Ninfa impertinente: Victorine e la Patera di Parabiago
A proposito dei modelli del Déjeuner sur l’herbe di Manet e, prima, di Raffaello
Monica Centanni
Su questo tema, vedi in questo stesso numero di Engramma, La ninfa di Manet: deduzioni formali e ispirazione tematica
English abstract
Manet “un fidato amministratore dell’eredità della tradizione”
Nel 1929 Aby Warburg dettava a Gertrud Bing un lungo appunto, molto probabilmente l’abbozzo per un saggio che, nel taccuino in cui è conservato presso il Warburg Archive a Londra, porta il titolo Manet’s “Déjeuners sur l’herbe”. Die vorprägende Funktion heidnischer Elementargottheiten für die Entwicklung moderner Naturgefühls (Il “Déjeuner sur l’herbe” di Manet. La funzione prefigurante delle divinità pagane elementari per l’evoluzione del sentimento moderno della natura, WARBURG [1929] 1984).
La riflessione di Warburg prendeva spunto da un contributo di Gustav Pauli che a sua volta rilanciava e argomentava un’intuizione di Ernest Chesneau (CHESNEAU 1864, p.190): per il Déjeuner di Manet, “il quadro moderno che pone maggiori difficoltà al critico che voglia provarne le connessioni formali e sostanziali della tradizione” (WARBURG [1929] 1984, p. 40), era “possibile indicare il modello antico e il mediatore italiano con una esattezza quale di rado è riuscita alla scienza dell’arte” (WARBURG [1929] 1984, p.41).
Nello stesso 1929 Warburg stava lavorando al grande progetto del Bilderatlas Mnemosyne, e nella tavola 55 viene proposto un percorso di deduzione iconografica preciso: la Ninfa nuda del picnic che tanto scandalo aveva suscitato a Parigi nel 1863 quando era stata esposta al Salon des Refusés, poteva vantare un pedigree autorevole. Il montaggio di tavola 55 ci indica chiaramente i motivi e i percorsi attraverso i quali, secondo Warburg, la Ninfa approda sulla tela del pittore: se per il tema e per la composizione Manet si era ispirato al Concerto campestre di Giorgione, la posa impertinente della sua scandalosa Victorine (Victorine Meurent, la modella prediletta dell’artista) ha un precedente illustre in un’incisione di Marcantonio Raimondi da Raffaello.
L’incisore Marcantonio Raimondi (Bologna 1480 ca. - 1534 ca.), copia un’opera perduta di Raffaello raffigurante il Giudizio di Paride; a sua volta Raffaello si sarebbe ispirato a un sarcofago visibile a Roma, ora murato nel giardino di Villa Medici. Nella tavola 4 del Bilderatlas, Aby Warburg espone anche i modelli antichi delle Ninfe di Giorgione e di Manet presenti in tavola 55. Come sempre la complessa strategia argomentativa dell’Atlante rifugge programmaticamente da ogni semplificazione iconografica e mira a sottolineare sempre l’importanza del testo mediatore (nel caso specifico l’incisione cinquecentesca) rispetto all’identificazione secca di un modello unico: l’Atlante ci insegna che quasi sempre nella tradizione è la serie che ‘fa testo’ (vedi al proposito in Engramma: i contributi di Marianna Gelussi sui modelli della ‘Danza dei nudi’ del Pollaiolo e sui modelli del Satiro di Mazara del Vallo; e più in generale, il mio contributo L’originale assente: il gruppo del Laocoonte in Tavola 41a). Dunque in tav. 55 l’opera di Manet ci viene presentata come esito finale in un processo di trasmissione in cui un ruolo importante è svolto dal ‘testo mediatore’ (l’incisione di Marcantonio Raimondi da Raffaello); all’interno del gruppo di tavole 4-8 che presentano le le “Preformazioni” (ovvero i modelli antichi) Warburg esibisce anche i ‘modelli originali’ in una serie di sarcofagi datati al II secolo d.C. che hanno come soggetto il Giudizio di Paride.
In particolare per il gruppo delle due figure sulla destra – il dio Fiume e la ninfa – Raffaello (giusta Raimondi) avrebbe tratto bensì ispirazione dal sarcofago di Villa Medici, ma avrebbe introdotto però una significativa variante rispetto al modello: la ninfa che “nell’arte pagana leva estaticamente adorante il capo verso le meraviglie dell’alto [i.e. verso il ritorno di Venere all’Olimpo] nell’incisione volge la testa al contemplante mondo esterno”.
