"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

175 | settembre 2020

97888948401

Architettura e paesaggio

Luoghi e opere nella cultura progettuale di Gio Ponti

Lucia Miodini

English abstract

Il paesaggio è tema più che mai attuale, affrontato da diversi ambiti disciplinari, tanto più nel multiforme immaginario di previsioni e scenari, innescato dalla fase di emergenza, che impone con urgenza una riflessione sul nesso tra architettura e paesaggio.

Condividendo la risposta affermativa alla domanda se esista “come una sorta di fiume carsico che periodicamente torna alla luce, una sottile ma persistente linea del paesaggio che attraversa tutta la cultura architettonica italiana del secondo Novecento” (Durbiano, Robiglio 2003, 3) intendo analizzare, dei diversi fili che formano questa trama genealogica, il periodo da fine anni Venti al decennio successivo, caratterizzato in Italia dall’intenso dibattito sulla conciliabilità di innovazione e tradizione. Privilegiato laboratorio di sperimentazione è l’opera di Gio Ponti, e imprescindibile si dimostra il confronto tra la sua attività progettuale e le riviste che dirige.

In totale consonanza con l’intento prescrittivo di “Domus” – fondata nel gennaio 1928 e diretta da Ponti fino al dicembre 1940, che tornerà a dirigerla nel 1948 – ovvero diffondere la nuova cultura dell’abitare ed educare il lettore “nei riguardi di problemi stilistici, spirituali e pratici della vita d’oggi” (Ponti 1930, 19), sono gli argomenti affrontati: come indica il frontespizio, la rivista “dà ogni indicazione su quanto interessa la casa”, e i temi sono ricchi di implicazioni, dalla disposizione planimetrica dell’abitazione alle ricette di cucina, dai consigli pratici rivolti alle ‘signore’ alle raccomandazioni per la cura dell’orto e del giardino. Anche gli editoriali hanno spesso un tono didattico ed evocativo, piuttosto che pretese teoriche (Avon 1986a, 47). Ancora a metà anni Trenta rivolgendosi alle lettrici e ai lettori, Ponti riaffermerà che la casa, regno della famiglia, è il luogo dove si forma l’educazione del gusto.

Emerge, scorrendo le annate della rivista, un variegato sistema di relazioni che rispecchia la traiettoria creativa e l’articolata metodologia progettuale dell’architetto milanese. Il rapporto tra architettura e paesaggio appassiona Ponti che nel corso del periodo esaminato si avvale del contributo di diversi collaboratori e collaboratrici. Nella prima annata gli articoli sul giardino e il suo arredamento e sull’orto, dopo alcuni interventi di Giulia Vimercati, moglie di Ponti, sono firmati da Bianca Maria, la Marchesa Viviani della Robbia, legata a Ugo e Paola Ojetti, che il progettista milanese aveva fortemente voluto nello staff di “Domus”. Viviani della Robbia cura la sezione dedicata al giardino dall’ottobre 1928 ai primi mesi del 1929 (Giannini 1994); sempre nel primo biennio la rubrica “Architettura del giardino” è affidata a Luigi Piccinato (1899-1983).

Nel 1930 “Domus”, rinnovata la veste tipografica, subisce un profondo cambiamento nei contenuti: in redazione arriva Maria Teresa Parpagliolo (1903-1974), architetta-paesaggista, autrice, dal 1930 al 1938, di articoli sulla progettazione dei giardini. Dal 1937, per un biennio, la rivista ospita anche gli interventi di Pietro Porcinai (1910-1986), che contribuisce insieme a Parpagliolo alla campagna di “Domus” per il verde nell’ambiente urbano.

Il paesaggio è parte integrante nei progetti di Lina Bo Bardi (1914-1992), che dal 1940 fa parte della redazione di “Domus”, apportando nel lavoro editoriale “una modernità dialettica e plurale che rifiuta le rigide contrapposizioni concettuali e considera i valori dell’innovazione e della tradizione non necessariamente alternativi tra loro” (Viola 2017, 357; su Lina Bo Bardi, v. il contributo di Sarah Catalano in questo stesso numero di Engramma).

L’abitazione moderna in città e in campagna

Dal gennaio 1928 a luglio 1929 “Domus” reca il sottotitolo “Architettura e arredamento dell’abitazione moderna in città e in campagna”. In una lettera inviata a Viviani della Robbia, Ponti chiarisce il modello al quale intende rifarsi: per la varietà di argomenti il periodico, destinato a un pubblico non specialistico di estrazione medio-alta, si ispira a magazine di cultura anglosassone, come “House and Garden” e “House Beautiful” (Ponti 1959, 83; Giannini 1994, 351). Riferimenti che fanno meglio comprendere lo spazio riservato da “Domus” alla rubrica “Il frutteto, l’orto, il giardino”, il cui titolo è declinato a seconda del mese, che, comunque, rientra tra i contenuti dell’idea di abitare divulgata sulla rivista, tanto che questa rubrica rimane attiva fino all’agosto 1935.

Il sottotitolo ci fornisce un’altra direzione di lettura, rivelatore della complessità del paesaggio di questa nuova cultura dell’abitare. Se la villa unifamiliare è un campo privilegiato di sperimentazione formale, il riferimento alla “casa di campagna” è un’indicazione topologica funzionale ai rituali della villeggiatura, un tempo pratica esclusiva all’aristocrazia, negli anni Venti diffusa consuetudine della borghesia medio-alta. Presentando il disegno di una casa di campagna “di quelle che gli anglosassoni chiamano ‘bungalow’ […] che noi chiameremmo casino di campagna” (Ponti 1928, 26), Ponti suggerisce ai lettori di farsi realizzare questa week-end house “per il soggiorno del sabato e della domenica”: questa piccola villa sarà “una sana e gioiosa risorsa per il ristoro dei cittadini facilmente raggiungibile con la diffusione delle automobili a buon prezzo, dalla città”, da immaginare “posta in riva a fiumi ed ai laghi” (Ponti 1928a, 26-27).

1 | Gio Ponti ed Emilio Lancia, Una piccola casa di campagna. “Domus” 25 (gennaio 1930), 46-47.

Esempio paradigmatico di tipologia architettonica del tempo libero, la casa di campagna è un ideale collage di diverse culture dell’abitare, dalla casa pompeiana alla villa rinascimentale, al bungalow tipico delle colonie inglesi, come a dire all’architettura domestica anglosassone diffusa in Inghilterra e in America. Con ciò, Ponti riannoda la trama genealogica dei concetti di privacy e comfort, dall’architettura domestica nella Gran Bretagna del XVIII secolo alla cultura progettuale della società contemporanea. Quantunque riconduca il concetto di comfort al termine italiano “conforto”, ritiene fondamentale il contributo che gli architetti di New England hanno dato all’impianto domestico anglosassone arricchendolo di nuovi spazi aperti verso l’esterno. Il riferimento al bungalow, che meglio si potrebbe tradursi con il termine cottage, appresenta un modello di abitazione confortevole, intima, comoda. Ed è un esplicito richiamo all’elevato grado di finitura dell’interno inglese.

