"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

94 | novembre 2011

9788898260393

"Those are pearls that were his eyes"

Storie di naufragi e di migranti, nell'anniversario di The Tempest di William Shakespeare (1 novembre 1611 / 1 novembre 2011)

Monica Centanni, Stefania Rimini

English abstract


 

Ferdinando
Where should this music be? i' the air or the earth?
[…] This music crept by me upon the waters,
Allaying both their fury and my passion
With its sweet air: thence I have follow'd it
Or it hath drawn me rather. But 'tis gone
No, it begins again.

Ariel sings
Full fathom five thy father lies
Of his bones are coral made
Those are pearls that were his eyes
Nothing of him that doth fade
But doth suffer a sea-change
Into something rich and strange
Sea-nymphs hourly ring his knell

Burthen Ding-dong

Ferdinando
Una musica viene su – da dove? dall’aria dalla terra?
[...] si diffonde sulle acque del mare
a calmare insieme la mia furia e il mio dolore
con la sua dolce armonia; ed ecco l’ho seguita,
o piuttosto è stata lei a trascinarmi, ma ora tace.
No, ecco! ricomincia….

canto di Ariel
A cinque tese, giù nel mare, giace mio padre:
coralli sono divenute le sue ossa
fatti perle i suoi occhi;
niente di lui può andare disperso
ma l’incanto del mare tutto può trasmutare
in cosa ricca e strana.
Le ninfe del mare suonano a lutto la campana.

Din don ...

 

È naufrago, ma vivo, Ferdinando, e crede di essere l’unico sopravissuto alla tempesta magica e catastrofica che l’ha sbattuto su una riva dell’isola. Sente una musica… Ariel canta su note dolcissime e struggenti la metamorfosi che il mare fa dei corpi delle sue vittime: perle diventano gli occhi, coralli le ossa…

L’eco di quel canto, cristallino e feroce come ogni elegia, torna a risuonare oggi tra le sponde del Mediterraneo, là dove si piangono naufragi senza incantesimo né incanti, mentre la tempesta continua a battere dentro le vene dei sopravvissuti. I clandestini del mare nostrum coltivano il sogno di una terra giusta, accogliente, partecipe, ma raramente la loro odissea si scioglie in happy end. Per fortuna a volte l’occhio del cinema si riflette nello specchio di acque tanto profonde e inquiete, lasciando ri-emergere volti, storie, voci, altrimenti perdute. È quel che accade nell’ultimo film di Emanuele Crialese, Terraferma, in cui la macchina da presa scruta gli abissi, affonda lo sguardo sotto la superficie, per restituire la forza e lo strazio di corpi affidati all’incantesimo del mare che tutto trasmuta “into something rich and strange”. Stefania Rimini e Monica Centanni propongono due letture del film, diverse e complementari, che valgono entrambe a sottolineare l’urgenza del tema posto da Crialese. Le due prospettive convergono sul giudizio di importanza del film e, nei dettagli critici, almeno su un punto: quel che davvero brucia in Terraferma è il volto di Timnit T., vera naufraga che con il suo sguardo – sigla e cifra dell’opera – dimostra come la finzione elevata al quadrato possa essere, a volte, più vera del vero. Accanto al corpo di Timnit nel film risuona la musica possente della lingua di Mimmo Cuticchio, capace di superare la finzione dello schermo dando vita a uno spettacolo, L’approdo di Ulisse, di cui ci parla lo stesso attore nell’appassionata intervista curata da Anna Banfi. La rapsodia del maestro puparo fa sì che l’odissea dei migranti trovi almeno riparo tra le onde del cunto.

I naufraghi del nostro mare sono privi non solo del rito che dovrebbe purificare le loro morti e della minima pietas civile di un censimento, ma anche di una rappresentazione che consegni le loro storie alla memoria condivisa: il sacrificio di quei corpi, che rischiano di contaminare il nostro "incontaminabile mare" – corpi di cui non si conoscerà mai l’identità e neppure il numero – forse può trovare un senso grazie alla poiesis, cinematografica ed epica, che si sforza di dare dicibilità al presente. Alessandra Pedersoli e Anna Banfi propongono una nuova indicizzazione che mette insieme tutti i contributi pubblicati in "Engramma" che trattano di come il teatro, fin dalle sue origini, si incarichi di riflettere tensioni e passioni del mondo.

