova invece – come manto stellato – nella Primavera.
Altro parallelo si può riscontrare nella sintassi compositiva dei due dipinti: al centro della Primavera sta, come per altro affermava testualmente Vasari, un'"altra Venere", rispetto alla dea che sorge dalla spuma del mare nella Nascita di Venere. Una nuda, l'altra vestita e rivestita con un mantello double face che rimanda alla doppia funzione – astrale e terrena – della divinità, come vuole la teoria neoplatonica riproposta nei testi ficiniani (Panofsky [1969] 1992, 117-118), ma che anche corrisponde esattamente allo "stellato vestimento" del testo di Poliziano.
Come si è detto, in forza di una scelta mitografica mirata e consapevole, sia nella Nascita di Venere che nel Giardino di Venere compare la figura del vento Zefiro coinvolto in un’azione non decorativa o di contorno, ma come soggetto attivo dell’azione mitografica. Nella Primavera però Zefiro appare come un maschio adulto, nerboruto e prepotente; nella Nascita di Venere è raffigurato come un essere giovane, dai tratti e dalle forme delicati, quasi indistinguibili dalle forme e dai tratti del volto del vento femmina con cui è avvinghiato in un tenero abbraccio, a restituire il senso di un dolce innamoramento adolescenziale piuttosto che il crudo stupro narrato figurativamente nella Primavera.
Illuminante per il collegamento tra le due opere risulta poi il raffronto tra la veste dell'Ora nella Nascita di Venere e quella di Flora nel Giardino di Venere (un raffronto già proposto da Dempsey 1968, 267-268). L'analisi ravvicinata mostra come si tratti dello stesso tessuto, con un analogo motivo floreale: ma nel caso della Nascita di Venere i fiori sono ancora in boccio e, crudi, attendono di fiorire; nella veste di Flora, invece, sono compiutamente sbocciati in un tripudio di forme e colori (che ricorda il testo ovidiano). Fioriti e maturati sono anche i serti di foglie che ornano la scollatura e la cinta dell'Ora e di Flora. In particolare il dettaglio del serto che le cinge la vita sotto il seno dimostra come si tratti esattamente degli stessi rametti che, fioriti, si mantengono però nel serto che cinge la veste di Flora in un particolare intreccio di forma identica all’intreccio del serto dell’Ora.
Già Warburg, ricostruendo la cronologia mitografica delle due opere notava che “La Nascita di Venere raffigura come essa è sospinta dai zefiri sulla riva di Cipro, la Primavera raffigura il momento successivo” (Warburg [1893] 1966, 46). Nella Nascita di Venere la figura dipinta è una adolescente, poco più che una bambina, dalle forme ancora pienotte e non del tutto aggraziate, goffa ancora un poco e incerta per la memoria recente della sua infanzia, che assiste premurosa e innocente alla nascita della dea; nella Primavera Chloris/Flora è prima raffigurata come una giovane ninfa, e poi, dopo la fuga e la metamorfosi, come una giovane e bellissima donna: la regina dei fiori nel giardino di Venere, braccio operativo della dea che dissemina nel mondo, con i suoi fiori, fertilità per le piante e per gli animali. La ninfa adolescente che accoglie la dea nella Nascita di Venere pare un ritratto della dea della primavera quando era ancora bambina (anche Warburg [1893] 1966, 48 indicava una somiglianza fisiognomica tra la Flora della Primavera e l’Ora della primavera). Nella Nascita di Venere, l’Ora della primavera è una Flora non ancora violata dall'impeto erotico di Zefiro, non ancora “nupta”, non ancora da quello stravolta e trasformata nella splendida dea della Primavera. La crescita anagrafica del personaggio femminile Ora-Chloris/Flora corrisponde alla maturazione dei fusti degli alberi del boschetto, che nella Nascita di Venere si affacciano sul lato destro della composizione e sono ancora giovani e radi, cosparsi di teneri fiorellini; nel giardino della Primavera invece le piante che circoscrivono l'architettura dell'hortus sono diventate alberi ad alto fusto che, ispirate anch'esse dal vitale soffio di Zefiro, appaiono cariche di fiori e insieme di frutti.
IV. L’identificazione dei personaggi storici e la committenza
IV.1 L’emblema del broncone
Sulla clamide di Mercurio ricorre un motivo in cui Wind ha voluto vedere "fiamme rovesciate" simbolo di morte (Wind [1958] 1971, 151). Lo studioso è indirizzato in questa lettura simbolica dall’identificazione, già proposta da Warburg e più volte rilanciata dalla critica, del personaggio mitologico con Giuliano de’ Medici. Come testimoni a favore di questa identificazione è richiamata una vaga somiglianza fisiognomica del Mercurio della Primavera con i tratti somatici, la pettinatura, l’aspetto di Giuliano, così come possiamo ricavarli dalle diverse versioni del ritratto di mano dello stesso Botticelli (probabilmente eseguite post-mortem, sulla maschera funebre).
