La Pallade con lancia da giostra: autorappresentazione simbolica da Giuliano a Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici
Sara Agnoletto
English abstract
Dal 1893 tutti gli studiosi che si sono espressi sul soggetto del rilievo della base numero 15 della Calunnia di Apelle di Sandro Botticelli (base numero 17 secondo il diagramma elaborato da Meltzoff) hanno convenuto che si tratta di una immagine di Minerva (per i dettagli, l’analisi dei soggetti, la bibliografia critica del fondale della Calunnia si rimanda, in Engramma, a Agnoletto 2013). Di conseguenza la prima ipotesi di lettura avanzata da Hermann Ulmann è stata accreditata negli anni, senza tuttavia essere mai approfondita o discussa. Eppure questa immagine di Minerva a oggi non pare interamente compresa, in quanto presenta qualcosa di inconsueto che sollecita un approfondimento della ricerca.
Notava Stanley Meltzoff che la Minerva che appare nel fondale dell’opera botticelliana assomiglia in maniera considerevole ad altre varianti del soggetto realizzate da Sandro Botticelli, in particolare a un disegno, attribuito all’artista, e a una tarsia lignea del Palazzo Ducale di Urbino. Il disegno cui fa riferimento Meltzoff è con tutta probabilità uno studio raffigurante Minerva con un ramo di ulivo conservato presso il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi di Firenze. Va però ricordato che un disegno di identico soggetto è conservato anche presso l’Ashmolean Museum di Oxford. È opinione condivisa tra gli studiosi che queste immagini, insieme con l’arazzo eseguito per Guy de Baudreuil, abate di Saint-Martin-aux-Bois, derivino tutte da un’opera perduta di Sandro Botticelli: lo stendardo dipinto per Giuliano de’ Medici in occasione della giostra celebrata a Santa Croce, in Firenze, il 29 gennaio 1475.
Fortunatamente di quel ‘panno’ possediamo una descrizioni ecfrastica anonima (scoperta nel 1902 da Giovanni Poggi), puntualmente confermata dai versi del poeta neolatino Naldo Naldi:
Era sopra il decto cavallo uno armato...; portava in mano una asta grande dipinta d’azzurro suvi uno stendardo di taffectà alexandrino frappato e frangiato in torno che nella summità era un sole et nel mezo di questo stendardo era una figura grande simigliata a Pallas, vestita d’una veste d’oro fine in fino a mezo le gambe, et di socto una veste biancha, ombreggiata d’oro macinato, et uno paio di stivalecti azurri in gamba: la quale teneva i piè in su due fiamme di fuocho et delle decte fiamme usciva fiamme che ardevano rami d’ulivo, che erano del mezo in giù dello stendardo, che dal mezo in su erano rami senza fuocho. Haveva in capo una celata brunita all’anticha, e suoi capelli tucti attrecciati che ventolavano. Teneva decta Pallas nella mano diricta una lancia da giostra et nella mano mancha lo scudo di Medusa. Et appresso a decta figura un prato adorno di fiori di varii colori che n’usciva uno ceppo d’ulivo con un ramo grande, al quale era legato uno dio d’amore cum le mani dirieto cum corde d’oro. Et a’ piedi aveva archo, turcasso et saecte rocte. Era commesso nel ramo d’ulivo, dove stava legato lo dio d’amore, uno brieve di lectere alla franzese, d’oro, che dicevano: La sans par. La sopradecta Pallas guardava fisamente nel sole che era sopra a lei.