Le case di campagna disegnate da Gio Ponti, Tomaso Buzzi, Emilio Lancia ed Enrico Agostino Griffini tra il 1928 e il 1930 (Ponti 1928a, 26-27; Buzzi 1928, 17-18; “Domus” 1928, 14-15, 45; Griffini 1929, 22-23; “Domus” 1930, 46-47) sono caratterizzate da una grande sala di soggiorno, intorno alla quale si dispongono gli altri ambienti: il riferimento al “compartimento delle stanze” appare in tutta evidenza. Gli architetti di via Sant’Orsola propongono ai lettori di “Domus” una rielaborazione della villa veneta e, simbolicamente, la metafora visiva di una residenza patrizia, interpretata rivolgendo lo sguardo ai disegni pubblicati nel Settimo Libro del Trattato di Architettura di Sebastiano Serlio e ne I quattro libri dell’architettura di Andrea Palladio. La fortuna del trattato di Palladio è da ricercarsi, rilevava Giulio Carlo Argan (1931), nella sua “struttura essenzialmente tipologica” che aveva contribuito alla sua divulgazione nel periodo neoclassico, e bene si prestava negli anni Venti a tradurre la modernità in un linguaggio d’ispirazione classica consentendo, oltre al valore simbolico degli elementi della tradizione, anche un loro consumo. Nei trattati i progettisti milanesi non cercano esempi ma schemi e “elementi immanenti ed eterni”, costanti nei diversi periodi classici, che soli possono definire “l’assoluta italianità” dell’architettura moderna (Muzio 1925). Riporto brevemente le istanze sostenute dagli architetti qui citati attorno a questo tema.

La villa, chiarisce Muzio, significa in ogni paese la dimora di campagna e in ogni paese si rifà a modelli italiani, ma è nel Veneto, precisa, che troviamo gli “archetipi” perché qui vissero i trattatisti. Nel Secondo Libro, Palladio elogia il tempo passato in villa dal gentiluomo “dove finalmente l’animo stanco delle agitazioni della Città, prenderà molto ristauro, e consolazione” (Palladio, Libro II, capitolo 12).

L’architettura italiana ha indubbiamente un singolare primato per la costruzione della villa, abitazione signorile di campagna […]. È naturale cha da noi l’innato gusto della vita all’aria aperta, la dolcezza del clima e l’amenità del paesaggio, formassero l’ambiente propizio a tali costruzioni (Muzio 1925, 225).

I progetti pubblicati su “Domus” traducono dunque la “commodità” dell’“abitazione de' gentiluomini”, l’idealizzazione dello stile di vita aristocratica funge da modello per la ‘casa di campagna’, che, invero, è però uno spazio borghese inserito nel paesaggio turistico, uno scenario per i rituali del fine-settimana.

L’armonica fusione tra il paesaggio e la casa, che “apre verso la campagna finestre e logge e protende portici e pergole in quei primi giardini cui il 500 darà forme architettoniche e grandiosità di disegno”, è rappresentato dall’architettura del giardino (Muzio 1925, 227). Palladio, com’è noto, non discorre di quest’argomento, così Muzio ricorre al trattato L’idea dell’architettura universale (1615) di Vincenzo Scamozzi, che così descrive il giardino dietro la villa: “ombre di verdure per poter passeggiare […] una cedrara a spalliera o pergolato” (Scamozzi 1615, parte I, Libro III, cap.13).

Tomaso Buzzi nella “trascrizione moderna” della quarta “habitatione per fare alla villa” di Sebastiano Serlio vede rinnovata la tradizione della casa romana, aperta verso l’esterno con logge ma raccolta alla maniera latina intorno a un cortile o salone centrale (Buzzi 1928a, 20-21; Buzzi 1929, 14-15). Anche nella casa di campagna ideata da Ponti si entra varcando un largo portico con colonne, traduzione del loggiato palladiano riadattato nell’abitazione moderna (Ponti 1928a; Griffini 1929, 22): nella “Piccola dimora di campagna” disegna un ampio portico “del tipo di quelli delle nostre vecchie case di campagna”.

Anche Emilio Lancia, che in questi anni divide lo studio con Ponti, evidenzia la natura architettonica del giardino all’italiana, esaltando la struttura del portico, che risponde “a un uso pratico ed estetico meridionale e italiano, e trova una valorizzazione igienico-pratica nella casa moderna che si apre al sole, all’aria, alla luce” (Lancia 1929, 15,56). La rielaborazione degli elementi tradizionali è un principio fondamentale nella progettazione della casa e l’architetto moderno, conclude Lancia, dovrebbe guardare a quei ritmi d’archi e alle prospettive di colonne, ai portici, alle terrazze, alle pergole e alle verande, motivi secolari e “tutti elementi della tradizione ‘latina’” (Lancia 1928, 6). Fin dall’editoriale che apre il primo numero di “Domus”, Ponti insiste sulla casa all’italiana che dall’interno

[...] riesce all’aperto con i suoi portici e le sue terrazze, con le pergole e le verande, con le logge ed i balconi, le altane e i belvederi, invenzioni tutte confortevolissime per l’abitazione serena e tanto italiane che in ogni lingua sono chiamate con nomi di qui (Ponti 1928, 7).

Luigi Piccinato, assistente al corso di Edilizia Cittadina e Arte dei Giardini tenuto da Marcello Piacentini dal 1924 al 1930, intervenendo su “Domus”, enuclea i caratteri del giardino all’italiana e ne ricostruisce la storia prendendo in esame la trasformazione del portico, che “risponde a un uso pratico e a un bisogno estetico del tutto meridionale e italiano”, ed è una costante rintracciabile nei vari periodi storici, dai peristili romani e pompeiani ai chiostri romanici, ai loggiati delle ville rinascimentali; questo elemento, precisa, si ritrova inoltre nell’architettura minore della villa rustica e della casa di campagna, specialmente nel Veneto (Piccinato 1928, 36-37), e riconosce pertanto in Palladio “l’architetto che meglio ha compreso il valore architettonico del portico”, espresso pienamente nella Villa Repeta a Campiglia. 