Un dettaglio emerso in un’analisi riflettografica in infrarosso e pubblicato nel 1982 parrebbe fornire una ulteriore conferma della identificazione di Mercurio con Giuliano: nel disegno sottostante alla pittura Mercurio teneva le palpebre abbassate, “un dato fisiognomico che subito evoca l’attitudine tipica di Giuliano de’ Medici” (Acidini Luchinat 2001, 35 e note, con riferimenti bibliografici). Il dettaglio più significativo, non adeguatamente valorizzato nelle letture critiche anche recenti, pare però essere il motivo che Mercurio esibisce sulla clamide.
Più che di generiche fiammelle, si tratta propriamente di un broncone acceso, secondo la stilizzata iconografia dell’emblematica medicea: un tronco secco capace però di riprendere fuoco, così come la gloria dei Medici – il lauro di Lorenzo – è sempre in grado di rigenerarsi. Il broncone che non si spegne era uno degli emblemi preferiti nell’autorappresentazione dei Medici. Così Pulci nelle Stanze per la Giostra di Lorenzo de’ Medici, del 1469:
Era quel verde d'alloro un broncone
che in tutte sue divise il dì si truova
et lettere di perle vi s'appone
che dicono pur che el tempo si rinnova.
Luigi Pulci, Stanze per la Giostra, LXXI
In una medaglia di Lorenzo compare il motto UT LAURUS SEMPER LAURENTI FAMA VIREBIT (Cox Rearick 1984, 25). E ancora da ricordare, nel citato passaggio della Vita di Botticelli di Vasari, l'impresa, che stava sotto la Pallade, "con bronconi che buttano fuoco". L'impresa compare anche sul margine di alcuni manoscritti fiorentini, tra cui una traduzione di Plotino di mano di Marsilio Ficino (Cox-Rearick 1984, 21: il riferimento è al Laur. ms. Plut. 82, 10 f.3r; cfr. Levi D'Ancona 1983, n.1529, ma v. anche Laur. Plut. 35.2).
Anche Paolo Giovio nel Ragionamento sopra i motti et disegni d'arme e d’amore ricorderà il broncone fiammeggiante come una delle imprese ‘di famiglia’ adottata dal figlio del Magnifico:
Usò il Magnifico Pietro figliuolo di Lorenzo, come giovane et innamorato i tronconi verdi incavalcati, i quali mostravano fiamme et vampi di fuoco intrinseco, per significare che 'l suo ardor d'amore era incomparabile, poi ch'egli abbruciava le legna verdi et fu questa invenzione del dottissimo huomo M. Angelo Politiano, il quale gli fece ancor questo motto d'un verso latino: IN VIRIDI TENERAS EXURIT FLAMMA MEDULLAS.
Paolo Giovio nel Ragionamento sopra i motti et disegni d'arme e d’amore che communemente chiamano imprese, Venezia 1556, 32
Fu Poliziano dunque, secondo la preziosa testimonianza di Giovio, a predisporre per Piero di Lorenzo il motto che completa il senso dell'emblema. Ma l'impresa con i bronconi, a quanto attesta Giorgio Vasari nel testo in cui descrive le ‘inventioni’ con cui aveva decorato il palazzo mediceo, era già stata adottata da Giuliano de' Medici, il quale l'avrebbe portata nella giostra del 1475 proprio come simbolo del suo amore inconsumabile per Simonetta:
– Questa impresa che gli fate […] con quel troncon tagliato verde che nelle tagliature de’ rami getta fuoco, con quel motto scritto che dice SEMPER, sapete il suo significato?
– Dicono che questa impresa portò Giuliano nella sua giostra sopra l'elmo, dinotando per quella che, ancora che la speranza fusse dell'amor suo tronca, sempre era verde e sempre ardea, né mai si consumava.
Giorgio Vasari, Ragionamento [...] sopra le inventioni da lui dipinte in Firenze nel Palazzo delle Loro Altezze Serenissime, Firenze, 1588, giornata II, ragionamento II (cfr. Vite VIII, 118)
La notizia contenuta nel testo di Vasari completa le informazioni dedotte dalle altre testimonianze sullo stendardo di Giuliano, di cui abbiamo dato conto più sopra. Anche Vasari dunque, qualche decennio più tardi, riprese l'emblema del broncone, di cui probabilmente sintetizzò il nuovo significato politico (il ritorno dei Medici) con l'originario significato amoroso (la passione di Giuliano), e lo utilizzò infatti per decorare la "sala di Lorenzo vecchio" a Palazzo Vecchio, proprio in corrispondenza del ritratto di Giuliano, fratello di Lorenzo. Un emblema che diverrà caro ai Medici proprio in quanto si prestava a essere riadottato, con rinnovato significato: e ciò soprattutto nella seconda età medicea, dopo l'esilio.
