Esercizi di confronto tra le Tavole VII, XXX, XXXVII del Geburtstagsatlas di Gombrich e le Tavole 7, 30, 37 del Mnemosyne Atlas
Salvatore Settis, Alessandra Pedersoli, Simone Culotta
English abstract
Premessa
Dalla ricognizione bilbliografica compiuta per lo studio della versione del Bilderatlas di Warburg che Ernst H. Gombrich compone nel 1937 (v. in questo numero di Engramma, una prima edizione digitale dei materiali del Geburtstagsatlas), non sono emersi contributi importanti che mettano a confronto la ratio compositiva delle tavole proposte da Gombrich nella sua selezione per l’“Atlante del compleanno”, rispetto ai pannelli del prototipo di Warburg e collaboratori (Mnemosyne Atlas 1929). Negli ultimi anni, pochi saggi toccano marginalmente il tema dal punto di vista dello stato dei materiali del Bilderatlas (Mazzucco 2011), della relazione Gombrich/Warburg (Mazzucco 2013), del contesto della commissione del Geburtstagsatlas a Gombrich (Wedepohl 2015).
Selezionando contributi mirati, che contengano informazioni e notazioni metodologicamente preziose sulla relazione tra la versione di Gombrich e quella di Warburg, abbiamo raccolto e proponiamo tre esercizi di lettura su tre tavole a confronto: il brano di un saggio di Salvatore Settis sulla storia e i criteri di composizione del Bilderatlas, con un focus particolare su Tavola 7, che lo studioso prende come spunto per riflettere sulle ‘serie politetiche’ proprie del metodo di Warburg (e del tutto neglette nel Geburtstagsatlas di Gombrich); la lettura di Alessandra Pedersoli delle due versioni di Tavola 30; la presentazione di Simone Culotta dell’“Atlante del compleanno” e in particolare una comparazione su Tavola 37. Queste letture costituiscono un primo contributo per avviare un confronto sistematico tra i 24 pannelli della versione di Gombrich (1937) e i 63 pannelli di Warburg & co. (1929).
Un confronto tra Geburtstagsatlas e Mnemosyne Atlas: Tavola VII vs Tavola 7*
Salvatore Settis
Almeno dal dicembre 1927 Warburg aveva annunciato l’intenzione di pubblicare l’Atlante, e già nel 1928 fu stesa una bozza di contratto con l’editore berlinese Frederichsen, De Gruyter & Co. Nel suo ultimo anno di vita, egli presentò Mnemosyne in una conferenza su Die römische Antike in der Werkstatt des Domenico Ghirlandajo tenuta nella Bibliotheca Hertziana il 19 gennaio 1929, in presenza di numerose tavole dell’Atlante allineate tutto intorno (vedi, in Engramma, De Laude 2015); inoltre, per un pubblico più ristretto, tenne quattro ‘visite guidate’ dello stesso materiale (una è la lezione su Manet).
Dopo la morte di Warburg, alla cerimonia commemorativa tenuta nella Biblioteca, la Bing espose e commentò alcune tavole dell’Atlante. Dal 1929-30 in poi comincia il lavoro di Saxl, della Bing e di altri per una pubblicazione imminente, come è chiaro da una lettera all’editore Teubner di Lipsia, lo stesso che stamperà Die Erneuerung der heidnischen Antike. Al IV congresso di Estetica, (Amburgo, ottobre 1930), Edgar Wind parlò nella Biblioteca sul Warburgs Begriff der Kulturwissenschaft und seine Bedeutung für die Æsthetik in presenza delle tavole di Mnemosyne. In un altro congresso ad Amburgo, quello della “Deutsche Gesellschaft für Psychologie” (aprile 1931) Saxl parlò di Ausdrucksgebärden der bildenden Kunst davanti a una serie di tavole dell’Atlante di Warburg. Si ripeteva così la scena della Bibliotheca Hertziana: ed è assai caratteristico che i continuatori di Warburg usassero l’Atlante incompiuto per rendere noti gli scopi e le caratteristiche della Biblioteca, e che lo facessero davanti a un pubblico, rispettivamente, di studiosi di estetica e di psicologi.