Non può esserci dubbio che la Minerva che compare nella tappezzeria Baudreuil e nei disegni oggi agli Uffizi e all’Ashmolean Museum sia altra cosa rispetto alla figura che, secondo le fonti, era rappresentata nello stendardo della giostra medicea del 1475: tra i particolari che non tornano significativa pare l’assenza della lancia da giostra e dei bronconi ardenti. In un saggio pubblicato nel Journal of Warburg and Courtauld Institutes nel 1938-1939, Rudolf Wittkower ha fatto luce sulla questione argomentando che, nonostante per ragioni stilistiche sia evidente la fattura botticelliana dell’arazzo, alcuni dettagli inducono a pensare che l’abate stesso abbia preso parte all’invenzione del disegno: sia alla composizione dei versi incorniciati nel cartiglio, sia all’ideazione della figura di Minerva, fino alla pianificazione dello schema generale della composizione. All’abate stesso sarebbe da attribuire, secondo Wittkower, la scelta del modello per la figura di Minerva, che deriverebbe dalla medaglia realizzata da Francesco Laurana nel 1463 per René, duca d’Anjou, conte di Provenza e re di Napoli. L’intenzione di Laurana sarebbe stata quella di celebrare l’indole pacifica del re, e più precisamente la sua intenzione di rinunciare a guerre e battaglie per far ritorno nell'amata Provenza e dedicarsi a coltivare i propri interessi culturali e sociali: perciò Laurana combina l’iscrizione ‘PAX AUGUSTI’ con la rappresentazione di una ‘Minerva Pacifica’, preferendola alla più convenzionale immagine della dea della Pace, che ha come attributo caratterizzante il ramo d'ulivo, ma porta anche cornucopia e caduceo.
La tappezzeria Baudreuil rappresenterebbe quindi, secondo Wittkower, la personale impresa umanistica di un abate francese il quale, ispirato dal lavoro di Francesco Laurana per un committente anch’egli francese (René d’Anjou), facendo ritorno in Italia commissionò la realizzazione di un’opera che corrispondeva a uno schema precedentemente acquisito. Il disegno degli Uffizi, come dimostra la griglia quadrettata, sarebbe servito per trasferire la figura di Minerva sul cartone utilizzato per tessere l'arazzo. Tutti gli altri elementi della composizione sarebbero stati anch’essi consegnati in forma di piccoli disegni, per essere poi ricomposti in Francia, o presso il circolo che faceva capo all’abate di Saint-Martin-aux-Bois, o presso la manifattura tessile dove fu realizzata la tappezzeria.
Nell’arazzo il tema centrale era la celebrazione della Saggezza, come virtù principale dell’abate: lo scudo con la testa di Medusa, simbolo apotropaico di terrore e distruzione, è appeso all’albero senza vita della Conoscenza, mentre l’armatura pende, alla maniera di un trofeo antico, dall’albero verde e rigoglioso della Grazia, le cui foglie e bacche sono di agrifoglio, emblema personale di Guy de Baudreuil. La corazza, simbolo di resistente virtù, in combinazione con l’albero della Grazia, starebbe a significare, sempre secondo Wittkower, che la virtù dell’abate è determinata dalla Grazia divina. Avvolto al tronco dell’albero, il cartiglio con il motto di Baudreuil recita: ‘SUB SOLE SUB UMBRA VIRENS’. La sentenza, ripetuta nel bordo che incornicia il panno in alternanza con il cuore coronato del blasone e con ghirlande di agrifoglio, richiama la natura sempreverde della pianta e allude alla sempre vitale virtù del celebrato. La saggezza non è però soltanto sapienza del divino, ma anche sapienza delle cose umane, e quindi la fede nella vita eterna ha, come controparte, la conoscenza dei peccati. In questo senso, nell’interpretazione di Wittkower, l’albero morto rappresenta il lato oscuro della verità. L’immagine della ‘Alma Minerva’, madre delle arti e delle scienze, è, come recita l’iscrizione, ‘MINERVA MORTALES CUNCTIS ARTIBUS ERUDIENS’, e si fonde con l'immagine della ‘Minerva pacifica’, stante nel mezzo della composizione con il ramo d’olivo e l’elmo in mano, ‘SUB SOLE SUB UMBRA VIRENS’. Il suolo roccioso indicherebbe che il cammino che conduce alla saggezza è arduo, ma i fiori della conoscenza germogliano tutt’intorno.