Nel 1512, al ritorno trionfale dei Medici a Firenze dopo l'esilio, secondo Vasari, Lorenzo il giovane adottò l'emblema del broncone "per mostrare che rinfrescava e risurgeva il nome dell'avolo" (Vasari, Vite VI, 251-254). Per il secondo Lorenzo, Grazzini compose un componimento in cui si legge: "E come la Fenice/Rinasce dal Broncon del vecchio Alloro/così rinasce dal ferro un Secol d'oro" (I 134).
Anche Piero di Cosimo nel Perseo che libera Andromeda degli Uffizi fa comparire un broncone (ancora parzialmente secco, ma che ha già cominciato abbondantemente a rifiorire), in primo piano, esattamente al centro della tavola, sulla spiaggia del mare in cui campeggia il mostro già soggiogato da Perseo, che sta per sferrare il colpo decisivo.
Nel cielo un Mercurio sta volando come per portare aiuto all'eroe ormai vittorioso. Vasari, che dà una descrizione entusiastica del dipinto, ne attribuisce la commissione a Filippo Strozzi "vecchio" (Vasari, Vita di Piero di Cosimo, 580), ma la critica è concorde nel riconoscere che Vasari probabilmente commette un errore e la commissione è da attribuire "al figlio di Filippo, Giovanni Battista, chiamato sempre col nome del padre": l'opera andrà quindi collocata dopo il 1512, data del ritorno dei Medici, di cui gli Strozzi erano parenti e accesi sostenitori. La centralità del broncone riconferma la pregnanza e la perspicuità – per i contemporanei – del simbolo: Firenze-Andromeda viene liberata dal 'mostro' e Perseo-Medici è rappresentato, nell'asse centrale della composizione, sia dalla figura mitica dell'eroe sia dal broncone rifiorente collocato proprio sotto di lui.
Suggestiva, per la nostra ricostruzione, un'altra notizia che ricaviamo sempre da Vasari: prima della commissione Strozzi, Piero di Cosimo si era già esercitato sul tema del mostro marino, in un'opera di cui l'artista aveva fatto dono proprio a Giuliano de' Medici: "Un mostro marino che egli fece e donò al figlio del Magnifico Giuliano de Medici, che per la deformità sua è tanto stravagante, bizzarro e fantastico, che pare impossibile che la natura usasse e tante deformità e tanta stranezza nelle cose sue" (Vasari, Vita di Piero di Cosimo, 580).
Si tratta dunque di un emblema che verrà ripreso dal nipote Piero di Lorenzo e poi più tardi anche dal figlio di questi, Lorenzo, ma che probabilmente era stato inventato per Giuliano con un significato prettamente amoroso. Il primo significato amoroso dell'emblema pare del tutto confermato anche dal motto scelto da Poliziano per Piero, in cui si risente echeggiare il virgiliano "est mollis flamma medullas" di Eneide IV, 66, in riferimento a Didone (Settis 1971, 136).
Se al ritorno dall’esilio il broncone diverrà un simbolo della rinascita politica della famiglia dei Medici, non così era negli anni ’80 del XV secolo, quando, a quanto ci risulta da diverse testimonianze, dopo la morte di Giuliano l’impresa era stata adottata da Lorenzo di Pierfrancesco. Il broncone, non secco ma verde e avvolto in un cartiglio con il motto SEMPER VIRENS, ora presso il Museo Nazionale del Bargello, compare in una mattonella proveniente dalla casa di Via Larga.
Ancora negli inventari della casa di via Larga si trova menzione di un letto e di un lettuccio decorati con il motivo delle fiammelle; e nella villa di Fiesole, sempre di proprietà di Lorenzo di Pierfrancesco, due “forzieretti” sono decorati con lo stesso motivo (Shearman 1975, 22).
Per la cappella della Villa del Trebbio lo stesso Lorenzo di Pierfrancesco commissionerà a Botticelli la Pala con Madonna col Bambino fra i santi Domenico, Cosma, Damiano, Francesco, Lorenzo e Giovanni Battista ora alla Galleria dell’Accademia a Firenze.
Sulla veste di San Lorenzo, in cui si riconosce un ritratto del committente, compaiono le fiammelle rovesciate: a indicare certo, nella ricercata polisemia della sofisticata erudizione del tempo, le fiamme del supplizio del santo, ma anche l’impresa ereditata da Giuliano.