Suggestioni da Giorgione
Stando dunque a Warburg (sulla scorta di Pauli e Chesneau) il modello della ninfa di Manet sarebbe “esattamente” l’incisione di Marcantonio Raimondi da Raffaello. In un breve saggio pubblicato del 1996 uno studioso veneziano proponeva invece un convincente modello ‘giorgionesco’ come mediazione ulteriore tra il sarcofago antico e Manet. Guerrino Lovato ricorda infatti che nel 1859 il ventiseienne Manet compie il suo secondo viaggio in Italia. Il soggiorno segna profondamente il giovane pittore: è proprio in occasione di una sua visita di studio che ha modo di copiare anche la cosiddetta Venere di Urbino di Tiziano, schizzo che, qualche anno dopo (è il 1863), viene utilizzato per la celebre Olympia (tela oggi al Musée d’Orsay). Manet per altro dichiara esplicitamente il suo debito verso Giorgione: non è da escludere – sostiene Lovato – che il pittore, magari andando a far visita alla famosa pala conservata nel Duomo di Castelfranco, possa avere ammirato gli affreschi del Palazzo Piacentini che affaccia sull’attuale Piazza Giorgione. Secondo la critica quegli affreschi furono realizzati nel secondo Cinquecento da Cesare Castagnola, ma nell’incertezza che allora come ora avvolge le attribuzioni al Maestro, alla metà dell’800 potevano essere considerati di mano del Giorgione (LOVATO 1996, p. 49). Tra gli affreschi è una scena della Caduta di Fetonte, oggi piuttosto rovinata ma nell’800 sicuramente più leggibile: nella parte centrale raffigura Fetonte che cade a precipizio con il suo cocchio e i quattro cavalli scomposti nella caduta e aggrovigliati nelle redini; nella parte inferiore un gruppo di divinità, seduto nei pressi di un fiume tra la vegetazione, assiste alla scena.
Accostando il particolare dell’affresco di Castelfranco all’opera di Manet le somiglianze paiono stringenti: l’ambientazione e la postura dei personaggi ricalcano il profilo delle figure dell’affresco giorgionesco, più che le figure dell’incisione cinquecentesca: in particolare “la figura del fiume di destra è esattamente nella posa del personaggio con il berretto di Manet e la sua gamba destra è esattamente come nel dipinto impressionista e non come nel modello inciso” (LOVATO 1996, p. 51). A questo importante dettaglio si aggiunge il fatto che “la nota bagnante sul fondo, che non esiste in Raimondi, la ritroviamo nell’affresco e si intravedono anche degli oggetti in primo piano paralleli alla natura morta di Manet” (Lovato 1996, 51).
Confronto tra l’affresco di Castelfranco e il Déjeuner di Manet: lezioni congiuntive
Agli argomenti di Lovato si può aggiungere un altro elemento. Esiste anche una variante del dipinto che Manet predispose poco prima del 1863, oggi conservato presso il Courtauld Institute di Londra, che ritrae la ninfa nella medesima posizione, ma con i capelli fermati da una ghirlanda o cuffia: la stessa acconciatura che, a quanto è dato di vedere, la ninfa porta nel ‘modello’ giorgionesco di Castelfranco*.