Se confrontiamo i disegni di Serlio e Palladio con l’abitazione di campagna pubblicata da Ponti [Fig. 1], notiamo come il progettista milanese escluda i fabbricati destinati al governo della campagna e al reggimento del podere, ed elimini il piano inferiore dell’abitazione signorile: il progetto corrisponde così al solo piano nobile e agli ambienti della casa distribuiti intorno alla sala centrale. La dimora di campagna non conserva traccia del complesso produttivo della villa veneta, e il paesaggio “ameno”, esaltato da Muzio, è percepito come una attrattiva.

L’architetto, intenzionato ad accogliere le tendenze internazionali ma altresì risoluto a fare risuonare “la voce della razza latina” (Ponti 1931, 13), considera l’unità tra la casa e il giardino, e quindi la continuità tra architettura di pietra e di piante, di fondamentale importanza nel progetto della ‘casa all’italiana’:

L’idea è quella di recuperare la tradizione dell’architettura dei giardini e di renderla praticabile, sia pure entro limiti di spazio diversi da quelli del passato (Giannini 1994, 353).

2 | Gio Ponti ed Emilio Lancia, Casa per le Vacanze, 1930, veduta prospettica, china su lucido, 280 x 365 mm. Disegno di Renzo Zavanella. Centro Studi e Archivio della Comunicazione, Università di Parma, Sezione Progetto, fondo Renzo Zavanella, B003240S.

Nell’opera di Ponti i segni e le forme della tradizione colta si combinano al catalogo della nascente società del consumo. Il nesso tra citazione colta ed elementi dell’abitare contemporaneo è un uso cosciente del valore simbolico contenuto nella citazione. Attraverso la metafora storicista e un collaudato repertorio di citazioni, Ponti eleva la costruzione materiale l’abitazione moderna, dalla palazzina borghese di città alla casa di campagna, rievocando una visione mitica dell’antica dimora mediterranea.

Ponti sapientemente concilia i segni della civilizzazione industriale e i valori della tradizione, mostrando una non comune capacità di mediazioni linguistiche, e di ritrovare nuove armonie. Perciò si comprende la centralità che la sua figura ha assunto, dopo decenni di scarsa attenzione critica, nella cultura architettonica postmoderna.

La Casa per le Vacanze, progettata da Ponti-Lancia nel 1930 per la IV Triennale, è una costruzione paradigmatica, che sigla un biennio di intensa elaborazione sulla tipologia dell’abitazione moderna in campagna. Realizzata nel giardino della Villa Reale di Monza, esalta lo stretto legame con l’ambiente naturale. La grande hall centrale, alta due piani, la sala e la galleria, si apre con ampie porte finestre verso il giardino. Nella veduta prospettica [Fig. 2] apparsa su “Domus”, opera di Renzo Zavanella (1900-1988) dal 1930 al 1932 disegnatore nello Studio Ponti-Lancia, un paesaggio più immaginario che reale rappresenta l’orizzonte dello sguardo. La coppia seduta nella terrazza con pergolato in ferro, cui adduce una scala a chiocciola esterna, pare intenta ad ammirarlo, ma sappiamo che è il percorso compiuto per giungere alla sommità dell’edificio ha consentito una molteplicità di vedute. L’architettura e il paesaggio non sono figura e sfondo della scena, l’ambiente che circonda la Casa per le Vacanze, possiamo intenderlo come esempio di pittoresco nella modernità (Posocco 2000), che si concreta nello sguardo dell’osservatore.

Memoria dell’antico negli spazi verdi dei piani attici

Tornando al sottotitolo della rivista, “Architettura e arredamento dell’abitazione moderna in città e in campagna”, riprendo un altro filo di quella fitta trama per approfondire le caratteristiche dell’abitazione moderna in città.

Nel capoluogo milanese a inizio Novecento la commistione tra le classi sociali caratterizza ancora gli edifici d’abitazione; sarà l’introduzione del piano tipo, funzionale alla politica delle società immobiliari, ad avviare una radicale trasformazione dei modi di abitare. Abbaini e soffitte riservati alle classi meno abbienti a fine anni Venti sono un lontano ricordo, sostituiti dai piani attici. Il reddito fondiario non sarà più penalizzato dalle differenze tra i piani di un medesimo edificio, ma dipenderà dalla zona della città, dal pregio naturalistico dell’area e dall’orizzonte paesaggistico.

La scomparsa del piano nobile si rivela un requisito essenziale dell’abitazione moderna; ciò nonostante, ancora nell’ultimo lustro degli anni Venti non sono pochi gli esempi di costruzioni ancora caratterizzate dalla sua presenza. Mutate condizioni sociali ed economiche e le trasformazioni determinate dall’inurbamento e dall’industrializzazione finiranno con l’imporre nuovi tipi edilizi. D’altra parte, le mire economiche della borghesia spingono in questa direzione: lo sviluppo di una tipologia di edilizia residenziale che garantisca comfort abitativo, guadagno e prestigio.

Come interpreta Ponti il tema dell’edificio a molti piani uguali sovrapposti? In occasione di una relazione presentata nell’ottobre 1928 al Rotary Club di Milano, disquisendo sui caratteri stilistici dell’architettura contemporanea, affermava che

La caratteristica comune che si può riconoscere in tutti i nostri edifici cittadini, di qualunque ripetizione di stile essi siano, è ormai la sovrapposizione di piani uguali (Ponti 1929, 41).

E, tuttavia, salvaguardare l’autonomia dei singoli appartamenti è l’imprescindibile risposta al desiderio della borghesia imprenditoriale a possedere, anche nella palazzina verticalizzata e multipiano, il tipo edilizio di maggiore volumetria – ‘la torre’, come la definisce Ponti –, un’abitazione percepita come una villa unifamiliare. La serialità planimetrica introdotta nell’edilizia residenziale e le sue ragioni economiche non possono confliggere con la necessità di distinzione sociale: l’adozione di uno stile di vita e dei suoi contrassegni distintivi, insegna Pierre Bourdieu, rivela, infatti, le condizioni di esistenza materiale dei diversi ceti sociali (Bourdieu 1979. Nel processo storico di costruzione dell’intimità familiare avviato nel XVIII secolo, si rivelano importanti i primi decenni del Novecento, quando diventa prioritario l’isolamento dell’abitazione. La diffusione dei nuovi collegamenti verticali si dimostra un efficace antidoto alla convivenza tra estranei che è avvertita, anche quando del medesimo censo, con disagio.

Se già era stata teorizzata da César Daly la distinzione tra percorsi padronali e di servizio (Daly 1864), l’isolamento familiare potenziato grazie ai nuovi sistemi d’accesso diviene costitutivo della moderna accezione di comfort. Nella Casa di via Domenichino (1928-1931), che sorge nei pressi della Fiera Campionaria, nel nuovo quartiere d’espansione residenziale a vocazione ‘signorile’, Ponti introduce gli ascensori che immettono direttamente nell’anticamera degli appartamenti, soddisfacendo così l’esigenza d’indipendenza degli alloggi.