Tornando al Mercurio della Primavera. È innegabile una prima identificazione della figura mitologica con Giuliano, richiamata dalla presenza di Flora-Simonetta, posta simmetricamente all’altro lato della tavola esattamente sulla stessa linea di piano rispetto a Mercurio: come farebbe pensare il disegno preparatorio, è Giuliano che Botticelli immagina come prima figura in cui identificare il suo strano Mercurio che, più che una raffigurazione del dio, ci appare, non per caso, come la rappresentazione di un personaggio reale nelle vesti del dio della sapienza. Ma nell’esecuzione definitiva del dipinto (che non sarà necessario, come fanno alcuni, distanziare di alcuni anni rispetto alla prima ideazione) l’identificazione si complica per una ulteriore idea che non smentisce, ma va a sovrapporsi alla prima. Mercurio, per l’impresa che porta sulla clamide, non può non essere identificabile con Giuliano, primo detentore dell’impresa del broncone infiammato, ma è anche, contemporaneamente, Lorenzo di Pierfrancesco, il possessore, committente o comunque destinatario dell’opera di Botticelli, che quell’impresa dell’illustre cugino morto tragicamente nel 1478 aveva fatto sua.
IV.2 Il ciclo mitologico di Botticelli e gli intrecci amorosi, politici, commerciali tra i Medici, i Vespucci, gli Appiani
A partire dalla lettura di Warburg e sulla base dei vari riscontri documentari raccolti poi nelle indagini successive per molti decenni, l’interpretazione iconologica dei dipinti mitologici di Botticelli è stata configurata sull’ipotesi base di un riconoscimento, sotto il sottile velo del travestimento mitologico, della storia d’amore di Giuliano e Simonetta. In particolare Warburg rilevava la pervasività dell’immagine della giovane donna e proponeva come chiave interpretativa maggiore del ciclo la chiave di una “allegoria della memoria di Simonetta” (Warburg [1893] 1966, 48; vedi anche Pedersoli 2005).
Fa gioco a questa idea la fatale coincidenza delle date di morte, per altro non sempre adeguatamente evidenziata nei contributi critici: Simonetta muore, di tisi, il 26 aprile 1476 (Tognarini 2002, 12-13). La morte della giovane e notissima signora suscita una grande impressione nella Firenze del tempo, di cui si hanno eco nella cronaca e nei componimenti letterari composti per la morte prematura di quella che diverrà di là a poco, nell’immaginario contemporaneo, l’icona della grazia e della bellezza (Farina 2001; Lazzi, Ventrone 2007, 129-131 e passim). Giuliano muore nella congiura dei Pazzi il 26 aprile 1478. Identica data di morte, a soli due anni di distanza l'uno dall'altro. Una data che cade in aprile, il mese dell'amore e di Venere. Anzi, alla fine di aprile, verso maggio: quando la stagione passa dal dominio di Zefiro al cielo di Mercurio. È del tutto inverosimile che, in un’epoca così avida di congiunture e curiosa di parallelismi e di concordanze astrali, la coincidenza fra le date di morte non sia stata notata e non sia entrata a far parte costitutiva della storia di amore e di morte dei due famosissimi amanti.
La serie dei dipinti mitologici sarebbe stata commissionata in ambito mediceo, supportata dal Poliziano con le fonti poetiche antiche e moderne, e infine eseguita da Sandro Botticelli, nel clima di quella precisa ed eccezionale coincidenza luttuosa. Un’idea che resta valida, come si vedrà, ma con un’importante revisione. La datazione delle opere del ciclo agli anni 1480-1485 pone infatti una questione che va inevitabilmente affrontata: il perché dello scarto tra i fatti storici e la loro rappresentazione. Perché Botticelli metterebbe mano al ‘ciclo’ a distanza di almeno quattro anni dalla seconda morte? L’ipotesi, che ha una certa fortuna nella fittissima storia critica che riguarda quest’opera, di una prima versione della Primavera, lasciata incompiuta per la morte di Giuliano e poi ripresa più tardi, ha trovato, come si è visto, un appiglio nell’esame riflettografico, con la scoperta del disegno preparatorio che sta sotto la pellicola pittorica: un profilo che avvicina maggiormente il volto di Mercurio ai tratti fisiognomici di Giuliano, noti soprattutto grazie alla serie dei ritratti botticelliani. Ma se è certo che un ‘pentimento’ c’è stato nel progetto dell’artista tra l’ideazione e l’esecuzione del volto della figura, l’idea di un’opera così impegnativa lasciata non finita per almeno quattro anni e poi ripresa (con in mezzo il soggiorno romano dei Botticelli) pare comunque antieconomica e difficile da sostenere. È però una ipotesi produttiva perché ci mette, con tutta probabilità, sulla pista giusta.