Se come Manet stesso proclama per difendersi dagli attacchi della critica l’ispiratore del soggetto del suo Déjeuner era Giorgione e i suoi Concerti campestri, l’esistenza di ben tre e forse quattro lezioni congiuntive tra l’affresco di Castelfranco e l’opera del pittore pare certificare che anche nei dettagli formali l’ispirazione possa essere venuta all’artista direttamente da un’opera (ritenuta) giorgionesca piuttosto che dall’incisione raffaellesca. Vero è che a metà dell’800, anche grazie alle prime riproduzioni fotografiche erano in circolazione copie delle incisioni di Raimondi: ma è più facile ipotizzare la suggestione su Manet dell’affresco giorgionesco esposto sulla piazza di Castelfranco, certamente più accessibile. La successione si lascia dunque così riordinare:
Abbiamo così ricostruito il ruolo di un ulteriore, possibile ‘testo mediatore’ – un altro anello nella catena che conduce dai sarcofagi romani a Manet. Questa ricostruzione certifica, con ancora più forte evidenza, che la supposta invenzione provocatoria di Manet si iscrive invece perfettamente nella serie di riprese e citazioni di un soggetto – concerto campestre con ninfa – che, come attestano i testimoni plurimi (Raffaello, Raimondi, Giorgione-Castagnola, Manet) ha una buona fortuna per tutta la prima metà del XVI secolo, e che, dopo più di tre secoli di latenza, Manet riesuma. In questo senso l’artista che dà scandalo e che epàte le bourgeaux è da considerare al contrario, secondo la definizione tecnica del mancato banchiere Warburg “un fidato amministratore dell’eredità della tradizione” (Warburg [1929] 1984) e in particolare della tradizione del maestri italiani del Cinquecento (sugli attacchi critici che Manet subì per la sua opera “volgare e maliziosa” vedi da ultimo: Pellizzer 2004).
Edouard Manet reinventa la scena del Concerto campestre come un moderno picnic, avvalendosi di uno o più modelli e suggestioni, a cui si rifà in tutti i dettagli. L’aggiornamento più evidente sono i vestiti moderni delle figure maschili – panni borghesi che vengono letti dalla critica del tempo come “provocatori”, e tali sono ma soltanto rispetto alla ‘classica’ nudità della ninfa Victorine. Anche in questo caso, come nella nota allegoria di Tiziano, panni ‘profani’ versus ‘sacra’ (assoluta) nudità.
Il Giudizio di Paride di Raffaello e i suoi modelli archeologici: lezioni congiuntive e disgiuntive
Ma facciamo ora un passo indietro per verificare un altro punto critico della ricostruzione che, a quanto mi risulta, non è stato ancora affrontato e discusso: lo sguardo della ninfa sarebbe un’invenzione tutta raffaellesca poiché (afferma Warburg) non si ritrova nel modello antico (ovvero nel sarcofago di Villa Medici).
Accogliendo l’ipotesi che un modello di Raffaello possa essere stato il sarcofago di Villa Medici, andiamo a verificare puntualmente quali siano le lezioni congiuntive e disgiuntive tra antigrafo e apografo. In questa operazione di confronto di dettagli è utile ricorrere, oltre che all’immagine fotografica del pezzo archeologico, anche a un’incisione cinquecentesca esemplata dal sarcofago, opera di Giulio Bonasone, non artisticamente eccelsa ma già segnalata dallo stesso Warburg perché riproduce molto fedelmente i dettagli del modello antico e ci restituisce anche lo stato di leggibilità che il sarcofago presentava al tempo di Raffaello. Nel confronto va tenuto in conto il fatto che, mentre il sarcofago antico, come è evidente dall’incisione di Bonasone, presenta un compendio di diversi episodi della storia del Giudizio, Raffaello sceglie di rappresentare soltanto la scena della contesa.
Confronto tra il Giudizio di Paride di Raffaello e il sarcofago Villa Medici
LEZIONI CONGIUNTIVE
- carro del sole (al centro del cielo)
- Giove in trono (in alto a destra) con Atlante sotto che sostiene il cielo
- postura di Paride
- postura (e direzione dello sguardo verso l’alto) del dio Fiume
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LEZIONI DISGIUNTIVE
- posture delle tre dee, e in particolare della figura centrale della composizione (Minerva nuda di spalle)
- Nike che vola a incoronare Venere
- postura e direzione dello sguardo della Naiade accanto al FiumeDa questo confronto risulta evidente che se ci sono effettive e precise consonanze tra alcuni dettagli dell’opera di Raffaello e il modello antico, ci sono anche motivi di decisa diversità. Già Warburg notava che la “donna nuda vista di spalle intenta a lanciarsi l’abito dietro le spalle”, che nell’opera di Raffaello (giusta Raimondi) costituisce il centro della composizione, non compare nel modello. Lo studioso avanzava l’ipotesi che il motivo della figura nuda di spalle potesse essere stato elaborato da Raffaello “sul modello di un’antica statua e trasferito a Minerva [:..] in luogo dell’offesa figlia di Zeus dei sarcofaghi che armata di tutto punto sale al cielo come un uccello adirato” (Warburg [1929] 1984, p. 43). Presupporre la fruizione da parte di Raffaello di un non meglio identificato (e a noi ignoto) modello statuario accanto al sarcofago è un’ipotesi certo ammissibile, ma ben poco economica.