L’avvento del nazismo, il trasferimento della Biblioteca e i problemi che seguirono bloccarono anche questo progetto. Uno dei problemi era certamente quello della lingua: pubblicare Warburg in tedesco sarebbe stata la cosa più naturale; ma come farlo, proprio mentre lo sforzo era di integrare il nascente Warburg Institute nel sistema accademico inglese? Si sarebbe potuto fare eccezione – può parerci oggi – per Warburg, ma evidentemente non era così; e ne testimonia la decisione di pubblicare in inglese la Lecture on Serpent Ritual e il fatto che al giovane Gombrich fosse richiesto di approntare, in inglese, un commento a Mnemosyne.
Ma mentre l’inglese era diventato la lingua d’elezione, l’intero staff del Warburg Institute pensava in tedesco, e così anche i fratelli di Warburg, che volevano vedere proseguita l’opera di lui. Perciò la prima cosa che Gombrich fece fu di approntare un’edizione parziale di Mnemosyne con introduzione e commento in tedesco (basati sui testi di Warburg), che Max Warburg ricevette già nel giugno 1937 come regalo di compleanno e anticipazione augurale della pubblicazione imminente. Gombrich aveva selezionato 24 tavole (mentre ne erano previste almeno 79) reimpaginandole con nuovi criteri. Questa edizione rimase anch’essa incompiuta, e totalmente sconosciuta fino al 1983 (anche perché lo stesso Gombrich non la menziona nel suo libro), quando Eric M. Warburg la donò al Warburg Institute. Si può congetturare che questa prima versione in tedesco, una volta completata, dovesse costituire la base dell’edizione a stampa in lingua inglese che era stata assegnata in compito a Gombrich. Da allora in poi, la storia di Mnemosyne è quella delle riproduzioni delle sue tavole. Essa è oggi un oggetto depositato in una sorta di memoria archivistica, ma non è quel messaggio operativo che doveva essere nelle intenzioni dell’autore: più che stimolare nuove strade per la storia dell’arte, provoca lavori di ricostruzione, letteralmente, ‘archeologica’ dello stesso Atlante; insomma, sembra essersi chiusa su se stessa.
Tratterò qui solo uno degli aspetti dei molti che il Mnemosyne Atlas invita a considerare: e cioè la struttura delle tavole e il significato degli accostamenti delle varie immagini. Prenderò come esempio la Tavola 7, e ne metterò a confronto le due versioni: quella di Warburg (1929), e quella approntata da Gombrich nel 1937 [Figg. 1 e 2].
La tavola faceva parte di una serie (Tavole 4-8) dedicate a illustrare le “parole primordiali del linguaggio delle passioni nei gesti” (Urworte leidenschaftlicher Gebärdensprache): gli dèi dell’Olimpo e dell’Ade; le antike Pathosformeln; la Menade e il dionisismo; la guerra, la vittoria e il trionfo; il mitraismo. Guerra, vittoria e trionfo sono il collante tematico della Tavola 7.
Confrontando le due versioni, è subito evidente una differenza non solo nella collocazione, ma nel numero delle immagini: quella di Warburg ne ha 22, quella di Gombrich 13. Vediamo in dettaglio le differenze. Nella versione originaria abbiamo:
1 | una moneta greca di Siracusa con Nike su quadriga;
2 | l’arco di Costantino;
3-4-5 | particolari dell’arco di Costantino: i due rilievi con Traiano in battaglia e Traiano incoronato, e un particolare del fianco, col medaglione dove c’è la quadriga del Sole;
6 | i rilievi interni dell’arco di Tito, con l’imperatore su quadriga e il corteo trionfale dopo la guerra giudaica;
7 | un fianco dell’arco di Costantino;
8 | pittura di Pompei, Casa del Naviglio, con Diana (?) portata in cielo da figura alata;
9 | Victoria di Ostia;
10 | un imperatore bizantino innalzato sullo scudo (miniatura del sec. X);
11 | la Gemma Augustea: vittoria e coronamento di Augusto;
12 | Adriano assiste all’apoteosi della moglie Sabina, trasportata in cielo da una figura alata;
13 | una figura alata trasporta in cielo Antonino Pio e Faustina;
14 | una scena di battaglia (rilievo romano);
15 | Nike presso il cavallo di un imperatore (rilievo tardo-antico);
16 | il Grande Cammeo di Francia (battaglia e coronazione);
17a-b-c | due scene della Colonna Traiana, e un disegno rinascimentale da una delle due;
18 | Apoteosi di Napoleone I (Milano, Andrea Appiani);
19-20 | Monete con tipi del potere imperiale.