È per primo Lightbown 1978 (seguito da altri, tra cui si segnala Zöllner 1998) che riconduce la committenza della Primavera all’occasione del matrimonio tra Lorenzo di Pierfrancesco e Semiramide Appiani. Successivamente, in un prezioso studio che ricostruisce la dinamica delle relazioni politiche, economiche, matrimoniali che intercorrono tra gli Appiani – la casata al potere a Piombino –, i Medici e i Vespucci (Tognarini 2002), è stata resa nota una serie di documenti che, valutata nel suo giusto peso, porta un contributo forse decisivo per la risoluzione del problema della datazione e della committenza delle opere di Botticelli.
Il tessuto di relazioni commerciali e matrimoniali che, almeno dalla metà del XV secolo, coinvolgono in fasi alterne di prossimità e di distanza i Medici e gli Appiani (che controllano le miniere di allume e di ferro di Piombino e dell’Elba) trova un primo momento di sutura con l’arrivo a Firenze di Simonetta Cattani: cugina degli Appiani e cresciuta in casa del signore di Piombino, Jacopo III, che aveva sposato la sorellastra Battistina Fregoso, nel 1469, a 16 anni, va sposa a Marco della famiglia dei Vespucci, al tempo alleati e sodali dei Medici. La presenza della giovane donna strettamente imparentata con gli Appiani di Piombino, pur nella turbolenza del tempo, garantisce un periodo di relativa solidità all'alleanza tra i Medici e gli Appiani. D’altro canto il rapporto amoroso di Simonetta con Giuliano, celebrato con l’impresa della giostra del 1475, e forse la relazione della giovane con lo stesso Lorenzo, pare rinsaldare, anziché guastare, le relazioni amicali e commerciali fra i Medici e i Vespucci, al punto che, nella più recente bibliografia, torna alla ribalta una lettura puritana, già ottocentesca, della vicenda che tende a disconoscere la realtà della relazione erotica e a rubricare il rapporto tra Simonetta e Giuliano come un amore ‘platonico’ e letterario, di stampo cortese, che sarebbe da ricondurre alla nouvelle vague neo-stilnovistica in auge in quegli anni a Firenze.
IV.3 "Sulla traccia di Simonetta": Giuliano e Simonetta, Giuliano e Semiramide, Lorenzo di Pierfrancesco e Semiramide
La morte di Simonetta, celebrata dai Medici con un’impressionante pompa da ‘funerali di stato’ di cui danno ampio conto le fonti, interrompe il filo delle relazioni politiche, commerciali, oltre che matrimoniali tra i Medici e gli Appiani; scrive al proposito Ivan Tognarini: “L’imparentamento diretto per via matrimoniale tra i Medici e gli Appiani sembra essere un obiettivo costante perseguito per almeno mezzo secolo” (Tognarini 2002, 32). Il vincolo, in qualche modo stretto con Simonetta e interrotto con la sua morte, va ripristinato, e i Medici tentano di porre immediato rimedio alla situazione: è del 1476 un patto nuziale tra Giuliano de’ Medici e la undicenne Semiramide Appiani, sorella di Jacopo IV signore di Piombino e nipote di Simonetta in quanto figlia della sorellastra Battistina Fregoso. Si tratta di un patto che avebbe reso saldissima l’alleanza tra Firenze e Piombino e che, proprio per questo, viene stigmatizzato e osteggiato dalla diplomazia dei vari stati e dei diversi imprenditori in lizza per l’egemonia economica sulla zona, e che perciò è documentato da vari e diversi documenti (pubblicati e commentati ora in Tognarini 2002, 32 ss.): in particolare in una lettera di Gentile Rocchi a Niccolò Michelozzi si fa riferimento a “quello parentado […] di Giuliano con Piombino sulla traccia di Simonetta” (BNF, fondo manoscritto Ginori Conti, n. 29 dell’inventario della donazione, 81, in Tognarini 2002, 32). Sulla base solida di quella promessa relazione parentale con la casata al potere, a Piombino, nel 1477, Lorenzo firma con gli Appiani un contratto della durata di 5 anni per il monopolio dello sfruttamento delle miniere di ferro dell’Isola d’Elba (Tognarini 2002, 37).
Con la morte di Giuliano, il 26 aprile 1478, viene nuovamente a cadere la possibilità di stringere un vincolo parentale tra i Medici e gli Appiani. Tra i sospettati di complicità con i Pazzi sono anche Marco Vespucci e il padre Piero, che, almeno fino a due anni prima – fino ai giorni della morte di Simonetta – era in rapporti di intimità con Lorenzo con il quale è attestata una strettissima corrispondenza sull’andamento clinico della malattia della preziosa nuora, la cui salute pare stare a cuore tanto al suocero Piero che al principe: a Lorenzo Piero si rivolge quasi quotidianamente, non solo per aggiornarlo ma, soprattutto, per richiedere consulti e assistenza dai medici più famosi del tempo (Maestro Stefano e Moisè Ebreo), incluso il sostegno economico per pagarne le parcelle (Tognarini 2002, 12-13).