Warburg attribuiva le “invenzioni” di Raffaello, e in particolare “il viso rivolto in fuori verso lo spettatore della naiade” e la “Minerva, prototipo di una serena disinvoltura olimpica” a una intenzionale variatio rispetto al soggetto antico intesa a sottolineare l’emancipazione tutta umanistica dalla soggezione teofanica: la sinuosa Minerva sarebbe così in posa di spalle ad esibire una fisicità molto poco mistica, una corporeità tutta umana “come specchio di una superiore humanitas”; mentre la ninfa “non guarda più il miracolo dell’ascensione [di Venere, presente nel sarcofago] e non ha più l’occasione di compiere il gesto dell’adorazione dell’estasi momentanea, ma prende nota di uno spettatore immaginario che va cercato in terra, non in cielo” (Warburg [1929] 1984, p. 43). Un manifesto – l’opera di Raffaello – che attesterebbe dell’avvenuta mondanizzazione delle antiche divinità.
Ma la figura centrale di spalle di Minerva e la Vittoria in volo in atto di incoronare Venere non sembrano semplici varianti disgiuntive ascrivibili alla innovazione portata al soggetto dall’artista rinascimentale: hanno tutta l’aria di figure come le altra dedotte da un modello archeologico preciso (che, evidentemente, per esse non è però il sarcofago di Villa Medici).
A queste lezioni disgiuntive – la Minerva di spalle e la Vittoria – si aggiunge la postura e lo sguardo della nostra ninfa: quello sguardo che porta diritto fino alla Victorine di Manet.
Altri modelli per la ninfa di Raffaello (e di Manet)
Nel 1907 a Parabiago, in provincia di Milano, fu rinvenuta una patera d’argento di pregevole fattura, un tipo di piatto ornamentale usato anche come copertura di urne cinerarie.
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La patera di Parabiago, attualmente conservata al Museo archeologico di Milano, è un’opera preziosa della seconda metà del IV secolo d.C., testimonianza eccellente del clima culturale del tempo, l’età dell’ultimo paganesimo giulianeo. Come vediamo nello straordinario compendio che la scena presenta, un Pantheon di demoni arcaici ed elementari (Sole e Luna, Terra e Fiumi, Oceano e Teti), è confinato ai bordi a far da cornice al trionfo di Cibele e Attis e all’esibizione cosmica di Aion, iscritto nel cerchio dello Zodiaco e sostenuto da Atlante. Già prima del definitivo successo del Cristianesimo gli dei olimpici – qui del tutto assenti – erano stati detronizzati dalle nuove divinità misticheggianti giunte a Roma da Oriente.
Nella zona superiore del tondo Helios sopraggiunge sul suo carro tirato da quattro cavalli, anticipato dall’alato Phosphoros che tiene alta la fiaccola del giorno; Selene sta fuggendo, sul carro che due buoi trascinano a testa bassa; un Hesperos alato con la fiaccola della notte abbassata le fa strada.