L’arco di Costantino – esso stesso luogo di assemblaggio antico di materiali ancora più antichi – domina la tavola, e ne costituisce sia l’asse di focalizzazione che il centro di distribuzione tematica. La quadriga del Sole, data in particolare, evoca da un lato il remoto modello siracusano e dall’altro i rilievi dell’arco di Tito: il legame, che vi è stabilito, fra battaglia e trionfo ‘chiama’ nella tavola la Gemma Augustea e il Grande Cammeo di Francia; il legame fra vittoria, trionfo e apoteosi è ribadito, con forza seriale, dalle monete, e riaffermato nelle apoteosi di Sabina e della coppia imperiale (Antonino-Faustina), accostate a una pittura pompeiana dove una figura alata trasporta in cielo non un Cesare, ma un dio. Il legame fra vittoria e potere sovrumano dell’imperatore torna nelle scene dalla Colonna Traiana, di una delle quali (quella in cui i Daci sembrano messi in fuga dalla sola apparizione di Traiano) è dato anche un disegno rinascimentale. Il ruolo dell’imperatore è riaffermato in due direzioni: la cerimonia germanico-bizantina dell’innalzamento sugli scudi e l’apoteosi di un nuovo Cesare, Napoleone. A un estremo (in alto), la moneta greca appare come un flash-back; all’altro estremo (in basso) il disegno rinascimentale e la ripresa neoclassica consegnano l’antichità romana all’Europa moderna.
La tavola corrispondente assemblata da Gombrich è più ordinata di aspetto, ma ha perso molto per strada. Mancano, fra l’altro, i pannelli dell’arco di Tito, e con ciò si perde l’imperatore in quadriga; manca la pittura pompeiana che offriva un precedente alle scene di apoteosi dei Cesari; mancano le monete (salvo una), e con ciò si perde l’impatto seriale del discorso; mancano le scene della Colonna Traiana, e il relativo disegno rinascimentale. Queste assenze possono servire qui a evidenziare una difficoltà e una domanda: che cosa veramente tiene insieme le figure di una singola tavola di Mnemosyne? Nessun trattato di iconografia raccoglierebbe mai sotto lo stesso lemma le disparate figure della tavola che abbiamo sotto gli occhi.
Sulla base di questo solo esempio, vorrei proporre due diverse e convergenti risposte. In primo luogo, quale è la natura della serie che Warburg in questa tavola ci propone? In generale, possiamo distinguere serie monotetiche, composte da individui che si assomigliano per le stesse ragioni; e serie politetiche, composte da individui che si somigliano per ragioni diverse, come qui nel diagramma che segue, per una certa ‘aria di famiglia’, difficile da definire.
A m n o
B o p q
C q r s
D s t u
A, B, C, D = serie monotetiche
A + B + C + D = una serie politetica
‘Aria di famiglia’ è un termine entrato in uso in questo senso almeno da quando l’antropologo inglese Francis Galton nel 1879 cercò di individuare, mediante la fotografia, quell’indefinibile prossimità fra membri della stessa famiglia che, appunto, ce li fa riconoscere per tali, ma si esprime difficilmente con parole; ma le implicazioni logiche ed epistemologiche sono state analizzate molto tempo dopo da Ludwig Wittgenstein e sono oggi, specialmente per merito di Rodney Needham, al centro del dibattito fra gli antropologi; Carl Ginzburg, da ultimo, ne ha proposto l’uso per le scienze storiche.
Quella della tavola di Warburg è indubbiamente una ‘serie politetica’, e proprio in ciò risiede, mi pare, la difficoltà di intenderne i nessi, se cerchiamo di leggerla, seguendo le normali procedure disciplinari, in base a categorie monotetiche. Una serie monotetica può essere costruita per sola classificazione morfologica; per costruire una serie politetica, occorre integrarla mediante l’ipotesi antropologica. La morfologia warburghiana è costruita sulla base di nessi funzionali, centrati sull’Ausdruck come rapporto fra forma e funzione, con marcate valenze socio-culturali. La serie tematica e funzionale si costruisce intorno a un nucleo minimo ma forte di valori espressivi, che attivano modalità di presentazione affini e sostanzialmente intercambiabili sulla base della prossimità non del tema, ma del sentimento e del valore che lo sostanziano (per esempio, la maestà e il potere del Cesare possono essere espresse mostrandolo mentre o combatte, o calpesta il nemico, o trionfa in quadriga, o è incoronato dalla Vittoria, o è innalzato al cielo fra gli dèi). Il carattere non-disciplinare e politetico della costruzione warburghiana ne rende più difficile la comprensione; ma, una volta individuato, può segnare – lo spero – una nuova strada esegetica.