L’autonomia degli appartamenti, l’isolamento e la privatizzazione della vita familiare, il comfort delle attrezzature domestiche, non soddisfano però la committenza borghese incline a desiderare la differenziazione della propria dimora. Come si evince studiando il materiale progettuale della Casa di via Domenichino, l’adattamento del lessico classico alla nuova tipologia edilizia si dimostra funzionale alle esigenze d’identificazione dell’utenza borghese, stabilendo però anche una relazione sia con il quadro urbano sia con la città ideale del Club degli Urbanisti. Il confronto tra le varianti studiate in corso d’opera e la soluzione definitiva del motivo d’angolo ci permette di comprendere il valore simbolico che assume l’elemento del coronamento, caratterizzante il panorama urbano. Una prima ipotesi sembra rammemorare la lanterna borrominiana di San Carlino, trascritta con ironia Déco nelle versioni successive, dalla torre alla lanterna traforata, al gazebo aperto alla luce e all’atmosfera circostante. Ponti procede verso l’abitabilità della copertura: dall’appartamento sito all’ultimo piano una scala a chiocciola conduce al gazebo-veranda e al terrazzo protetto da una pergola (Miodini 2001, 81-85).

Un precedente lo troviamo nella Casa della Meridiana (1924-25), realizzata nel terreno limitrofo all’antico Giardino d’Arcadia che Giuseppe De Finetti aveva acquistato dalla famiglia Melzi d’Eril (Notari 1999). Uno schema a terrazze digradanti, con volumi sempre minori e spezzati, e ampie finestre aperte sul giardino “in modo da offrire il miglior godimento del verde agli abitanti dei vari piani”, pensata per offrire “agi, serena quiete e gradevole soggiorno anche nel cuore di una città rumorosa” (G. M. 1927, 373). Le numerose fotografie del centenario cedro del Libano che sorge a levante della casa, conservate nel Fondo De Finetti allo CSAC, attestano l’intenzione di salvaguardare l’antico giardino, uno dei più vasti e dei pochi ancora presenti nel centro di Milano.

3-4 | Terrazze e piscine sul tetto. “Domus” 92 (agosto 1935), 10, 12.

Vero e proprio caso studio è Casa-torre e palazzo Rasini (1933-1934) ai Bastioni di Porta Venezia, costruita sul terreno dei fratelli Giovanni e Mario Rasini che affidano allo Studio Ponti-Lancia, dopo la demolizione di una casa di proprietà, il progetto di un nuovo edificio d’abitazione, articolato in terrazze digradanti affacciate sui giardini pubblici (Spinelli 2019, 80-81). Anche nelle diverse declinazioni del tetto-giardino, proposte in questi anni da esponenti del razionalismo italiano, gli edifici progettati da Pietro Lingeri e Giuseppe Terragni a Luigi Figini e Gino Pollini, a Alberico e Lodovico Barbiano di Belgiojoso, prospettano su parchi e giardini storici. Alla sommità del corpo basso si trova un belvedere, attrezzato con giardini pensili, archi, pergole, verande e una piscina, protetto da una balaustra trasformata in fioriera [Fig. 3-4]:

Silenziosi telai popolati di rarefatte comparse, geometrie sospese, archi vuoti a inquadrare, come distaccati periscopi, frammenti emergenti della città ridotta a scena in lontananza rinverdiscono, sulla celata sommità dell’edificio di corso Venezia, i miti mediterranei dell’Ellade domestica, pacificamente offerta ai sogni lirici di una sofisticata borghesia (Irace 1982, 218).

La “villa sospesa” alla sommità dell’edificio, “ibrida declinazione del tema della villa con la nuova tipologia dell’abitazione di massa” (Irace 1982, 219), pur ammettendo la serialità del piano tipo, preserva l’individualità e il desiderio di distinzione del committente. Nel progetto di Casa Rasini, Ponti trascrive l’ideale della villa suburbana nella casa di città: vivere nei piani attici è metafora della posizione che si occupa nella scala sociale. L’habitus guida le pratiche in ogni ambito della vita: se i piani inferiori sono fonte di guadagno, l’attico è riservato all’alloggio della committenza, che gode di una posizione privilegiata sull’intorno urbano con luminosità ottima e una dotazione di verde spesso molto ricca.

La villa italiana, “in così perfetta armonia con la dolcezza del clima e l’amenità del paesaggio”, è un modello tipologico che rivive nel piano attico riservato alla committenza borghese. L’abitazione ai piani alti, metafora dell’abitare in villa, rende fruibili anche nell’ambiente urbano spazi verdi approdati all’artificio, soggetti alle regole dell’architettura (Gresleri 1995, 29). La nuova architettura non definisce soltanto un’intesa col paesaggio, ma oppone, senza tuttavia contrapporvisi, i suoi ritmi severi a quelli più fantasiosi “dei pergolati di viburno e degli assiemi di acacie e ciliegi” (Sartoris 1933, 1).

Sembra che, oltre al piano attico e al tetto-giardino, le abitazioni moderne di città, quelle di lusso, destinate alla borghesia, abbiano un’altra caratteristica in comune: sono prospicienti giardini storici. Si stabilisce, potremmo ipotizzare, un collegamento con consuetudini invalse a metà XIX secolo. Le case signorili e i palazzi, scrive Archimede Sacchi nel suo fortunato manuale, è desiderabile che sorgano in vicinanza dei pubblici passeggi e dei giardini, “cose di un valore inestimabile per coloro che non hanno molte occupazioni” (Sacchi 1874, 55). Tra i committenti di Ponti figurano esponenti dell’imprenditoria milanese: siamo ben lungi dal quadro descritto da Sacchi, tuttavia, le abitazioni e lo spazio privato della famiglia sono collegati alle regole del decoro e della convenienza. Il rituale che ordina questi spazi non si assoggetta però alla produzione né alla misura del tempo delle macchine che, dalla fine del XIX secolo, permea sia i luoghi domestici sia la ripartizione tra lavoro e tempo libero (Attali 1983, 163-195).

Dall’agosto 1929, “Domus” assume il sottotitolo “L’Arte nella casa”, che rimarrà fino al numero di dicembre del 1940, e dall’annata 1932 la rivista non è più suddivisa in rubriche. Nel 1933, l’anno in cui progetta Casa Rasini, e nella successiva annata, Ponti, continuando quella fertile coincidenza tra l’impostazione della rivista e le architetture costruite, pubblica editoriali e articoli dedicati ai giardini pensili sui tetti, tema che ritroviamo anche negli articoli che pubblica nella rubrica “La casa d’oggi”, avviata nel 1933 sul “Corriere della Sera”.