In questo gruppo di immagini è certo che la Pallade della tarsia lignea del Palazzo Ducale di Urbino presenta, come osservò per primo Aby Warburg, evidenti analogie con la Pallade dello stendardo di Giuliano de’ Medici quale è descritta nelle descrizioni che ci sono pervenute: la figura femminile, in piedi su bronconi ardenti, stringe nella mano sinistra uno scudo con la testa di Medusa, appoggiato a terra; il suo sguardo è rivolto verso il cielo e, particolare importante ai fini del discorso che si sta tessendo, con la mano destra impugna una lancia da giostra, inconfondibile grazie al caratteristico elemento protettivo a forma di campana – il padiglione, che separa l’impugnatura dall’astile, onde meglio proteggere la mano del cavaliere. Una lancia da giostra, quindi, e non una semplice lancia con la punta rivolta verso il basso, espressione di magnanimità e di aspirazioni pacifiche, come è stata talvolta erroneamente interpretata. Tra le due opere non mancano, come fa notare Jacques Mesnil, delle differenze. Non si può pertanto affermare che la Pallade urbinate riproduca puntualmente l’immagine dello stendardo purtroppo perduto, ma ne riutilizza alcuni elementi adattandoli in una composizione originale che, comunque, risulta essere il parallelo più vicino all’insegna di Giuliano.
Nel palazzo urbinate l’immagine di Pallade e quella di Apollo furono poste come numi tutelari dell’appartamento Ducale, a ornamento della monumentale porta a due battenti che si apre dalla Sala degli Angeli (così chiamata per via dei fregi che ornano il camino al centro della sala), al Salone del Trono (chiamato così per il trono papale collocatovi durante il dominio dello Stato Pontificio). La magnifica porta è datata tra il 1474 (anno in cui Federico da Montefeltro ottenne da papa Sisto IV Della Rovere il titolo di duca, cui allude orgogliosa l’iscrizione ‘FE-DUX’ che campeggia sulla porta) e il 1482, anno della morte dello stesso Duca. Sarà però verosimile postdatare la sua ideazione a un periodo successivo alla giostra del 1475, dal momento che la figura della tarsia di Urbino riprende l’immagine di Pallade che in quell’anno il figlio minore di Piero il Gottoso utilizzò come insegna personale nella giostra che i Medici organizzarono per celebrare la lega difensiva (la “Santissima Lega”) stipulata il 2 novembre 1474 con Venezia e Milano. Solo tre anni più tardi lo stesso Giuliano perdeva la vita in una memorabile congiura, di cui probabilmente uno degli artefici fu, complice il papa Sisto IV, proprio il Duca di Urbino Federico da Montefeltro.
Nel corpus delle opere di Sandro Botticelli o della sua bottega si possono individuare altre due immagini di ‘Pallade con lancia da giostra’: si tratta di due figure, già identificate come ‘Minerva’ da Hermann Ulmann, ma finora mai messe in connessione con la serie collegabile allo stendardo perduto. La prima è la figura femminile della base numero 15 del fondale della Calunnia; la seconda compare nell’illustrazione del XII canto del Purgatorio della Divina Commedia di Dante, opera che com’è noto l’artista fiorentino illustrò, tra il 1480 e il 1494, per incarico di Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici (detto il Popolano), cugino di secondo grado di Lorenzo il Magnifico, amico e mecenate del pittore.
Il XII canto del Purgatorio conclude la triade dedicata alla superbia, il più grave dei sette peccati capitali: nel X canto sono esposti esempi di umiltà premiata, nell’XI hanno luogo gli incontri con tre personaggi rappresentativi del peccato di superbia, nel XII vengono riportati alcuni casi esemplari del vizio punito. Tra gli episodi mitologici nei quali la superbia è punita in modo esemplare, Dante segnala quello della battaglia di Flegra, in cui il gigante Briareo fu colpito dal fulmine di Giove (“Vedëa Brïareo fitto dal telo celestïal giacer, da l’altra parte, grave a la terra per lo mortal gelo”, Dante, Purgatorio XII, 28-30) e i Giganti sono sterminati da Zeus, aiutato dagli altri dei e da Eracle (“Vedea Timbreo [epiclesi di Apollo], vedea Pallade e Marte, armati ancora, intorno al padre loro, mirar le membra dei Giganti sparte”, Dante, Purgatorio XII, 31-33). Nel minuzioso disegno botticelliano che illustra questo passo, la dea sembra colta nel momento in cui recupera le forze al termine della battaglia, mentre contempla i corpi squartati dei Giganti che giacciono ai suoi piedi; con la mano destra impugna la lancia da giostra, con la sinistra uno scudo posato al suolo.
