A rendere urgente, per una non esperta di Gio Ponti, l’investigazione che segue circa la presenza del versatile architetto milanese nel capoluogo campano, sono state le sequenze di una fiction ambientata a Napoli e le forme trasfigurate di una piscina sul tetto, che Gio Ponti progettò nel 1952-1953 per l’Hotel Royal di Napoli. La fiction in questione, Vivi e lascia vivere, andata in onda di recente su Rai 1, con la regia di Pappi Corsicato – studente di architettura, prima di diventare noto e poliedrico regista – e la scenografia di Giada Esposito, racconta una Napoli dai mille volti, iperrealista e ipercolorata, sospesa tra la lezione di Almodóvar e i suadenti filtri alla Instagram, con riprese mozzafiato effettuate dai droni a cui fanno da contrappunto primi piani di dettagli apparentemente insignificanti incorniciati dagli sfondi sfocati di scorci ameni.
In altre parole, partire da una certa idea di Napoli filtrata dal racconto della quotidianità di una famiglia (a)tipica del 2020 per scoprire Gio Ponti è un po’ il meccanismo che presiede a questo breve saggio.
Il milanese Gio Ponti – sul quale, usando anche a pretesto i quarant’anni dalla morte, l’opera critica di alcuni storici dell’architettura e il costante impegno degli eredi, si sono riaccese le attenzioni, mai del tutto sopite in Italia e in Europa, con mostre e libri per i quali si rimanda alla nota bibliografica finale – ha lasciato la sua impronta nel golfo partenopeo con almeno quattro progetti documentati: tre alberghi, di cui uno rimasto allo stato di progetto, e una villa.
La prospettiva che qui si vuole provare a mettere in scena è che quella idea di mediterraneità profusa in tutti i progetti di Ponti, l’incontro con l’austriaco Bernard Rudofsky alla fine degli anni Trenta e le molte altre collaborazioni grazie alle quali l’eclettico architetto milanese poté dar vita concreta al vasto immaginario che sprigionava dalla sua mente, a Napoli e nel golfo, concorse, nel secondo Novecento, a definire una idea di lusso, esclusività e segretezza della città e della sua bellezza opposta alla città della ‘vita da strada’, di cui essa è l’emblema per eccellenza, non solo in Italia ma in tutto il mondo. Insomma, se Ponti rimase Ponti a Milano e forse nei molti altri posti del mondo in cui operò, a Napoli Gio Ponti appare nascosto, e solo in parte ciò è dovuto all’occasione, al tema, al tipo edilizio – la villa privata e l’hotel di lusso.
L’“aria d’Italia” a Napoli
È stata, piuttosto, forse, la conformazione geomorfologica del golfo a rendere elusive le tracce di Ponti nel contesto napoletano. Questa esclusività della sua opera fu il destino che toccò anche ad altre opere di altri architetti, svelate solo da pochi anni. È il caso del Palazzo della Morte di Stefania Filo Speziale, di Villa Maderna di Davide Pacanowski e delle opere dei molti altri architetti che operarono in città e lungo le coste o nelle isole del golfo di Napoli, nel corso del Novecento. Sembra infatti che la geomorfologia napoletana e la sua flora mediterranea siano al contempo pretesto e vincolo per straordinarie invenzioni d’architettura, spesso nascoste, a volte sfacciatamente esibite e godibili da tutti: così accade nella Villa Crespi, sempre di Davide Pacanowski. Come se la geomorfologia partenopea prendesse sempre e comunque il sopravvento e finisse con essere lei la protagonista attraverso cui ciascuno di noi si fa una certa idea di Napoli, molto di più di un singolo edificio, di una precisa opera architettonica o del tessuto urbano in sé stesso. È difficile, per esempio, identificare Napoli con una sua piazza o un suo monumento, come accade a Venezia, per esempio, o a Firenze – non a caso, forse, l’immagine cartolina per eccellenza di Napoli nel Novecento è quella di un certo pino marittimo di una ordinaria curva di via Orazio, da cui in un colpo d’occhio si abbraccia la città in basso e il Vesuvio e i profili della costiera sullo sfondo.