[...]
Quella che [Warburg] andava intrecciando era ed è una corda tesissima, e sempre prossima a spezzarsi, proprio perché i suoi due estremi sono così lontani l’uno dall’altro. A un estremo, l’autenticità dell’esperienza artistica, in quanto “biologisch notwendig” per l’uomo, il suo ancorarsi profondo al sentimento, il suo slancio espressivo-comunicativo e la sua validità come punto di partenza per intendere la cultura dell’uomo. All’altro estremo, la severità dell’indagine storica e filologica, la ricerca del documento, degli anelli intermedi della catena. La più alta razionalità dell’uomo civilizzato andava usata proprio per scoprire in lui il selvaggio e il bambino. La grandezza di quel progetto, e insieme la ragione della sua intrinseca incompiutezza, è il desiderio di coniugare due dimensioni così distanti come l’intuizione di grandi disegni e parametri storici e la dimostrazione filologica, sperimentata su problemi singoli, che però valessero come altamente rappresentativi di una totalità e – in quanto ‘verificabili’ secondo i criteri in uso nella pratica disciplinare – valessero come ‘prova’ rispetto al disegno di cui erano esperimento e parte. Di qui l’importanza cruciale di una spola continua fra ‘scoperte di dettaglio’ che avessero uno specifico statuto disciplinare, e ‘idee generali’. Sappiamo ora quello che è avvenuto: per gli storici dell’arte calati nella propria disciplina, quello che resta sono le ‘scoperte di dettaglio’ di Warburg, e le ‘idee generali’ tendono a sfumare in remota, e quasi imbarazzante, cornice; per storici delle idee, studiosi di estetica e di filosofia, quelle idee rimandano a linee di pensiero e le singole scoperte di fatto hanno valore solo disciplinare. L’intima unità del lavoro di Warburg va così perduta, e quella sua “scienza senza nome” e senza luogo tende a dissolversi e a biforcarsi in due strade che non comunicano fra loro.
L’uso di Warburg ha preso questa strada soprattutto perché i suoi scritti, per quanto incompiuti, segnano strade radicalmente alternative alla storia dell’arte per come si è sviluppata in questo secolo. La ‘storia dell’arte’ di Warburg non esiste come disciplina a se stante; le istituzioni accademiche si organizzano tipicamente intorno a pratiche autoassertive di autonomia di questa o quella disciplina, mentre la Biblioteca Warburg intendeva proprio negare – o meglio ignorare – un tal principio, collocando non ‘la storia dell’arte’, ma il suo oggetto (le immagini prodotte dall’uomo) entro un percorso conoscitivo assolutamente non-disciplinare. Terminerò con le parole di Huizinga nella recensione all’edizione delle Gesammelte Schriften del 1933:
Malgrado l’altezza del suo spirito e l’eccellenza del suo lavoro, in ampiezza e in profondità, resta intorno alla figura di Warburg qualcosa di tragico, qualcosa di non completamente dispiegato. Uno dei suoi collaboratori parlava del suo animo posseduto dal demone del ‘dar forma’ (“vom Dämon des Gestaltens besessenen Sinn”). E infatti egli intuì le grandi forme e connessioni e seppe evocarle, ma non gli riuscì veramente di operare quel suo Gestalten, e anzi appena cominciò a provarci, limitandosi a quelli che egli stesso chiamava Bohrarbeiten, ‘lavori di sondaggio’ (Huizinga 1933, 366).
Ritroviamo qui quella stessa dialettica fra ‘idee generali’ e ‘lavori da cane da tartufi’ di un appunto autobiografico di Warburg. Quel Dämon des Gestaltens, che incessantemente voleva dar forma alla memoria dell’Occidente, ancora parla attraverso la forza esemplare di quei singoli ‘sondaggi’, ma anche dispiegando (in forma aforismatica nell’Atlante, in forma gerarchica e sequenziale nella Biblioteca) un gran lavoro incompiuto intorno alle ‘idee generali’, alle “grandi forme e connessioni”. Il problema è se riusciamo ad ascoltarlo ancora.