È risaputo che Pallade fu un soggetto allegorico caro alla famiglia de’ Medici. Negli inventari medicei del 1492 è attestata “nella camera di Piero” [Piero di Lorenzo de’ Medici, detto il Fatuo, figlio primogenito di Lorenzo de’ Medici e Clarice Orsini] la “figura di Pa[llade] et con schudo dandresse e una lancia d’archo di mano di Sandro da Botticello” (per l’incomprensibile “dandresse” Warburg ha pensato a “di medussa” o ancora “dapresso”; altrettanto oscura l’espressione “lancia d’archo” che l’archeologo tedesco Reinhard Kekulé sciolse come “lancia ed archo”).
Giorgio Vasari ricorda inoltre che Sandro Botticelli “in casa dei Medici, a Lorenzo vecchio [il Magnifico] lavorò molte cose: e massimamente una Pallade su una impresa di bronconi, che buttavano fuoco; la quale dipinse grande quanto il vivo”. Alla testimonianza scritta di Vasari va affiancato, come documento grafico, l’arazzo che lo stesso ideò su incarico di Cosimo I, per arredare uno degli ambienti di Palazzo Vecchio, storico Palazzo della Signoria. La tappezzeria, che fa parte di una serie di sette arazzi in cui sono illustrati alcuni episodi significativi della vita di Lorenzo il Magnifico, rappresenta, come esplicitamente indicato nell’inventario della Guardaroba medicea “un panno del detto Lorenzo dell’Accademia delli scultori e pittori”. Il personaggio alla destra del Magnifico, in atto di mostrare al signore di Firenze un bozzetto, fu identificato nel 1903 da Luigi Simoneschi come Sandro Botticelli. Lo stesso Simoneschi interpretò la figura femminile che appare nel disegno scalza, con l’elmo piumato, una lancia nella mano destra e uno scudo nella sinistra, come un riferimento alla Pallade dello stendardo di Giuliano de’ Medici per la giostra fiorentina del 1475.
Eppure, come si è visto in precedenza, nell’insegna di Giuliano Minerva non impugnava una semplice lancia, bensì una lancia da giostra, dettaglio riportato dalle fonti testuali e figurative con l’attenzione che si riserva ai particolari significativi. È importante sottolineare questa connotazione specifica, non adeguatamente valorizzata nelle letture critiche anche recenti, perché proprio la lancia da giostra, grazie al suo straordinario potere evocativo, all’immediatezza e alla pregnanza, è, insieme ai bronconi ardenti, un attributo identificativo di Giuliano. Sarà da includere in questa lettura anche l’analisi di un’altra importante opera di Botticelli: Venere e Marte, conservato alla National Gallery di Londra.