Questo stato di fatto fa apparire a un primo sguardo, anche a quello dello storico/critico contemporaneo d’architettura, la città priva di forti invenzioni d’architettura originali o degne di nota. E così è accaduto anche nel caso dei quattro episodi di architettura di Ponti a Napoli. Solo a partire dal 2008, con lo studio monografico di Fabrizio Mautone sulla committenza Fernandes e Gio Ponti (Mautone 2008), si è messo in giusto rilievo il contributo dell’architetto in città.
A Ponti, che del suo stile come architetto, designer e urbanista ante litteram era chiaro il portato di rifondazione di una nuova civiltà e cultura italiana nel segno della democrazia, toccò a Napoli la sorte dell’architetto al servizio di una ricca imprenditoria impegnata nel settore turistico. In tal modo, Gio Ponti a Napoli rafforzò i tratti di una idea di architettura di lusso pacata, addomesticata, appunto, dopo secoli di barocco e barocchismi stupefacenti lungo le coste come nel cuore della capitale borbonica: la sua opera contribuì affinché la città di Miseria e nobiltà lasciasse il posto, dopo le immani distruzioni della Seconda guerra mondiale descritte da Anna Maria Ortese nel suo Il mare non bagna Napoli e molti altri romanzi e film della stagione del neorealismo italiano, a una Napoli nuova, che troppo rapidamente è stata liquidata come la città della speculazione sfrenata, giusto complice un altro film pluripremiato, Le mani sulla città di Francesco Rosi. Nella realtà questa immagine di Napoli nuova si sostanziò in una vera e propria forma della città chiaramente visibile e vivibile nella collina di Posillipo con frammenti anche nel quartiere liberty di Chiaia, nel rione Carità e a Fuorigrotta (sul tema v. Gambardella 1999; De Maio, 2013). Questa Napoli e la sua costa insulare e peninsulare, in cui Ponti si cimentò con alcuni preziosi tocchi d’autore, è la città nella quale oggi ci muoviamo, che si mescola alle forme delle Napoli che in oltre duemila anni si sono sovrapposte e succedute. Questa Napoli moderna è opera di molti architetti e ingegneri di talento, quasi tutti di origine romana o napoletana, tra questi vi fu il colto architetto polacco ancora poco indagato, Davide Pacanowski, e il milanese grande architetto e divulgatore, Gio Ponti, appunto (entrambi condivisero una lunga collaborazione ed amicizia con l’artista padovano Paolo De Poli, sebbene finora si sia fatta luce solo sul rapporto De Poli/Ponti).
Se l’“aria d’Italia” – il made in Italy come diremmo oggi – fu una invenzione di Ponti pensata per dare una sferzata all’economia e all’estetica del secondo Novecento italiano, non vi è dubbio che essa fu anche una maniera tutta personale di interpretare “il mestiere di vivere” facendolo coincidere in toto con quello dell’architetto/artista/demiurgo. Ma quando incontrò Napoli, l’“aria d’Italia” cessò di essere solo alla maniera di Ponti e fece i conti con qualcosa d’imprevisto: il mare visibile da lontano e dall’alto della costa o di un edificio, un certo rapporto con il paesaggio marino e i suoi profili e l’archeologia dei luoghi. L’opera dell’architetto nel golfo di Napoli, dunque, pur rimanendo per molti aspetti nel mainstream della linea Ponti, può analizzarsi distinguendo in modo molto netto due atteggiamenti; il primo è quello della presa di possesso di una certa idea dell’architettura mediterranea attraverso la reinterpretazione novecentesca della antica casa italiana (Ponti 1957, 106): la domus e le sue reinterpretazioni nelle varie epoche, di cui il sud Italia offre, attraverso il suo deposito archeologico, la massima esperienza; l’altro è la scoperta della meraviglia generata dal salto di quota e dalla natura accidentata di tanta architettura minore lungo le coste del golfo partenopeo, per cui l’architettura del turismo e del tempo libero della modernità italiana non può essere introversa e autoreferenziale, ma aperta, diffusa e interconnessa con le bellezze che intercetta o da cui prende le mosse. Entrambi gli atteggiamenti progettuali sollecitano il talento inventivo di Gio Ponti e di chi lo accompagna nella progettazione dei quattro episodi napoletani.