Al centro è la fascia che contiene la scena principale: su un maestoso carro dalle fiancate istoriate tirato da quattro leoni troneggia Cibele e al suo fianco sta seduto il frigio Attis. Intorno al carro tre coribanti in armi, in pose plastiche di grande effetto coreografico, danzano guerra morte rigenerazione: il panneggio delle corte tuniche che si muove leggero scoprendo le atletiche membra dei danzatori rivela lo statuto sessualmente ambiguo dei devoti della Grande Madre. Sul lato destro, un anello ovale istoriato dai segni zodiacali incornicia la figura di Aion: l’anello è sorretto da Atlante che sbuca a mezzo busto dalla terra; a fianco su una colonna-obelisco un Serpente avvolge le sue spire puntando il capo verso l’alto. Nella zona inferiore una serie di divinità assiste alla scena: al centro Oceano e Teti affiorano dalle onde popolate di pesci e segnalano con il linguaggio delle mani il loro ammirato stupore per lo spettacolo cosmico che si svolge sopra le loro teste. Sul lato destro in basso, sta Terra mollemente adagiata: con una mano si sorregge il capo e abbraccia una cornucopia da cui traboccano frutti e attorno cui si avvolgono le spire di un altro serpente; le si fanno incontro i quattro Putti stagionali progressivamente più vestiti (dal primo che danza nudo, al quarto completamente coperto con una lunga tunica e avvolto in un mantello): sono in fila e recano i loro doni. Accanto a Terra altri due putti nudi, uno seduto sulla bocca della stessa cornucopia, l’altro in piedi con la mano sinistra affettuosamente appoggiata sulla spalla di lei, puntano l’indice destro verso l’alto, indicando alla dea lo spettacolo cosmico: anche Terra, come Oceano e Teti, rivolge lo sguardo verso l’alto. Sul lato sinistro in basso, infine, una coppia di divinità fluviali, un fiume e una naiade (nella scheda espositiva del Museo archeologico di Milano e nel catalogo di una recente mostra le due figure sono descritte erroneamente come “due fiumi”: Carrié 2004, 352). Il Dio Fiume è nella stessa posa, ma ribaltata di spalle rispetto a Terra che si trova (in elegante pendant compositivo) in posizione simmetrica sull’altro lato: in mano impugna una canna, e un ciuffo di vegetazione spunta anche fra i suoi capelli; anche il dio è intento a guardare verso l’alto. La Naiade è in secondo piano seduta dietro al Dio Fiume, in posizione frontale, parzialmente coperta dal torso del compagno: la mano sinistra trattiene uno stelo palustre ed è graziosamente appoggiata alla guancia; la Ninfa guarda dritto davanti a sé. Tutte le figure della zona inferiore della composizione sono intente verso l’alto. Il dito puntato dei due putti indirizza la attenzione dei personaggi, guidando la direzione di tutti gli sguardi, tranne uno: la Ninfa Fluviale è l’unica figura tra le cinque divinità elementari chiamate ad assistere al cosmico corteo che volge lo sguardo altrove: uno sguardo che si sottrae alla concentrazione generale sulla parte centrale della scena – uno sguardo che evade e punta fuori dalla composizione. La Naiade di Parabiago nei dettagli della mano al volto e dello sguardo è perfettamente accostabile alla Naiade di Raimondi (ex Raffaello).
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Ovviamente non può trattarsi di una deduzione diretta: Raffaello non poteva aver visto la nostra patera, rinvenuta in una tomba nel 1907. Ma l’esistenza della Naiade di Parabiago attesta che il motivo del Fiume con Ninfa, in questa precisa postura (mano al volto e sguardo diretto fuori della composizione) è presente già in età tardo antica. Si ipotizza quindi l’esistenza di un modulo di repertorio – la coppia Fiume-Naiade girati in un senso (variante A: Fiume di spalle in primo piano/ Naiade di fronte in secondo piano, come nella Patera) o nell’altro (variante B: Naiade di spalle, in primo piano/Fiume di fronte in secondo piano, come nell’incisione Raimondi ex Raffaello): il gruppo Fiume con Naiade poteva evidentemente essere inserito in composizioni di tipo diverso (ma è forse significativo che i nostri esemplari, dal sarcofago alla Patera, siano comunque scene di genere ‘cosmologico’). E di questa serie (nella sua variante B) Raffaello deve aver visto un esemplare da cui potè ricavare la sua coppia di divinità fluviali, nella loro esatta postura.
Quindi se Manet non ha ‘inventato’ la posa di Victorine (ma l’ha dedotta dall’esempio giorgionesco o raffaellesco), a sua volta neppure Raffaello era stato l’autore dell’emancipazione dello sguardo della Ninfa estatica, ma aveva tratto ispirazione precisa per lo sguardo della sua ninfa da un modello antico. Allargando l’ipotesi rendendola comprensiva anche delle altre lezioni disgiuntive che l’opera di Raffaello porta rispetto all’antigrafo-Villa Medici, si può supporre che da quell’esemplare (ad oggi a noi sconosciuto) Raffaello potrebbe aver dedotto anche le figure, molto ‘archeologiche’, della Minerva di spalle e della Nike.