Si tratta di una pittura a tempera su tavola, che misura 69 cm di altezza per 173,5 cm di larghezza, e che in genere è datata a dopo il ritorno dal soggiorno romano del pittore (1482) e viene messa in relazione con gli altri grandi dipinti della serie mitologica realizzati dal Botticelli: la Primavera, la Nascita di Venere e la Pallade e il centauro. Il formato dell’opera e il soggetto rappresentato hanno fatto ipotizzare che si tratti di una spalliera, la quale avrebbe decorato il letto matrimoniale di una coppia di sposi novelli: in essa Venere riposa distesa ma vigile, di fronte a un Marte addormentato; la dea indossa l’abito da sposa, allo stesso modo che nella Primavera, e i satirelli, come ha rilevato per primo il critico George Noble Plunkett, furono ispirati da quelli che compaiono nella elegantissima riconversione ecfrastica che Luciano ci ha lasciato del pittore Aezione raffigurante Le nozze di Rossane e di Alessandro:
È dipinto un talamo bellissimo, ed un letto nuziale: Rossane è seduta, venustissimo fiore verginale, con gli occhi a terra, e vergognosa d’Alessandro che l’è dinanzi. Ridenti amorini le sono d’intorno: uno di dietro le scopre il capo dal velo, e l’addita allo sposo: un altro, come gentil valletto, le toglie una scarpetta d’un piede, chè ella è già per corcarsi: un altro amorino preso Alessandro alla clamide, lo trae verso Rossane, e si vede lo sforzo che ei fa nel tirare. Il re porge una corona alla fanciulla. Compagno e pronubo Efestione gli sta vicino, tenendo in mano una face accesa, ed appoggiandosi ad un bellissimo garzonetto, che forse è Imeneo. In un altro piano del quadro altri amorini scherzano con le armi di Alessandro, due portano la sua lancia, imitando i facchini quando portano una trave pesante: due altri, messosi uno a sedere su lo scudo in atto da re, lo trascinano, tirando lo scudo per le corregge: ed un altro ficcatosi nella corazza che giace per terra, pare vi si sia appiattato per fare un bau ed una paura a quelli che trascinano lo scudo quando gli verranno vicino (Luciano, Herodotus Sive Aëtion, 4-6; traduzione di Luigi Settembrini).
Il prestito, osserva Guido Cornini, “si giustifica con l’identità delle circostanze esterne che ispirarono l’esecuzione del quadro antico così come l’allogazione del dipinto moderno: circostanze matrimoniali”. Il quadro realizzerebbe dunque una compiuta iconografia augurale, indirizzata a una coppia nella fausta ricorrenza delle nozze. Fu Ernst Gombrich a identificare nell’inconsueto motivo delle vespe che sciamano dentro e fuori il tronco spezzato collocato sopra la testa del dio addormentato, una allusione al nome dei Vespucci. Questo ha fatto pensare che l’opera potesse essere stata realizzata per il matrimonio di un membro di quella famiglia o che potesse rappresentare gli amori di Giuliano e Simonetta. Entrambe le ipotesi sono verosimili alla luce dei nuovi dati di cui disponiamo. Gli attributi di Marte non vanno difatti solo letti come una interpretazione in chiave moderna, come una semplice attualizzazione delle armi del dio: la lancia da giostra è, in questo contesto, un chiaro riferimento all’emblema adottato da Giuliano de’ Medici nella giostra del 1475, qui utilizzato per far riferimento al figlio cadetto di Piero de’ Medici, così come il nido di vespe rimanda alla persona di Simonetta Vespucci. A conferma di questa lettura è possibile inoltre distinguere sull’elmo indossato da uno dei piccoli fauni il broncone ardente, vale a dire “l’impresa di bronconi”, l’altro emblema che secondo il Vasari Giuliano avrebbe vestito “nella sua giostra sopra l’elmo, dinotando per quella che, ancora che la speranza fusse dello amor suo tronca, sempre era verde, e sempre ardea, né mai si consumava”.