Sull’isola shakespeariana invece quel che pare vero non è vero: il padre Antonio e la sua piccola corte sono scampati al naufragio e vagano nell’isola in cui Prospero intesse le sue magie e il canto di Ariel non è un conforto, perché sotto la sua struggente dolcezza punge la nota di crudeltà contro i nemici di Prospero e contro lo stesso, innocente, Ferdinando che piange la morte del padre. Alla violenza del potere che l’ha spodestato dal suo ruolo di Duca di Milano, Prospero reagisce creando un mondo parallelo in cui vince la magia – magia sugli elementi e sugli spiriti, buoni e cattivi, fatti schiavi di un gioco che, come insegna bene Giordano Bruno nel De vinculis, se non è temperato dal progetto e dalla passione per una vita activa, finisce per irretire per primo lo stesso mago, precludendogli il vero gioco del mondo.

Il 1 novembre 1611 al Whitehall Palace di Londra William Shakespeare porta in scena quella che forse è la sua ultima opera. Quel primo, meraviglioso “naufragio con spettatore” cambia la storia del teatro, mostrando tutto l’incanto di “un sogno dentro un sogno”. Il XX secolo riscopre, non solo sul palco ma già nel cinema muto, la magia dell’isola-labirinto, solo apparentemente irrappresentabile. Il saggio di Ivano Mistretta ricostruisce le modalità espressive dei primi esperimenti filmici dedicati a The Tempest, da cui emerge la profonda affinità elettiva tra i mirabilia del nuovo medium e le fantasmagorie shakespeariane, e spinge poi l’analisi a un confronto ravvicinato con l’ultima versione in celluloide dell’opera, il film di Julie Taymor proposto alla Mostra del cinema di Venezia del 2010. Bruno Roberti compie invece un viaggio affascinante dentro i simboli, i luoghi, le voci della Tempesta, intrecciando una rete di testi, forme e linguaggi che fanno scivolare le atmosfere shakespeariane fin dentro le ferite del presente.

A James Hillman, che ci ha lasciato il 27 ottobre 2011, proprio nelle ore in cui stavamo chiudendo questo numero di "Engramma", Daniela Sacco dedica un omaggio che prende spunto da due passaggi in cui il pensiero, tempestoso e sovversivo, del grande filosofo e psicologo americano è stato toccato dai versi incandescenti della Tempesta shakespeariana. "Those are pearls that were his eyes": "Engramma" dedica al Maestro il dolce canto funebre di Ariel.

Questo numero di "Engramma" esce nel quattrocentesimo anniversario della prima di The Tempest, in un tempo in cui in Italia il teatro è un corpo in trincea, uno spazio di immaginazione e resistenza, il luogo in cui può forse brillare la scintilla di una nuova politica culturale. L’occupazione del Teatro Valle di Roma e quella del Teatro Marinoni del Lido di Venezia mostrano a tutti la via di una rivoluzione possibile, fatta di mani, di musica, di idee, di sguardi. Fatta di riabilitazione di spazi e di parole. Il saggio di Andrea Porcheddu traccia un bilancio critico di questi primi quattro mesi di occupazione del Valle, cogliendo le feconde anomalie di un atto che rischia di scuotere le fondamenta della produzione teatrale italiana. Il contributo di Marco Baravalle, uno degli animatori delle rivendicazioni andate in scena durante la 68a Mostra del cinema di Venezia, ha il tono e la forza di un manifesto ed esprime l’esigenza di parole nuove per una nuova mappa culturale della politica italiana. L’immagine di una moltitudine di Calibani che affolla l’isola è la prova che qualcosa si muove dentro i confini della O di legno.

È nel segno della migrazione e della metamorfosi che procede, dunque, questo numero, alla ricerca della verità di corpi in transito verso altri luoghi, o forse verso altre forme di sé. Per tornare ad essere Duca di Milano, Prospero – non a caso fatto Prospera/Helen Mirren nell’ultima mirabile versione cinematografica di Julie Taymor, USA 2010 – deve deporre la sua magia, uscire dall’incantesimo e tornare nella città. Il nostro omaggio a The Tempest va proprio nella direzione di una riconquista delle ragioni della polis contro il degradante spettacolo di un potere antipolitico corrotto, esausto, privo di immaginazione. Mentre la musica di Ariel ci ricorda, con i versi di Moncef Ghachem, che “nulla ferisce la fronte/ come il canto", la scintillante parabola di Prospero si offre al nostro sguardo di cittadini malgrado tutto. Cittadini prima di tutto.

English abstract

Engramma issue no. 94 “Those are pearls that were his eyes” includes contributions by Monica Centanni, Stefania Rimini, Bruno Roberti, Ivano Mistretta, Anna Banfi, Andrea Porcheddu, Marco Baravalle, Daniela Sacco, Alessandra Pedersoli.

 

keywords | Tempest; Terraferma; Cinema; Theatre; Teatro Valle di Roma; Venice; Teatro Marinoni; James Hillman.

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2011.94.0010