Un arco di golfo, quattro frammenti di architettura
Studiati per lo più come episodi singoli l’uno staccato dall’altro, i quattro progetti di Ponti per il Golfo di Napoli rappresentano oggi dei capisaldi nel panorama partenopeo anche quando rimangono solo dei progetti. E questo per molte ragioni, prima fra tutte l’originalità dei temi che emergono da occasioni interpretate finora, dalla critica e a volte dallo stesso architetto, come mancate, frammentarie, di stentata maniera, o ancora irrimediabilmente deturpate rispetto all’originario ‘stile’ di Ponti.
Di questi quattro progetti due sono di estrema rilevanza per comprendere lo sviluppo dell’architettura di Gio Ponti: si tratta dell’Hotel San Michele ad Anacapri del 1938 e Villa Arata, poi Grimaldi, del 1952. Il primo è un caposaldo che campeggia come progetto non realizzato di straordinaria attualità, perché anticipa il tema dell’albergo diffuso, che solo a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso con i Club Med e i ‘villaggi vacanza’ troverà ampia diffusione nella società del turismo trionfata in questo inizio di secondo millennio – e nell’immagine delle localizzazioni delle 4 opere si riporta la collocazione su cui sarebbe sorto l’hotel al posto dell’attuale realizzato. Un abisso separa tuttavia l’atteggiamento culturale con cui Ponti e Rudofsky attinsero all’“architettura senza architetti” per intercettare i profili del paesaggio costiero campano e selezionare le vedute con cui ciascuna stanza nel bosco si caratterizzava come un unicum attraverso la composizione dello spazio interno e il patio delimitato da muri con modalità sempre diverse, rispetto ai tanti casi realizzati, sparsi poi nel mondo. Questa attenzione è frutto anche del modo in cui ciascun elemento della piccola fondazione turistica si adagia al suolo accidentato, scosceso e ipergreen verso il profondo blu marino della costa insulare in questo punto, come dimostrano gli studi e disegni per l’inserimento del progetto rispetto al borgo di Anacapri.
L’albergo nel bosco rappresentò l’incontro di Ponti con i viaggi di Bernard Rudofsky a Santorini, Positano, Capri, Pompei ed Ercolano e gli diede modo di elaborare in modo diverso e più profondo, attraverso gli scatti fotografici, gli schizzi e gli interventi del giovane architetto austriaco approdato nella redazione di “Domus” a partire dal 1928, il rapporto tra il carattere classico/latino dell’abitare archeologico e le sue evidenze vernacolari presenti lungo le coste e le isole campane, permettendogli di costruire dei veri e propri set per la vita caprese e l’otium degli individui che avessero deciso di soggiornare in questi bungalow ante litteram.
Il legame con Napoli in questi anni attinse però non solo al sodalizio professionale e culturale con lo straniero in Magna Grecia – Rudofsky – ma anche alla stima intellettuale reciproca che in questi stessi anni andava maturando tra Ponti e un grandissimo critico d’architettura napoletano, scomparso in modo prematuro nel 1936, Edoardo Persico. È proprio dalle pagine di La Casa Bella che Persico redattore della rivista, infatti, nel 1930 dando inizio a una rubrica di “La Casa Bella” intitolata “Stile. Un modo di essere” ricostruisce la sua visione di questo concetto:
La creazione di uno Stile non è mai l’impegno di uno sforzo solitario, ma la collaborazione vivente di tutta un’epoca […]. Lo stile, così, è determinato da un complesso di prove; si tratta, in seguito, di promuovere l’evidenza allo stato di creazione. Innalzare l’apparenza alla sfera della Poesia.