Sebbene sia innegabile una prima identificazione dei protagonisti del quadro con Simonetta Vespucci e Giuliano de’ Medici, è possibile, a partire dalla lettura di recente formulata a proposito della Primavera da Monica Centanni sulla base dei riscontri documentari raccolti da Ivan Tognarini, riconoscervi anche, contemporaneamente, la figura di Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici (nuovo Giuliano) e Semiramide Appiani (nuova Simonetta) che nel 1482, data prossima alla presunta realizzazione del quadro, celebrarono le proprie nozze (sul tema si veda, da ultimo, Centanni 2013). Lorenzo di Pierfrancesco aveva ereditato, come una sorta di ‘private heraldy’ (l’espressione è di Gombrich), l’impresa del broncone secco che riprende fuoco che era stata dello zio Giuliano, e nella Primavera e nel Venere e Marte reinterpreta insieme alla sposa Semiramide la storia d’amore di Giuliano e Simonetta. Non è azzardato immaginare che Lorenzo possa avere adottato anche un altro emblema dello zio Giuliano, la Pallade con lancia da giostra che, non a caso, riappare in un’altra opera che lo stesso Lorenzo di Pierfrancesco commissiona in quel torno d’anni a Sandro Botticelli: l’illustrazione de La Divina Commedia di Dante. Se così è, il rilievo con l’immagine di Pallade nella Calunnia, oltre ad avere un valore apotropaico come già proposto da Stanley Meltzoff, avrebbe anche una chiara valenza emblematica.
Il rapido suggerimento che Meltzoff racchiude in un breve accenno, merita di essere preso in considerazione e sviluppato. Minerva, dea della sapienza e delle virtù civili, sembra essere invocata per scacciare le cattive influenze di quei vizi (ignoranza, sospetto, rancore, insidia e frode, secondo l’insegnamento della lezione di Luciano), che possono per l’appunto influenzare e viziare il giudizio degli uomini; proprio il giudizio giusto è considerato dagli umanisti il pilastro fondamentale sia della civiltà che del buon governo, e la dote principale tanto dell’uomo civile come del buon governante. L’uomo rinascimentale, finalmente libero di scegliere cosa vuole diventare, può trascendere il mondo naturale, costruire una società civile, e ottenere, grazie alle proprie opere, l’immortalità della gloria. Esempi di humanitas e di eroismo civile, storie di imprese giuste condotte per una giusta causa, sono variamente distribuite nella decorazione del fondale architettonico della Calunnia: David (nicchia 4), Muzio Scevola (cassoni 7, 8 e 9) e Giuditta (nicchia 14, architrave 9, plinto 11) inscenano una esemplarità civile fondata sulla difesa della libertà contro il tiranno e sulla salvezza della patria. E sempre fra i rilievi del fondale è indicata un’altra potenza trasfigurante, fonte di civiltà, in grado di motivare l’uomo affinché intraprenda e percorra quel cammino che lo convertirà in un uomo veramente humanissimus – colto, educato e virtuoso, capace di contenere l’impulso naturale e bestiale delle proprie passioni; un uomo che si innalza al di sopra della natura, della ferinitas e si distanzia dalla barbaritas, guidato dalla potenza di Amore. Sull’architrave 8 e sulla base 14 della Calunnia è raffigurata la novella di Cimone ed Efigenia, “che sviluppa il grande tema della bellezza femminile catartica, esaltatrice, nobilitante degli uomini” (Branca 1999, 40), visivamente cristallizzata proprio nel momento chiave della conversione di Cimone indotta dalla contemplazione della bellissima Efigenia dormiente (sulla rappresentazione della novella di Cimone ed Efigenia nel fondale della Calunnia si veda il contributo in questo stesso numero di Engramma).