Dopo i lunghi mesi in cui esplode la feroce vendetta di Lorenzo contro i congiurati e tutti quanti sono sospettati di connivenza con i Pazzi, il periodo più fosco della vita pubblica e privata di Lorenzo – fosco dal punto vista politico, ma fosco anche sotto il profilo economico per l’andamento degli affari commerciali dei Medici –, soltanto a partire dal 1480 il clima civile del cielo su Firenze inizia a rasserenarsi, e i Medici iniziano a riannodare il complicato intreccio di relazioni parentali, sociali, economiche, politiche, diplomatiche.
È in questo contesto che finalmente, nell’agosto del 1481, viene siglato il patto nuziale e nel 1482 vengono celebrate le nozze tra Semiramide e Lorenzo di Pierfrancesco: si salda così lo strategico vincolo di parentela tra i Medici e gli Appiani a cui, con alterne vicende, le due famiglie lavoravano da decenni. Negli anni tra il 1478 e il 1482 chi si era prodigata per tenere vive le relazioni tra le due famiglie era stata soprattutto Violante Cattaneo, la madre di Simonetta che dopo la morte anche dell’altra figlia, Battistina Fregoso, nel 1474, aveva preso in carico la nipote, figlia di Battistina e dell’allora signore di Piombino Jacopo III: Semiramide, su cui paiono concentrarsi gli interessi di un vero e proprio investimento sia da parte degli Appiani che da parte dei Medici. Da Piombino, dove risiedeva con la nipotina presso la residenza del nuovo signore Jacopo IV, fratello della stessa Semiramide, Violante chiamata Chateroccia “governava” sull’educazione della giovane nipote e ne rendeva conto a Lorenzo, tenendolo aggiornato “per l’affectione et singolare amore” che il signore di Firenze continuava a dimostrare verso la famiglia degli Appiani, proprio mediante lei, la madre di Simonetta e nonna di Semiramide (Tognarini 2002, 40-41). Un affetto che sarà stato certamente sincero ma che era anche corroborato, come si è visto, da meno sentimentali ragioni di interesse economico, collegate alle miniere degli Appiani le cui rendite erano entrate in gioco anche nella dote di Simonetta per le nozze con Marco Vespucci (1469), nel patto nuziale di Semiramide con Giuliano (1477) e ora nella dote di Semiramide per le nozze con Lorenzo di Pierfrancesco (1482).
V. Una storia di amore, di morte, e dell'amore che rinasce a primavera
Il matrimonio tra Semiramide e Lorenzo di Pierfrancesco, inizialmente fissato per il maggio 1482, fu celebrato il 19 luglio 1482, “essendo in bruno”, ovvero a lutto, a maggio, Firenze, per la morte di Lucrezia de’ Tornabuoni madre di Lorenzo (Tognarini 2002, 41). Era un venerdì, come nota Giovanna Lazzi: “giornata solitamente evitata per un simile avvenimento ma bene augurante se intesa come giorno di Venere” (Lazzi, Ventrone 2007, 143).
Botticelli era pronto a prestare il suo “orecchio pronto e mano volonterosa” (Warburg [1893] 1966, 58) per restituire in pittura le fabulae del mito che Poliziano aveva già adattato nelle Stanze per la giostra alla storia d’amore di Giuliano e Simonetta, e che ora si prestavano in modo particolarmente calzante a raccontare la storia, bellissima e tragica, del mito moderno di Giuliano e Simonetta: ora che finalmente si celebravano le nozze di Semiramide, nuova Simonetta, e di Lorenzo, che di Giuliano aveva ereditato l’impresa del broncone secco che riprende fuoco.
Nella Primavera la storia d'amore di Giuliano e Simonetta – ora reincarnati in Lorenzo e Semiramide – viene raccontata come una conversione di uno Iulo recalcitrante, che Botticelli raffigura come un Mercurio retrogradus, che ancora renitente volta le spalle a Venere, ma è chiamato da tutte le figure a entrare nel "regno di Venere", a entrare nel Paradiso: dallo Zefiro lascivo, che mostra la sua potenza su Chloris e fa fiorire il mondo; dall'incanto stupefacente di Flora-Simonetta; dal cenno invitante di Venere stessa, che porta la veste della sposa. E le tre Grazie allacciate l'una all'altra, scorta dell'ancora distratto Mercurio (che gioca con il "filamento di nubi che si impigliato nella sua verga" (Wind [1958] 1971, 150), non solo non si frappongono tra Mercurio e Venere, ma "fanno velo": ovvero, neoplatonicamente, ficinianamente, rivelano Venere a Mercurio con la loro danza. Mercurio è chiamato dentro il regno di Venere soprattutto da Amore: un Cupido che segue alla lettera la descrizione polizianesca e che è raffigurato proprio nell'attimo preciso in cui scocca la freccia, nella posa precisa che si riscontra nella stanza I.40. Quando quella freccia, nel dipinto ancora incoccata, avrà raggiunto la Grazia mediana che è il suo bersaglio (Chastitas, secondo gran parte della critica figura di Semiramide), Mercurio-Giuliano si girerà, vedrà Flora-Simonetta e vedrà il paradiso e si convertirà ad Amore.