E Ponti dichiarerà il proprio legame intellettuale alla visione di Persico allorché, nell’autoritratto in terza persona che fece di se stesso per “Aria d’Italia” del 1954, scrisse:
Le illuminazioni di Persico gli sono rimaste nella mente e, come episodi vitali, nel cuore: le opere espressive di Ponti sono mentalmente dedicate a Persico in un ricordo mai spento (Irace 1999, 20-22).
E Ponti in qualche modo anche a Napoli, attraverso questo primo progetto di albergo e i tre successivi episodi, ha fornito quel complesso di prove di cui parla Persico, per dare respiro al mutamento della città da palinsesto di origine millenaria ad autentica metropoli viva e moderna, che solo dalla fine del secolo scorso ha cominciato a trovare estimatori nella cultura architettonica locale e – proprio grazie alla presenza anche delle opere dell’architetto lombardo – in un milieu culturale più ampio ed internazionale.
Solo a distanza di quattordici anni da quel primo progetto per Capri riproposto in più occasioni per altre situazioni di turismo costiero e balneare (cfr. Mangone 2019, 53-65), Ponti ebbe modo di ritornare con un proprio progetto, questa volta realizzato e di cui nell’archivio a Milano sono presenti tutte le foto di cantiere, oltre ai disegni e alle foto dell’opera realizzata.
Si tratta di Villa Arata, sita in via Francesco Petrarca, in un punto che oggi appare molto specifico per comprendere il volto che Napoli, e in particolare la collina di Posillipo, assunse tra gli anni Cinquanta e Sessanta.
Villa Arata, poi Grimaldi, sorge infatti sul lato di monte di via Petrarca e confina con altri interessanti episodi di edilizia residenziale: il lungo volume spezzato per appartamenti realizzato dallo studio di Stefania Filo Speziale, dal quale attraverso una struttura a ponte su un massiccio pilastro/volume brutalista si raggiunge un secondo volume della lottizzazione; mentre, leggermente scostata a est sul lato mare e sottoposta alla quota stradale, sorge la Villa Maderna di Davide Pacanowski. Così, in un raggio di meno di cento metri, due ville defilate e un edificio per appartamenti estremamente potente per il modo in cui costruisce l’articolato fronte stradale delineano con estrema precisione il carattere dello stile della Napoli del boom economico.
Villa Arata, oggi fortemente rimaneggiata anche per il successivo passaggio di proprietà, in parte deve la sua segretezza alla localizzazione, in parte a una opera di rimozione compiuta dalla città, poiché essa è stata teatro del delitto di Anna Parlato Grimaldi, proprietaria negli anni Settanta della villa, oggi rimasta ai suoi eredi: la donna, intraprendente e decisa, si era attivata per liberare il nipote Luca, rapito dalla criminalità, e perciò fu assassinata martedì 31 marzo 1980 in via Petrarca, davanti alla sua casa, e il suo delitto fece scalpore anche perché coinvolse giornalisti e redazione del principale quotidiano della città, “Il Mattino” (v. Vargas 2019). Percorrendo via Petrarca, di Villa Arata Grimaldi si scorge il terrazzamento e una profonda loggia d’angolo. Per molti la villa non è altro che il reperto per una indagine relativa agli inizi di altri progetti di residenze private di Ponti. Egli stesso la assunse a caposaldo quando la pubblicò in “Aria d’Italia” nel 1954, nel capitolo Evocazione mediterranea e pure quando la usò come esempio, in una lettera indirizzata ai coniugi Planchart, per far comprendere il suo approccio al rapporto tra architettura e paesaggio. Per gli architetti napoletani essa rappresenta una scoperta improvvisa e inattesa, alzando lo sguardo un po’ per caso, nel corso di passeggiate posillipine. Ma come si presentava questa architettura, punto iniziale di progetti poi assurti a pietre miliari dell’opera di Ponti? Alcune letture la additano come trasposizione della casa procidana, a lungo studiata da Bernard Rudofsky (v. Gambardella 1999,119-120) e oggetto di varie pubblicazioni sui numeri di “Domus” di cui l’architetto austriaco fu curatore. Di sicuro non è mai stata troppo studiata a causa delle alterazioni subite. Le foto d’epoca della costruzione e del modello, sembrano dare ragione alla lettura fornita da Cherubino Gambardella: ricomposizione coscientemente disarticolata delle cellule abitative studiate per l’albergo di Anacapri, lavoro di scavo dei fronti per trasformare le bucature e gli affacci sul paesaggio in vere e proprie stanze abitabili. All’interno, invece, si potrebbe dire ‘il solito Ponti’: i pavimenti con le loro grafie marmoree e ceramiche e i loro dislivelli generatori di spazi fluidi, interconnessi e complessi; le essenze lignee pregiate a disegnare le boiserie che dalle grandi porte pareti scorrevoli rimandano al corpo scala di questa villa a due livelli e una scala cromatica nei toni del giallo oro, ocra, bianchi.