Ma anche la Pallade dello stendardo di Giuliano, cui rimanda l’immagine della base 15, simboleggia, con le sue armi terribili, Amore; l’amore casto che vince l’amore lascivo e lussurioso di Cupido che, sconfitto e fatto prigioniero, è rappresentato legato a un ulivo con arco e frecce (emblemi degli istinti bestiali, di “lussuria... e quel furore / che la meschina gente chiama amore”), rotti e inservibili. Stando a quanto scritto nelle Stanze per la Giostra (quasi illustrazione ‘didascalica’ del programma iconografico dell’insegna del fratello minore di Lorenzo), una volta domato da Pallade, il furore amoroso di Eros, santificato e divenuto ormai ‘santo furore’ (II 45, v. 5), diviene causa di elevazione morale. “Amore, che è da solo lussuria, lascivia umana, dopo la lotta con Minerva si è dunque santificato: castità/ragione e amore, riconciliati, possono così additare insieme a Iulio [o Iulo, trasfigurazione classicheggiante di Giuliano] la via della gloria” (Settis 1971, 147). Per il Poliziano delle Stanze per la Giostra l’amore casto di Pallade è altra cosa rispetto al disprezzo dell’Amore professato dalla casta Diana. Il rifiuto d’Amore è considerato un atto di superbia (il più grave dei sette peccati capitali) e come tale deve essere condannato. Così, nel primo libro delle Stanze per la Giostra, Iulo è punito da Cupido perché vive dedicandosi agli esercizi del corpo, alla caccia e all’attività poetica, disdegnando l’amore. Nello stesso senso, nel fondale della Calunnia, sono incluse la scena di Apollo e Dafne (plinto 2) come pure la novella di Nastagio degli Onesti (cassettoni S1-S6: con particolare enfasi posta sul truculento castigo inflitto dal cavaliere all’altezzosa amata, mentre si omette qualunque riferimento al lieto fine), esempi che esprimono la condanna aperta dell’orgoglio e della superbia di colei che altezzosamente rifiuta di amare.
Il fondale della Calunnia ci appare come un grande palinsesto i cui pezzi, come in un puzzle, sono tutti da studiare, scegliere, analizzare con estrema oculatezza uno per uno. La ricerca sui singoli dettagli e sul disegno di insieme della composizione è ancora tutta aperta, ma appare chiaro che, nella scelta tematica dei soggetti del fondale, l’ideatore del programma iconografico si sente libero, ad esempio, di evadere le indicazioni ecfrastiche di Luciano, e di rileggere il testo classico arricchendolo di nuovi significati così da aggiornarlo e adattarlo alla nuova sensibilità umanistica e neoplatonica. Anche scostandosi dall’insegnamento etico presente nella fonte antica, il tema risulta piegato alle nuove esigenze del committente che promuovono una nuova costellazione di valori morali e insieme civili e politici: dalla condanna della superbia, della lussuria e della tirannia, all’invito all’adozione di comportamenti civili e giusti, alla difesa della libertà.
Ringraziamenti
L’autrice ringrazia il dott. Dorian Cara e la dott.ssa Marina Riccucci per il prezioso aiuto nella consultazione del saggio di cui sono coautori.
English abstract
In 1475 there was a jousting tournament in the Piazza Santa Croce, Florence. It was hosted by Lorenzo the Magnificent and was won by his younger brother, Giuliano de' Medici. During the ceremony Giuliano carried a standard with a picture of Pallas Athena painted by Botticelli. Although this image is lost, an anonymous description of the festivities depict Giuliano's banner as a Minerva in arms, with the motto La sans par, amongst olive branches and flames. Minerva looks at the sun, while little Cupid is tied to a tree, his weapons broken. Furthermore, the figure of an intarsia door in the Palazzo Ducale of Urbino resembles the figure of Pallas on the standard. The peculiarity of that Pallas is the appearance of the jousting lance, instead of a spear, in her right hand.
Two other images of Pallas with jousting lance were identified in this essay: the Minerva in the base 15 of the Calumny of Apelles; and the Minerva in one of the illustration for the Dante's Divine Comedy (the Purgatory XII), which Botticelli executed, from about 1480 to 1500, for Lorenzo di Pierfrancesco, his great patron from the Medici family. Furthermore, it was suggested that the figure of Pallas with jousting lance was adopted by Giuliano, and afterwards by Lorenzo di Pierfrancesco, as an emblem. In the Calumny of Apelles, Minerva personifies the guardian of judgment and the promoter of civilization and good governance.
keywords | Botticelli; Calunnia di Apelle; Pallas; Angelo Poliziano; De' Medici.
Bibliografia
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Per citare questo articolo / To cite this article: S. Agnoletto, La Pallade con lancia da giostra: autorappresentazione simbolica da Giuliano a Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici, “La Rivista di Engramma” n. 112, dicembre 2013, pp. 7-21 | PDF