Terrazze e pergole, elementi di un nuovo canone abitativo, sono entrate nel glossario dell’architettura domestica. Ogni abitazione in città, asserisce Ponti, deve essere dotata di una terrazza (“Domus” 1935, 10-12), un elemento all’avanguardia nello spazio della costruzione moderna, caratterizzante il paesaggio urbano.

E sempre nel 1933, in aprile, esce su “Domus” l’articolo Un fiabesco giardino pensile sui tetti di Parigi che illustra il paesaggio architettonico dell’appartamento per Charles de Beistegui al sesto e settimo piano dell’edificio in Avenue des Champs Elysées a Parigi (1929-1931) di Le Corbusier: quel giardino – articolato come uno spazio scenico, ricco di perspectives émouvantes (Mozzato 2018, 140-153), che apre lo sguardo verso panorami lontani e cancella il divario con la natura – è uno dei capisaldi del moderno.

Diversi sono i quadri mentali e le percezioni visive invocate da Ponti negli anni Trenta.

5-6 | Terrazze e piscine sul tetto. “Domus” 92 (agosto 1935), 11, 12.

La documentazione fotografica della terrazza con piscina nella costruzione d’angolo di Corso Venezia, pubblicata su “Domus” nel 1935, manifesta i fondamenti della cultura figurativa di Ponti.

Affascinanti tagli dell’inquadratura e vedute dall’alto raccontano la trasformazione del rapporto con la natura nello spazio urbano. Seduta sul bordo della piscina o distesa a prendere il sole, una giovane donna abita quel giardino all’italiana [Fig. 5-6]. Il ritorno nell’architettura moderna di pergole, terrazze, loggiati, verande, esedre, altane – “elementi incantevoli” del giardino tradizionale – non è una mera questione formale, precisa Ponti, ma risponde alle “esigenze della nostra vita”, alla “educazione solare”, considerata uno “dei più appariscenti caratteri della vita d’oggi” (Ponti 1934e, 5). La loro ricomparsa nell’edilizia verticale contemporanea, favorita dalle possibilità che offrono le strutture d’acciaio e cemento (Ponti 1934, 5), rappresenta l’ideale conciliazione tra le innovazioni tecniche delle tendenze internazionali e la risoluta volontà a fare risuonare “la voce della razza latina” (Ponti 1931, 13).

Che il giardino pensile offra vantaggi alla vita sportiva e ai bagni di sole è un quadro concettuale che ritorna, funzionale alla ricerca di un’integrazione tra la tradizione italiana del paesaggio architettato e le istanze del Movimento Moderno, senza dimenticare i rituali e il culto del corpo, avvalorati ideologicamente nel Ventennio. Lo stratificato repertorio iconografico degli elementi architettonici del giardino all’italiana ammanta di prestigio culturale l’espressione della vita moderna.

In questa casa, dotata di terrazze, altane e belvedere, dove rivive l’ideale della domus pompeiana, alberga quel “senso di una vita confidente […] per quel suo facile […] comunicare con la natura [e il] ricrearsi in riposanti visioni di pace”. Ma è anche il luogo di un tempo del loisir. Una temporalità liberata dall’attività domestica che la diffusione dei primi elettrodomestici e la riorganizzazione della cucina razionalizzata hanno facilitato. È una lunga storia, la storia del contributo delle donne all’architettura domestica e al design: dalle sorelle Beecher (White 2003) a Erna Mayer, alla cucina standardizzata di Francoforte (1926) di Margarete Schütte-Lihotzky, alla quale qui si può solo accennare. La normalizzazione dell’alloggio governato dall’efficienza, concepito per economizzare il tempo impiegato per svolgere le attività domestiche, sono teorie ben note nell’ambito milanese. Anche per Ponti il primo livello del comfort è la dotazione di attrezzature. Ma se la nozione di comfort pare riconducibile alla meccanizzazione industriale della forza lavoro (Fourastié 1973), tanto che rendere un mezzo il più idoneo a una determinata azione è, precisa l’economista francese, il senso etimologico della parola stessa, in un processo che, dall’architettura domestica del già citato César Daly, conduce alla ‘machine à habiter’ di Le Corbusier (Teyssot 1981, XLVIII-XLIX), per Ponti deve tradursi con la parola italiana conforto, che è la “misura per i nostri pensieri […] salute per i nostri costumi”.

La terrazza di Casa Rasini è un “conforto” per la vita d’oggi: le immagini illustrano l’abitazione “più libera e solare, ricca delle risorse che altane, terrazze, piscine poste al sommo dell’edificio possono recare”. Rappresenta la realizzazione di un’incantevole eterotipia, secondo il termine che sarà coniato da Michel Foucault.

7 | La spaziosa terrazza, in Una villa a tre appartamenti in Milano, “Domus” 111 (marzo 1937), 9.

Nelle terrazze al sommo dell’edificio, Ponti interpreta in chiave contemporanea immagini classiche attribuendo nuovo significato simbolico. La pergola, il patio della domus pompeiana e il belvedere rinascono alla sommità dell’edificio come elementi tradizionali rielaborati: immagini cariche di significato, che si prestano a esprimere contenuti nuovi, conservando tuttavia memoria culturale della loro storia. La storia di questi elementi architettonici e della loro rappresentazione è complessa. L’esedra, che nel giardino pensile sull’edificio di Corso Venezia ripara la piscina da sguardi indiscreti, compare, per esempio, nelle opere di Lourens Alma-Tadema (1836-1912) e Wilhelm von Plüschow (1852-1930), e la ritroviamo nella scenografia d’arredo che Guido Rey (1861-1935) aveva voluto per il vasto giardino che circondava la sua villa nella zona collinare di Torino. Un elemento pompeiano che diventa neopompeiano grazie all’interpretazione dell’Antico nell’opera pittorica e fotografica di fine XIX e primo XX secolo.

Nella copertura di Casa Laporte (1935-1936), l’ampia terrazza, riparata da pareti “quasi come una sala col cielo per soffitto” (Ponti 1937a, 9), è un frammento di naturalismo poetico, metafora e allusione all’archetipo mediterraneo dell’orto concluso [Fig. 7]. Il tetto a terrazzo dell’Appartamento in via Brin, dove Ponti abitò con la famiglia dal 1936 al 1942, con le sue “aperture per occhieggiare come dagli spalti di un castello” (Licitra 2019, 56), l’erba tra le lastre di marmo e cemento del pavimento, l’orto, la piscina e il campo da sabbia, è un luogo d’intima, libera evasione; anche l’abbigliamento dei suoi abitanti, che vi soggiorneranno assiduamente da marzo a ottobre, determinerà cambiamenti. Da parte sua Maria Teresa Parpagliolo aveva rimarcato l’attualità del giardino interno, al centro della casa, contornato da portici con pergole e vasche, individuandovi “la sistemazione più razionale in città di un luogo aperto per la casa” (Parpagliolo 1931). Il contatto con la natura restituisce all’abitazione di città la vista del verde, e quel “diritto al cielo”, parte integrante dell’ambiente urbano, cui farà appello Bottoni (Bottoni 1973).