Poi una foto d’epoca dell’esterno suggerisce, con la sua composizione volumetrica in cui l’elemento verticale di una canna fumaria svetta sugli altri, l’esistenza di un camino che compare in un’altra foto, anch’essa in bianco e nero, dell’interno estremamente evocativa di atmosfere differenti rispetto alle foto degli altri interni della dimora. Si tratta di un grande camino-stanza rivestito di pietra a spacco, disegnato con linee di esotico arcaismo e preceduto da un bel pavimento piastrellato con decoro a sassi su fondo scuro, in cui i contrasti tonali, trasformano il solido lusso di questa villa in echi lontani nel tempo e nello spazio di altre forme dell’abitare.
Se per Villa Arata si trattò di vera e propria opera costruita che, anche al di là delle intenzioni del suo autore, ha assunto uno straordinario significato anche per discutere del tema delle manipolazioni e dei travisamenti dell’opera architettonica, per gli altri due progetti, come ha scritto qualcuno, si trattò più di ‘vestizione’ di architetture esistenti che di reali progetti. In realtà fu solo in parte così. Con la piscina sul tetto, gli arredi e la grafica del logo per l’Hotel Royal di Napoli – il cui progetto architettonico del 1958 è di un ingegnere, Ferdinando Chiaromonte – Gio Ponti viene chiamato appunto per gli interni, per rendere abitabile il tetto con un progetto en plein air, e per dettare l’impostazione della comunicazione, diremmo oggi, dell’albergo sul lungomare di Napoli, giusto di fronte al Castel dell’Ovo e alle spalle della collina del Monte Echia, trait d’union di un itinerario in cui si celano, oltre a importanti monumenti, storia e leggende dell’origine partenopea e dove il mare e la collina sono collegati indissolubilmente, attraverso le rampe di Pizzofalcone e le successive pedamentine, al Castel Sant’Elmo e al complesso di San Martino sulla collina del Vomero.
Con questo progetto Ponti incontra l’imprenditore napoletano Roberto Fernandes; a introdurli nel 1953 è il giornalista del Corriere della Sera, di origine irpina, Michele Mottola, a cui Fernandes si era rivolto per avvicinare l’importante architetto milanese. Qui Ponti, come nel successivo progetto per I’Hotel Parco dei Principi di Sorrento, adatta il tipo della piscina da lui messo a punto per l’Hotel Royal di San Remo nel 1948. La piscina per l’Hotel Royal di San Remo, di cui esiste un dettagliatissimo disegno anche di paesaggio (esposto nella mostra al MAXXI del 2020), è una piscina ‘di strada’, è un complemento infrastrutturale, una sorta di pausa all’interno di un sistema di connessioni per flussi di mobilità differenziati: sorge tra strade e sembra suggerire che il mare stesso riemerga di fronte al prospetto di accesso dell’hotel in forma di stagni di differenti dimensioni. Il complesso di questi tre specchi d’acqua dai bordi spezzati irregolari misura circa 52x15 metri, contiene delle isolette/prendisole e, benché strettamente interno alla struttura alberghiera, echeggia ritmi urbani. La piscina dell’Hotel Royal di Napoli, viceversa, è inaccessibile dalle strade: circondata da mura, avrebbe dovuto essere un tappeto di maioliche adagiato sul tetto a plasmare le forme di un tetto giardino di cemento, così come appare nella copertina del numero 291 del 1954 di “Domus”.