La sposa – controfigura di Simonetta ma anche di Semiramide – nella Primavera compare come una splendida ninfa, inseguita dall'impeto erotico e poi, iniziata da Zefiro, è fatta Flora, donna perfetta: la sua veste è fiorita, come il suo corpo ha acquisito grazia di forme, il suo volto si è affinato e il serto che porta in vita è fiorito. Simonetta nelle Stanze di Poliziano si dice "nata in grembo a Venere", e il passaggio viene letto come una conferma della nascita di Simonetta a Portovenere. Nella Nascita di Venere, opera eseguita più tardi come prequel della Primavera, Simonetta è presente non già in veste di Flora, ma direttamente in figura di Venere, e ad attenderla, all’approdo a terra, c’è una bambina che porta una veste bianca, con fiori ancora in boccio, un serto in vita, che deve ancora tutto sbocciare: non casualmente, possiamo dire a questo punto, unica Ora, con una variazione, rispetto alla fonte di ispirazione, che riduce le ninfe che accolgono sulla sponda e rivestono la dea da tre a una.
Nel boschetto della Primavera gli "arbuscelli", rappresentati ancora come virgulti nella Nascita di Venere, sono fertili fusti svettanti – fiori e frutti di arancio, promessa nuziale. Mercurio è ancora retrogradus, ma fra un attimo si volterà e avverrà il miracolo d'amore. Amore trionfa: Amore che porta la benda ma mira esattamente il bersaglio (Wind [1958] 1971, 146). Cupido non è cieco, non è la "ceca peste" che Giuliano credeva: la sua benda, come tutti i velami, rivela, svela misteri altrimenti indicibili.
26 aprile 1476/26 aprile 1478: in quel giorno fatale segnato così crudelmente dalla stelle, è avvenuta la ricongiunzione degli amanti: là, nel paradiso d'Amore, sarà celebrato quel patto di nozze che in terra non poteva essere siglato. Subito al momento dell'incontro Simonetta aveva dichiarato a Giuliano il suo statuto di sposa legittima di un altro:
Io non son qual tua mente invano auguria,
non d'altar degna, non di pura vittima;
ma là sovra Arno innella vostra Etruria
sto soggiogata alla teda legittima.
Poliziano, Stanze per la Giostra, I.51
Ora, nel giardino, pronuba per le nozze sarà Venere stessa: una Venere sapiente, in veste di sposa, in un bosco fiorito d'aranci. La direzione del dipinto, stando alla posizione quasi di corteo delle figure, sembra andare da destra a sinistra; e così, seppure con ripresa circolare, lo legge Wind (Wind [1958] 1971, 155). La Nascita di Venere, stando al testo di Poliziano che costituisce la filigrana del disegno botticelliano, si legge senza dubbio nell'altro verso: prima gli Zefiri e poi l'Ora che accoglie la dea e la ammanta. E pure anche nel Giardino di Venere il complesso 'gioco figurato' può essere letto anche da sinistra a destra: prima, secondo le Stanze, viene la renitenza di Iulo, poi verranno le Grazie, lo scoccare della freccia di Amore e l'incontro con Simonetta sotto lo sguardo attento e benevolente di Venere. Giuliano-Mercurio si volterà in questo giorno fatale: accadrà in un attimo e vedrà Flora-Simonetta, nata in grembo a Venere e già iniziata all'amore da Zefiro.
Il racconto del mito d’amore e di morte delle icone delle due casate dei signori di Firenze e di Piombino torna a vivere per celebrare le nozze di Lorenzo e di Semiramide: nuovo Giuliano, nuova Simonetta. Sulla terra Pallade-Lorenzo ha provveduto a vendicare la congiura e la morte del fratello domando il centauro della pazzia e ristabilendo la pace, anche grazie al patto di Napoli – siglato contro la lega di Sisto IV; e il golfo di Napoli è con tutta probabilità il paesaggio che fa da sfondo alla Pallade e il centauro, dove Lorenzo il Magnifico si fa raffigurare in veste di Pallade, ma con i tratti di Simonetta.