8 | Concorso per un Giardino pensile. “Domus” 40 (aprile 1931) 29.

Villa del Sole. Il Giardino di Sant’Anna

La tradizione del giardino all’italiana con i suoi portici e pergole rivisitata in chiave moderna si rivela un persuasivo repertorio iconografico e tipologico per l’edificio urbano. Armonica architettura combinatoria di funzionalismo e tradizione, comprova quanto, per Ponti, il problema del giardino non fosse isolabile dalla questione dell’architettura moderna.

Un contributo viene dal confronto tra la “Mostra del Giardino Italiano” (1931) e Villa del Sole (1932), un progetto non realizzato, a tutt’oggi pressoché ignorato nel dibattito critico, con poche eccezioni (Miodini 2001, 104-108).

La “Mostra del Giardino Italiano”, aperta al pubblico il 24 aprile 1931 nel Salone dei Dugento a Palazzo Vecchio, esprime posizioni molto tradizionali: il ricchissimo repertorio, selezionato dalla commissione presieduta da Ugo Ojetti, dedicato all’iconografia storica del giardino dai giardini e case di Pompei alle grandi realizzazioni di fine Settecento, vuole confermare che il giardino moderno “se vuole essere veramente italiano” non può fare a meno degli elementi del giardino antico italiano, elaborati da secoli. Nonostante il successo di pubblico, non mancarono polemiche e critiche rivolte

[...] all’ossessionante celebrazione del valore patrimoniale italiano […] che mirava ad arrestare ogni tentativo di abbandono delle classiche progettazioni ufficiali senza incoraggiare nuove ricerche sui temi del giardino e dei parchi pubblici (Cantelli 2014).

I progettisti legati a “Domus” sono adeguatamente rappresentati: Gio Ponti, Tommaso Buzzi e Ferdinando Reggiori figurano nel Comitato regionale della Lombardia e Luigi Piccinato è delegato del Lazio. A ben vedere il ruolo svolto da Ponti è marginale; al progettista milanese si deve però un’interessante iniziativa: la rivista bandisce un concorso per giardino pensile [Fig. 8] mente il Comitato aveva promosso due concorsi, per un Giardino Pubblico Moderno e per un Giardino Privato Moderno all’italiana, i cui esiti sono presentati da “Domus” ai lettori.

Ma l’occasione per dimostrare l’interpretazione dell’abitazione moderna e del ruolo che vi ha il giardino all’italiana arriva l’anno dopo. Nel 1932 Ponti e Lancia redigono, per incarico della Società Anonima Milanino, un progetto per lo sfruttamento dei terreni ancora liberi da costruzioni a Milanino, la città-giardino fondata nel 1910 da Luigi Buffoli. Il progetto, concordato con Cesare Penati, consigliere delegato della Società, prevede il piano di massima di una colonia di case moderne in una zona a giardino e la costruzione di un nucleo di edifici tipici. Gli architetti si sarebbero occupati anche della divulgazione e della propaganda dell’iniziativa. Ponti pensa di proporre Villa del Sole come quartiere modello alla V Triennale, sull’esempio del Weissenhof di Stoccarda (1927) e del Werkbundsiedlung viennese (1932), e seguirà il coordinamento con la manifestazione milanese.

9 | Gio Ponti, Villa del Sole. Giardino di Sant’Anna, planimetria, china su lucido, 510 x 810 mm. Centro Studi e Archivio della Comunicazione, Università di Parma, Sezione Progetto, fondo Gio Ponti, B008684S.

La planimetria generale e i cinque nuclei urbanistici, giardini recintati con pergole e orti, si deve a Ponti, anche se all’epoca è ancora in sodalizio con Lancia. A esecuzione parziale, in previsione della futura esposizione milanese, Ponti disegna il Giardino di Sant'Anna [Fig. 9], attraversato da un grande asse di transito e intersecato da due filari di pioppi disposti a V col vertice a sud, e una quinta di alberi a nascondere le costruzioni esistenti a nord. Caratterizzato da sentieri lastricati, statue moderne e studiate vedute prospettiche, il Giardino di Sant'Anna media il carattere architettonico “attraente e nobile” dell’antico giardino all’italiana, una reinterpretazione moderna dove convivono suggestioni letterarie e artistiche, in un singolare intreccio di carica espressiva e formula iconografica, dai dipinti parietali dell’Auditorium di Mecenate all’Esquilino alle statue e al belvedere dei giardini di Frascati e Tivoli.

L’architetto milanese progetta anche alcune abitazioni: tra queste, la tipologia cui riserva dettagliati disegni esecutivi è il progetto di ville affiancate a un solo piano con cortiletto alla pompeiana. Nel percorso d’individuazione di un carattere “italiano” dell’architettura moderna, lo studio dei trattati e l’interesse per l’architettura domestica anglosassone si coniugano con la ricerca dello stile “latino” della casa pompeiana. Una complessa iconografia che si avvale di un repertorio figurativo assai ricco: non soltanto l’illustrazione ma anche la fotografia; non tanto la documentazione del sito archeologico, che comunque andava restituendo la quotidianità di un vissuto privato e antropologicamente variegato, quanto la ricostruzione immaginaria del luogo. Perfetta unione di elementi della tradizione mediterranea e dell’architettura internazionale, Villa del Sole concilia suggestioni pittoriche e fotografiche: esiste, infatti, un profondo legame, nei differenti periodi, tra la documentazione grafica e la fortuna culturale dell’architettura domestica pompeiana e le numerose valenze sentimentali ed estetiche che l’arte, tesa nello sforzo di far rivivere la storia bruscamente interrotta dell’antica città romana, ha, nel tempo, messo in scena (Miraglia 2015).

Il progetto di ville affiancate con cortile alla pompeiana si inserisce nel recupero, diffuso in questi anni, della tradizionale struttura a patio della casa pompeiana (Cresti 1980). Fin dal 1928 Ponti elogia la “nostra italica casa mediterranea, ermetica al di fuori, e ricca e piena d’agi e di conforto all’interno” (Ponti 1928b, 11): un luogo idilliaco, antitetico allo spazio urbano, memoria culturale di “felici dimore create in auree epoche della civiltà mediterranea”. Se teniamo conto del percorso delineato, quando nel 1934 Ponti rielabora il progetto di casa con cortile alla pompeiana, il riferimento all’architettura mediterraneanon non si può certo considerare tardivo (Irace 1988, 142, 145; Cresti 1980,120-134).