Realizzata qualche anno più tardi, oggi, pur avendo subito forti manomissioni, con la sua tipica figura di poligono irregolare spezzato da una strozzatura che adatta la sequenza longitudinale delle vasche di San Remo entro un perimetro quasi quadrato di circa 27x24 metri, appare una architettura non meno urbana della piscina ligure, per il modo in cui capta e tiene insieme elementi e pezzi di Napoli tra loro molto differenti.
Il brano architettonico più noto di Gio Ponti in provincia di Napoli resta, tuttavia, il complesso del Parco dei Principi di Sant’Agnello, lungo la via Cocumella, nella costiera Sorrentina. L’accesso al complesso avviene da una strada costellata di dimore e ville tra frutteti ed ex conventi che culmina poi nel Viale degli Alberghi di Sorrento. Anche la vicenda di questo complesso, in cui compaiono nuove e antiche collaborazioni – il committente cavalier Fernandes; il ceramista di Cava de’ Tirreni D’Agostino; i ciottoli di ceramica Joo e le ceramiche dell’artista Fausto Melotti – è nota e ampiamente documentata fin da subito, dal suo autore, dalle pagine di “Domus”. Ma a fare la fama dell’albergo oltre la mano di Ponti è il sito d’eccezione in cui sorge, come si evince dalle descrizioni di guide e siti relativi ai giardini monumentali:
L’Hotel Parco dei Principi sorge su un promontorio a picco sul golfo di Napoli, nel comune di Sant’Agnello, nei pressi di Sorrento, la Villa Cortchacow, attualmente annessa al complesso alberghiero, fu costruita nel 1792 dal conte di Siracusa Paolo Leopoldo di Borbone, cugino del re di Napoli, che qui tenne la sua corte, lontano dai fermenti intellettuali e dai grandi tumulti dell’epoca, creando un’oasi di pace e di bellezza, in stile neorinascimentale con sontuosi saloni, scalinate di grande valore artistico, pavimenti e magnifiche stanze, che si affacciano sul mare di fronte al Vesuvio A lui si deve la costruzione del tempietto dedicato a Venere, quasi al limite del parco: alla fine del Settecento, in questo luogo si trovava un piccolo orto dove il francescano padre Zaccaria curava con sollecitudine una pianticella portata dalle Ande peruviane. Ben presto il frate capì le straordinarie virtù della Erythroxylon coca, oggi conosciuta come sostanza base della cocaina, e scrisse alcuni libretti sulle sue capacità di produrre estasi ed eterno amore. A quei tempi personaggi potenti, illustri stranieri e tutta la nobiltà napoletana si recavano nel “Poggio Siracusa” dove si tenevano feste, balli, concerti, battute di caccia, incontri musicali e culturali e molto altro, ma dopo la morte del Conte la villa fu abbandonata e poi venduta. Nel 1885 la villa fu acquistata dalla famiglia russa Cortchacow e la villa fu ristrutturata ritrovando l’antico splendore. Con la Rivoluzione russa anche la famiglia Cortchacow decadde, ma la villa conserva ancora oggi il loro nome ed è sempre immersa nel suo meraviglioso parco borbonico (da https://luoghi.italianbotanicalheritage.com/parco-dei-principi/; cfr. Mautone 2008).