Nel Giardino di Venere, intanto, una volta saldati in collana i frammenti aoristici dell'incantamento amoroso, una volta ricomposto il mosaico della passione ispirata da Zefiro con la grazia di Flora e la compostezza di Venere, l'armonia palindroma della danza delle Grazie con la sapienza di Mercurio che gioca a dissipare le nuvole, Amore non sbaglia il bersaglio e si compiono le nozze fatali. Questo avviene il 26 di aprile nel Regno di Venere.
English abstract
As is known Aby Warburg is credited with having proposed first the hypothesis of a common pattern that supports – in terms of subject, thematic inspiration, committance – the three ‘allegorical' paintings by Sandro Botticelli preserved in the Gallerie degli Uffizi in Florence: the "Birth of Venus", the so-called "Spring", "Pallas and the Centaur". Moreover, Warburg is credited with having set the reading of the 'profane' paintings by Botticelli, if not as a consequential series, as a 'cycle' due to the same context of the committance, which has to be considered as a whole, as part of a thematically coherent iconological interpretation.
The original critical interpretation of documentary data available at his time and the hermeneutical basting proposed by Warburg, have been partially confirmed, in part clarified, in part corrected by the many studies that have taken place during the Twentieth Century and up to the present day. After more than a hundred years after the formulation of Warburg’s hypothesis, which involves the possibility of an overall interpretation of the mythological paintings by Botticelli, however it remains still largely valid, and, as I will try to argue in this paper, it is worth relaunching, with the necessary mendings and clarifications, precisely because of the critical, technical, artistic and documentary new acquisitions by the researches of art history and iconology on the work of Botticelli.
Only from 1480, after long months in which the fierce vengeance of Lorenzo de’ Medici against the conspirators and all those suspected of conniving with the Pazzi explodes, the gloomiest period of Lorenzo’s public and private life – from the bleak political point of view, but also from the bleak statement for the commercial development of the business of the Medici – began to clear, the civilized atmosphere of the sky of Florence brightned up, and the Medici began to renew the complicated web of social, economic, political, diplomatic and family relationships.
Finally in this context, 1482 the wedding of Lorenzo di Pierfrancesco and Semiramide Appiani was celebrated: and so the strategic bond of kinship between the Medici and the Appiani that, with ups and downs, the two families had worked for for decades, was welded. More than a love story based on sentimental reasons, a bond of economic interest, related to the Appiani mines in Piombino whose income was also at play in the dowry for the marriage of Simonetta Appiani with Marco Vespucci (1469) and after in the marriage covenant of Semiramide Appiani with Giuliano De Medici (1477) failed for the death of Giuliano in the Pazzi’s Conspiracy, and now, finally, in the dowry for the marriage of Semiramide Appiani with Lorenzo di Pierfrancesco (1482).
The marriage of Semiramide and Lorenzo di Pierfrancesco was originally scheduled for May 1482, but was celebrated only on 1482, July 19th, Florence being in mourning – "essendo in bruno" – for the death of Lucrezia de' Tornabuoni, mother to Lorenzo. Botticelli was ready to lend his "ear ready and willing hand" (as Warburg wrote) to return to painting fabulae of the myth that Poliziano in 1474 had already adapted at the love story of Giuliano and Simonetta in the Stanze per la Giostra. Now the modern myth of Giuliano and Simonetta – a story both beautiful and tragic – was ready to be readapted to the new marriage between Medici and Appiani families. Finally the wedding of Semiramide Appiani (as a "new Simonetta") and Lorenzo di Pierfrancesco (who had inherited the Giuliano' enterprise with the dry ‘broncone’ ever capable of re-burning) was celebrated.
This is the subject of the "Spring" painted by Botticelli. In springtime the love story of Giuliano and Simonetta – now reincarnated in Lorenzo di Pierfrancesco and Semiramide – is celebrated: when Cupids’s arrow has reached the Grace median (Chastitas, according to most critics is a figure of Semiramide), Mercury – as a figure of Lorenzo di Pierfrancesco ‘after’ Giuliano – will turn and he will see Flora-Simonetta. The Botticelli painting is a double celebration, both real and mythical. While the real marriage, based almost on economical reasons, between Appiani and Medici takes place on the earth, the mythical marriage between Giuliano and Simonetta takes place in the paradise of Venus.
keywords | Botticelli; Venus; Birth of Venus; Spring; Pallas and the Centaur; Warburg; Iconology.
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Per citare questo articolo / To cite this article: M. Centanni, 26 aprile, giorno di primavera: nozze fatali nel giardino di Venere. Una rivisitazione della lettura di Aby Warburg dei dipinti mitologici di Botticelli, “La Rivista di Engramma” n. 105, aprile 2013, pp. 106-147 | PDF