Nello stesso anno, sfumata l’idea di farne un quartiere modello collegato alla manifestazione triennale, Ponti propone ai lettori i progetti delle abitazioni, “semplici, nostrane, aperte all’aria, con vetrate, terrazzi, portici, e pergole” (Ponti 1934a, 1; AP 1934), esemplare repertorio di casi tipici per una colonia di case moderne in una zona a giardino. E così sintetizza il programma di Villa del Sole:

Dare agli uomini una nuova e più felice forma di vita nella quale agio, aria, sole, verde, silenzio – cioè salute fisica e morale – abbiano una parte preponderante (Ponti, Lancia 1932).

Abitare in un parco, in una colonia “chiusa e modernissima”, non è soltanto un’attrattiva nuova ma troverà – segnala pragmaticamente Ponti – un sicuro mercato, poiché è una reinterpretazione del giardino all’italiana che trasforma il valore-segno della tradizione classicheggiante in valore di scambio simbolico. Parpagliolo, da parte sua, segnala la necessità di conciliare “i vecchi principi che guidavano una volta i nostri architetti nel creare i giardini monumentali italiani” e suggerisce di “creare le comodità necessarie per la vita all’aria aperta, viali ombrosi, riparati dai venti, prati soleggiati, aiuole, orto, tutto facilmente accessibile”, e di formare un’unità organica fondendo gli elementi dell’ambiente naturale con “quelli estetici, igienici pratici stabilendo dei principi che possono essere applicati ovunque e per ogni più svariata condizione” (Parpagliolo 1931, 68-71; per un approfondimento sulla figura di Maria Teresa Parpagliolo, v. Ferrara, Rizzo, Zoppin 2007; Dümplemann 2002, 2004, 2005, 2010; Dümpelman, Beardsley 2015).

Villa del Sole si presenta come alternativa alle città-giardino e ai quartieri periferici, offrendo la possibilità di abitare un parco. E si tratta di uno dei pochi esempi di progettazione a scala urbana nel pur variegato e complesso percorso progettuale di Ponti. Se, come ha scritto Ciucci, “non è facile rintracciare in Ponti una definita linea urbanistica”, Villa del Sole può essere considerato, per certi aspetti, un precedente del Progetto urbanistico per la sistemazione della zona dell’ex Scalo Sempione (1937-1938) anch’esso non realizzato. Ponti elabora “uno spettacolo magnifico di un viale stupendo attraverso un parco da cui s’estollano […] alte innumerevoli case a terrazze e giardini pensili” (Ciucci 2019, 254). Le abitazioni, quantunque di diversa tipologia, sono immerse nel verde di un parco.

Il 1937, l’anno del progetto per la zona dell’ex Scalo Sempione, Ponti avvia su “Domus” con il contributo di Parpagliolo e Porcinai una campagna per il verde. Il problema del verde, annota profeticamente Ponti, “è un problema nazionale che ha portata sociale, economica, turistica, pesistica, artistica, agricola” (Ponti 1937, 35), richiamando l’attenzione del pubblico sulla funzione del verde nell’edilizia e nell’urbanistica. Sono idee che trovano una formulazione programmatica negli scritti sul “Corriere della Sera”. Anche Parpagliolo, nel suo aggiornato articolo sulle zone verdi nelle città, afferma che “uno dei principali problemi di cui si occupa l’urbanistica moderna è senza dubbio quello delle zone verdi” (Parpagliolo 1937, 33). E al verde in città sarà riservata una sezione della VII Triennale.

A conferma della centralità che nel biennio 1937-1938 assume il tema del paesaggio, nel frontespizio del sommario si precisa che “Domus” è la “rivista mensile dell’arte nella casa e nel giardino”; dal gennaio 1939 al dicembre 1940 “Domus” è invece la “rivista mensile del lavoro italiano”, segno del crescente interesse di Ponti per la produzione di serie e “dell’arte italiana di alta qualità”. La campagna di “Domus” per il verde credo si debba collegare a una diversa attenzione per il paesaggio che matura nei tardi anni Trenta, e trova la sua massima espressione nei progetti “mediterranei” ideati in collaborazione con Bernard Rudofsky (fra i molti i contributi critici sull’architettura mediterranea, v. i recenti Bocco Guarneri 2010; Mangone 2015, 2017, 2019; Miodini 2018, 2019; Mucelli 2017; Rossi 2014).

L’urbanistica di Ponti, rileva Ciucci “rimane ancorata a spazi aperti e chiusi, a volumi alti e bassi, a percorsi, architetture, prospettive, punti di vista, luci e ombre” (Ciucci 2019, 255).

10 | Gio Ponti, Villa Marchesano, soluzione non realizzata della copertura a terrazzo, 1937. Veduta assonometrica, grafite su lucido, 280 x 480 mm. Centro Studi e Archivio della Comunicazione, Università di Parma, Sezione Progetto, Fondo Gio Ponti, B000361S.

11 | Una piccola casa ideale. Le piante, i percorsi, l’abitazione, le vedute. “Domus” 138 (giugno 1939), 41.

12 | Stanza della parete nera nell’Albergo di San Michele all’isola di Capri, veduta prospettica dall’alto, china su lucido, 420 x 420 mm. Centro Studi e Archivio della Comunicazione, Università di Parma, Sezione Progetto, fondo Gio Ponti, B008479S.

Punti di vista e sguardi sul paesaggio

Ed è proprio intorno al 1937 che emergono nei progetti “mediterranei” nuovi punti di vista, prospettive e sguardi sul paesaggio; le architetture delle case al mare implicano nuovi dispositivi di visibilità che Ponti sempre rappresenta nei disegni. Un dispositivo di attivazione dei sensi è il tetto-terrazza di Villa Marchesano [Fig. 10], in una variante di copertura non realizzata: è un luogo privilegiato di osservazione, che restituisce allo spettatore la luminosità atmosferica dell’orizzonte la cui perdita nella metropoli moderna è, da molto tempo ormai, una realtà (Dubbini 1994, 158) e stabilisce una relazione di ampio respiro con la natura circostante.

Nel percorso progettuale di Ponti acquista sempre più importanza lo studio dei punti di vista e l’architettura en promenade. La descrizione delle visuali caratterizza la pianta di Villa Marchesano e quelle dei progetti di case al mare pubblicati su “Domus” [Fig. 11] tra il 1939 e 1940. In questi disegni, scelte distributive e fughe visuali coincidono. Si deve precisare, però, che la resa grafica delle visuali sia interne all’abitazione sia, soprattutto, dall’interno verso l’esterno, è scelta per chiarire ai lettori di “Domus” il progetto di un nuovo modo di abitare; inoltre le piante

[...] con l’indicazione delle visuali di chi vi abita, suggeriscono percorsi, inquadrature affacci, […] densità cromatiche e luminose, presenze vegetali, valori atmosferici, identificando lo spazio costruito come una vera e propria macchina narrativa (Mucelli 2017, 158).