L’intervento di Ponti è pubblicato nel numero 415 del 1964 di “Domus”: di tutto il testo di accompagnamento del reportage fotografico, indimenticabile è il titolo, che dà la misura delle fonti d’ispirazione con cui l’architetto innesta il proprio intervento nella villa-rudere e relativo parco della principessa Cortchacova, “Cielo azzurro, mare azzurro, isole azzurre, maioliche azzurre, piante verdi, rose ai piedi della principessa, orma di danzatrice”. Ponti interviene senza mimetismi sul fronte a mare, sostituendo ai ruderi della Dacia non finita voluta dalla principessa russa, la nuova struttura alberghiera, che irrompe nella sequenza di architetture che punteggiano la costa con la sua mole. Una mole che attraverso la soluzione della facciata reinterpreta, alla maniera di Ponti, la tripartizione volumetrica e di facciata dell’incompiuta Dacia.
La soluzione architettonica della successiva dependance, posta in zona limitrofa rispetto al grande cancello d’ingresso alla proprietà, è un altro degli elementi più di maniera dell’intero intervento e forse per questo l’autore pubblica, in particolare, il manufatto principale per frammenti, evitando quella vista d’insieme che è invece contenuta negli studi dei prospetti, in cui tuttavia non compare molto del contesto monumentale costiero, se non nelle foto, a testimonianza della consapevolezza dell’architetto del ruolo strategico della sua opera per ciò che attiene il rapporto tra antico e nuovo.
Se l’albergo vero e proprio annovera soluzioni parziali di un certo interesse entro un volume compatto, la dependance posta in un angolo del parco borbonico si articola in una pianta a due ali, ma lo sviluppo architettonico delle soluzioni distributive come del disegno dei fronti non fa rilevare elementi di particolare interesse. I fitti appunti del sopralluogo che Ponti compie nel 1961 uniti alla soluzione della piscina – posta di fianco al manufatto settecentesco di Villa Siracusa, poi Cortchacow – e il sistema di rampe in grotta e molo prendisole sull’acqua a forma di mezzaluna sono, viceversa, gli elementi più intriganti della lezione di Ponti in costiera Sorrentina, poiché testimoniano di una attenzione al disegno degli innesti e dei dettagli per articolare il suolo, narrano di una ricerca logica artistica ed elegante per ombreggiare i luoghi dell’albergo più esposti, descrivono la relazione con il materiale più sfuggente e tipico di questo luogo, l’acqua.
Così l’azzurro del cielo e dell’acqua, il cromatismo caratteristico dei due materiali più variabili della natura in sé stessi e in relazione alla luce solare, diventano il Leit-motiv delle composizioni ceramiche di cui tutti i luoghi dell’albergo vengono letteralmente inondati, attraverso i pavimenti e le pareti/paraventi della grande hall d’ingresso. In altre parole, è il rapporto che l’architetto instaura con il sito e la sua parte preesistente monumentale botanica, geomorfologica e architettonica, la lezione ancora oggi attuale di un certo modo di interpretare e di costruire il concetto abusato di Mediterraneo. Costruire nel paesaggio storico mediterraneo, progettare il nuovo paesaggio mediterraneo, interpretare un modo di abitare sotto il sole a perpendicolo, captare i venti, ampliare le penombre, abitare nuotando parchi o tetti e intravedere il blu del mare in lontananza, trasferire il cielo e il mare in una stanza attraverso il disegno dei pavimenti e degli arredi interni, realizzare dimensioni degli interni generose, connesse tra loro e con l’infinito esterno: sono questi gli atti che fanno delle quattro architetture di Ponti a Napoli e provincia l’indicazione di una strategia estetica da tramandare.
Perché il tema vero oggi è attivare per queste architetture un’opera di manutenzione e cura ed evitare che il patrimonio di soluzioni, anche di maniera, pensate dal maestro milanese per Napoli si disperdano tra manomissioni, aste on line, rifiuti. Ciò in parte è già accaduto. E ciò che dispiace non è tanto che gli arredi dell’Hotel Royal di Napoli finiscano dispersi in altre parti del mondo dando inizio a nuove storie, quanto che essi possano diventare solo scarti incompresi.