La successione si lascia quindi così ricostruire:
Un altro elemento entra dunque nella ricostruzione della catena che porta da Raffaello, via Marcantonio (o via Giorgione/Castagnola) fino al Déjeuner di Manet. Manet non ha inventato la scena del Déjeuner ma l’ha trovata pronta e disponibile nel repertorio della tradizione. Ma neppure Raffaello aveva inventato un nuovo sguardo per la sua Ninfa: la Naiade che ci fissa dalla Patera di Parabiago, rende più che verosimile l’ipotesi dell’esistenza di un modello ‘classico’.
Lo schema genealogico della Ninfa si presenta come un incrocio di modelli puntuali e di suggestioni intrecciate: nella sua complessità un ottimo paradigma dei percorsi non lineari della tradizione classica. E lo sguardo della Ninfa, all’apparenza così moderno e impertinente, è in realtà un sguardo antico.
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Riferimenti bibliografici
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- Carrié 2004
Jean-Michel Carrié, Patera di Parabiago: Cibele e Attis, scheda del catalogo 387 d.C. Ambrogio e Agostino: le sorgenti dell’Europa, Milano 2003, 352. - Chesneau 1864
Ernest Chesneau, L’art et les artistes modernes en France et en Angleterre, Paris 1864. - Lovato 1996
Guerrino Lovato, “Le dejeuner sur l’herbe” di Edouard Manet a Castelfranco Veneto, “Veneto ieri oggi domani”, anno VII nn. 80-8, settembre-ottobre 1996, 48-51. - Pellizzer 2004
Cristina Pellizzer, Gli dei en promenade. Una lettura della tavola 55 dell’Atlante della Memoria di Aby Warburg, Università Ca’ Foscari di Venezia, Tesi di Laurea specialistica in Storia delle arti e Conservazione dei beni culturali, rell. Augusto Gentili, Monica Centanni, A.A. 2003-2004. - Warburg [1929] 1984
Aby Warburg, Il “Déjeneur sur l’herbe” di Manet. La funzione prefigurante delle divinità pagane elementari per l’evoluzione del sentimento moderno della natura (titolo originale: Manet’s “Déjeneur sur l’herbe”. Die vorprägende Funktion heidnischer Elementargottheiten für die Entwicklung modernen Naturgefühls, appunti dettati nel 1929 a Gertrud Bing), tr. it. di Gianni Carchia, “aut aut” n. 199-200, 40-45. - Warburg[1929] 2002
Aby Warburg, Mnemosyne. L’Atlante delle immagini, a c. di Martin Warnke con la collaborazione di Claudia Brink; edizione italiana a cura di Maurizio Ghelardi, Torino 2002.
*Devo ad Alessandra Pedersoli la segnalazione di questa analogia tra le pettinature delle due ‘ninfe’.
- Carrié 2004
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English abstract
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In his paper regarding the iconographic models for Manet’s Dejeuneur sur l’herbe, and in Plate 55 of the Bilderatlas (on the same subject), Aby Warburg illustrates Manet’s painting as the result of a transmission process beginning with Renaissance drawings of hellenistic sarcophagi: in the process, an important role was played – as ‘intermediary text’ – by an engraving etched by Marcantonio Raimond from a lost work by Raphael. In her thorough reading of Warburg’s investigations, Monica Centanni brings in new models both for Manet’s painting and for Raphel’s lost work. These works are connected by means of comparison between historical documents and iconographic sources: Centanni suggests a further ‘intermediary text’ for Manet – a fresco ascribed to Giorgione, visible in the town of Castelfranco Veneto; besides, Centanni refutes Warburg’s thesis of the modern invention (due, according to Warburg, to Raphael) of the figure of the nimph glancing at the beholder, and suggests that the typological scheme ‘River and Nymph’ was part since antiquity of a codified legacy of sources available to the artists, as it may be exemplified with the “Parabiago Patera”, a silver funerary lid dating IV sec. BC.
keywords | Nymph; Manet; Déjeuneur sur l’herbe; Warburg; Plate 55; Bilderatlas.
Per citare questo articolo: M. Centanni, Ninfa impertinente: Victorine e la Patera di Parabiago. A proposito dei modelli del Déjeuner sur l’herbe di Manet e, prima, di Raffaello, “La Rivista di Engramma” n.36, ottobre 2004, pp. 15-30 | PDF