Nelle vedute prospettiche delle casette per l’Albergo nel bosco all’isola di Capri [Fig. 12], “un sistema micro urbanistico, privo di quelle rigidezze proprie dell’urbanistica funzionalista” (Mangone 2015, 255), un dispositivo ricco di spunti poetici sono le soglie, cornici che inquadrare figure di donne – una rappresentazione, questa, ideata secondo un’ottica relazionale (Marini Barbiani 2011). La soglia è infatti

[...] il luogo simbolico dello scambio e della relazione tra ‘internità’ ed ‘esternità’, uno spazio liminare d’incontro e di scambio, dove può accadere un evento, si esprime una rappresentazione, o costruisce una narrazione (Miodini 2018,124) .

Sulla soglia le donne raffigurate da Ponti danno corpo alla sua idea progettuale:

La porta è l’ospitalità e la casa è un sogno. L’architettura per esse [le donne] non è un cristallo, è una conchiglia. La casa nell’animo, cioè nel giudizio femminile non appartiene solo alle possibili realizzazioni dell’architettura, a quello che è dell’Architetto, ma appartiene a qualcosa di più intimo, anche di impossibile; ad un complesso di desideri e di abbandoni e di bellezze che si pensa non sarà mai appagato. Un sogno (Ponti 1957, 143).

La soglia (finestra o porta) è un dispositivo narrativo, oltre a essere una condizione dello sguardo e ed elemento del rapporto tra visione e linguaggio architettonico. Immaginiamo l’abitante di quelle ideali case al mare ammirare il paesaggio dal tetto-terrazza, vivere quell’intrico di fighe visuali nei luoghi interni all’abitazione, sostare sulla soglia; ebbene queste architetture non ci appaiono forse scandite da una percezione peripatetica dello spazio (Bocchi 2010, 13). La riflessione sul “pittoresco contemporaneo” (Holl 2000; Ábalos 2004; Bocchi 2006; Posocco 2000) stimola un’interpretazione del paesaggio vissuto ed esperito, non semplicemente guardato, che nell’architettura mediterranea pontiana è interpretato secondo una “visione peripatetica”, una visione che coincide con l’elaborazione di una complessa composizione degli spazi caratterizzante la progettazione di Ponti nella seconda metà degli anni Trenta.

All’articolato dimensionamento degli ambienti e ai dislivelli tra i locali di uno stesso piano corrisponde la rappresentazione di figure che abitano l’architettura. Scrive Ponti:

Noi architetti – scrive Ponti (1941) – vogliamo architettando e arredando fare una scena, la migliore possibile, per le azioni, cioè per la presenza degli abitatori (Ponti 1941).

Le figure per lo più femminili che, come nel progetto per Casa Mazzocchi o per lo scultore Martini (Miodini 2001, 193), vediamo salire le scale o affacciarsi dalla galleria superiore aperta sul salone, paiono prendere corpo dalla scultura di Arturo Martini o dalle composizioni pittoriche di Massimo Campigli. Le architetture, scrive Ponti:

[...] sono ideate con invenzione di pittore per creare alla presenza umana un vago scenario e all’occhio un pronto spettacolo (Ponti 1939).

Infine, accennerò al contributo che a fine anni Trenta, quando Parpagliolo e Porcinai sono ormai impegnati nel progetto di parchi e giardini per l’E42, danno alla redazione della rivista Carlo Pagani e Lina Bo (Giovannelli 2017, 229-234) che, dopo essersi laureata a Roma nel 1939 alla scuola di Marcello Piacentini e Gustavo Giovannoni, si trasferisce a Milano, dove inizia un sodalizio professionale con Carlo Pagani. Lina Bo entrata nello studio Ponti, collabora a diverse testate, dirette o ideate da Ponti, “Domus”, “Stile”, “Bellezza,” “Vetrina e negozi”, ma anche periodici di ampia divulgazione come “Grazia”. Se Parpagliolo a metà anni Trenta (1934) elogiava l’architettura rurale caprese, con “le sue terrazze prospicienti il mare, i pergolati per l’ombra, l’orto, il frutteto, un giardino di fiori, viti e pergolati, e l’oliveto che si estende tutto intorno”, con Bo e Pagani l’architettura diventa partecipe di quel clima mitico, sorprendente, che rinnova l’atmosfera mediterranea del paesaggio, guardando alla lezione dell’antica casa mediterranea, con il suo recinto fatto di pietra e di natura. Al paesaggio luogo della storia e della natura alludono i disegni della Casa sul mare di Sicilia (Domus 1940, 30-35) ideata da Lina Bo e Carlo Pagani. In questa terra d’agavi e ulivi, la Magna Grecia è ovunque vivente; nell’atmosfera e nella memoria del paesaggio. 

Letteratura, arte e mito si fondono nella labirintica sovrapposizione di racconti da Ovidio a Plinio il Vecchio, di rievocazioni metafisiche alla De Chirico, di rimandi al repertorio vernacolare, alla bellezza del paesaggio nelle architetture domestiche romane, al mito dell’abitare dei popoli del Mediterraneo.

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  • White 2003
    B. A. White, The Beecher Sisters, New Haven 2003.
English abstract

The period from the end of the 1920s to the beginning of the following decade is characterized in Italy by an intense debate on the reconciliation between innovation and tradition. Gio Ponti's work is a privileged laboratory for experimentation, and the comparison between his design activity and the magazines he directs is essential: a varied system of relationships emerges through the issues of “Domus”, reflecting the creative trajectory and the articulated design methodology of Ponti.
The essay discusses the relationship between architecture and landscape by analyzing a number of Ponti’s projects. The Casa per le Vacanze is a variation of the venetian villa and stands on the harmonoius fusion between the house and the landscape; the Torre Rasini faces a public green space and features a green roof; the Giardino Sant’Anna in Villa del Sole is the project of a garden city which mediates the architectural character of the ancient Italian garden with a modern reinterpretation where literary and artistic suggestions coexist, resulting in a singular interweaving of expressive power and iconographic formula; lastly, his projects for Mediterranean settlements shows the threshold (window or door) as a narrative device, and an element of the relationship between vision and architectural language.

keywords | Gio Ponti; landscape; tradition and innovation; attic floor; city and countryside house.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: Lucia Miodini, Architettura e paesaggio. Luoghi e opere nella cultura progettuale di Gio Ponti, “La Rivista di Engramma” n. 175, settembre 2020, pp. 15-51 | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2020.175.0001