Nota bibliografica
Le principali mostre e i relativi cataloghi degli ultimi tre anni, alle quali si rimanda per una esauriente disamina dell’opera di Ponti e della bibliografia più aggiornata sono: Gio Ponti: L’infinito Blu, a cura di Aldo Colonnetti, Patrizia Famiglietti con Salvatore Licitra, la Triennale di Milano, febbraio/marzo 2017; Tutto Ponti, Gio Ponti Archi-Designer, a cura di Sophie Bouillet-Doumos, Dominique Forest, Salvatore Licitra, Musée Des Art Décoratifs, Parigi, Ottobre 2018/Febbraio 2019; Gio Ponti. Amare l’architettura, a cura di Maristella Casciato e Fulvio Irace, MAXXI, Roma, Novembre 2019-Settembre 2020.
Riferimenti bibliografici
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C. Gambardella, Posillipo Moderna, Napoli 1999. - Di Liello-Rossi 2017
S. Di Liello, P. Rossi, Procida. Architettura e Paesaggio. Documenti e immagini per la storia dell’isola, Roma 2017, 57-68. - Di Liello 2018
S. Di Liello, Isole come utopie: architettura mediterranea e modernismo nel golfo di Napoli durante il Novecento, in Italia 45/00 Storia/Progetto, discipline in dialogo, a cura di M. Spesso, G. L. Porcile, D. Servente, Milano 2018, 112-118. - Irace 1999
F. Irace, Gio Ponti, La casa all’italiana, Milano 1999. - Lejeune-Sabatino 2016
J.-F. Lejeune, M. Sabatino, Nord/Sud. L’Architettura Moderna e il Mediterraneo, Rovereto 2016. - Mangone 2019
F. Mangone, Gio Ponti e l’architettura degli alberghi 1938-1964, in La città e il turismo, Hotel tra Ottocento e Novecento, a cura di G. Belli e A Castagnaro, Napoli 2019, 53-65. - Mautone 2008
F. Mautone, Gio Ponti e la committenza Fernandes, Milano 2008. - Niero 2016
C. Niero, La casa come “vaso per la vita”. Bernard Rudofsky e Gio Ponti, 1922-1959, tesi di laurea, relatore Maria Bonaiti, Università Iuav di Venezia, A.A. 2015/16. - Guarnati 1954
D. Guarnati, Espressione di Gio Ponti, “Aria di Italia” VIII, numero monografico con prefazione di J.S. Plaut, 1954. - Ponti 1957
G. Ponti, Amate l’architettura, Genova 1957. - Vargas 2009
D. Vargas, Luce, spazi e colori le dimore mediterranee secondo Gio Ponti, “La Repubblica” 30 marzo 2019.
English abstract
The imprint that Gio Ponti left on the city of Naples is somewhat different from the well-known Milanese one, in fact it can be read as a twofold approach: on the one hand, there is an attempt to continue the debate around the Italian domus, which in the Mediterranean found new paths of development; on the other, his interventions are guided by the fascination towards what can be considered a ‘secondary architecture’ typology that is disseminated across the gulf. Ponti’s signature is to be found in four main documented projects, three hotels and one villa. Following a chronological order, there is a project for the Hotel San Michele at Anacapri, a result of a collaboration with Bernard Rudofsky in 1938. Fourteen years later, Ponti goes back to Naples with a project of its own, Villa Arata – later Grimaldi. He was further asked to refurbish the interior as well as the image of the Hotel Royal, whose original project carried the signature of engineer Fernando Chiaromonte. Last but not least, the Hotel Parco dei Principi, where the impeccable balance between architecture, pre-existence and landscape turned it into the most famous Neapolitan project. The essay concludes with an open question on how to maintain and preserve this singular and sensible approach that Ponti, as a Milanese-based architect, proposed for the Mediterranean.
keywords | Gio Ponti, Bernard Rudofsky, Bay of Naples, interior design.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: Fernanda De Maio, 1 villa, 3 alberghi. Le occasioni di Gio Ponti a Napoli, “La Rivista di Engramma” n. 175, settembre 2020, pp. 53-73 | PDF dell’articolo