* Estratto da S. Settis, Aby Warburg, il demone della forma. Antropologia, storia, “La Rivista di Engramma” 100 (settembre/ottobre 2012).
Nell’organizzazione dei montaggi di Mnemosyne, Aby Warburg dedica un gruppo di tavole all’analisi di alcuni temi iconografici. Nelle Tavole che vanno dalla 28-29 alla 36 sono presenti temi come la rappresentazione della figura in movimento, della danza, delle immagini devozionali, delle divinità greco-romane, dell’arte cortese. Se a un primo sguardo le tavole possono apparire come presentazioni di serie iconografiche che sviluppano l’evoluzione e la fortuna di un dato tema o soggetto, approfondendo l’analisi si può osservare come l’occhio di Warburg non si concentri tanto sulla fortuna o la tradizione delle immagini nei diversi contesti, ma in specifico queste siano il pretesto per isolare i modi e i meccanismi della loro trasmissione. Trasmissione che – analizzando ogni singolo pannello – non avviene quasi mai linearmente, ma attraverso riemersioni in aree geografiche e culturali anche lontane e mediante supporti inconsueti. Nelle otto tavole di Mnemosyne raggruppabili nel percorso che il Seminario Mnemosyne ha denominato “Veicoli della tradizione” sono messi in evidenza:
Modi e forme della tradizione culturale: le immagini sono veicolate da media materiali (manoscritti di testi antichi allegorizzati, oggetti d’uso come cassoni e arazzi) e immateriali (feste e rituali folklorici intesi come “forme intermedie tra vita e arte”) (Seminario Mnemosyne 2004).
Si tratta dunque di alcuni media particolarmente maneggevoli che, nei meccanismi di trasmissione nell’arte delle corti, nel passaggio dal linguaggio medievale a quello rinascimentale, sono privilegiati rispetto ad altri: è il caso delle miniature, delle medaglie, delle monete, degli arazzi. Nei montaggi sono selezionati quei soggetti e temi iconografici che da Nord a Sud, da Oriente a Occidente, figliano in numerose varianti o migrano sino a riemergere in contesti culturalmente lontani.
Nella Tavola 30 di Mnemosyne [Fig. 3] Aby Warburg intreccia il tema della derivazione iconografica del profilo di Giovanni VIII Paleologo nella produzione artistica occidentale – qui sostanzialmente italiana tra il 1438 e il 1492 – con in incipit il medium che sta all’origine della fortuna della diffusione del ritratto dell’imperatore. L’appunto sulla tavola recita: “Piero della Franc. Monumentalisierung und Distanzierung. Dazu Gozzoli. Paleologus”, sottolineando da subito sia i principali artisti sui quali Warburg concentra l’analisi, sia il tema iconografico guida – il ritratto di Giovanni VIII Paleologo –, sia individuando i due poli semantici – monumentalizzazione e distanza – che orientano il montaggio.
La tavola presenta in apertura la medaglia all’antica di Giovanni VIII Paleologo che Pisanello esegue dopo il Concilio di Ferrara-Firenze del 1438-1439, ritraendo due volte il sovrano: nel recto di profilo con lo skiadion – il tradizionale copricapo bizantino – e la titolatura, e nel verso l’imperatore a cavallo con davanti a sé una croce. L’altra immagine incipitale è una riproduzione ottocentesca ad acquerello della Battaglia di Costantino contro Massenzio di Piero della Francesca ripresa da Johann Anton Ramboux. Nel secondo registro dall’alto compare un altro acquerello dell’artista tedesco dal ciclo di Arezzo di Piero: la Battaglia dell’imperatore bizantino Eraclio contro il re persiano Cosroe II (i due dipinti, realizzati attorno al 1843 sono oggi conservati alla Düsseldorfer Akademie). Accanto alla riproduzione dello scontro tra Eraclio e Cosroe II, Warburg inserisce una immagine fotografica (in cui è ben visibile nella ripresa l’angolo della parete sinistra e la cornice divisoria superiore) della Battaglia di Costantino contro Massenzio di Piero, dal ciclo aretino della Chiesa di San Francesco, che l’artista di Sansepolcro sviluppa durante un arco cronologico piuttosto ampio tra il 1447 e il 1466. Lo schema compositivo dei dipinti di Piero riprende le due battaglie in uno stile completamente diverso: concitato il primo, pacato e risolto il secondo. La Battaglia di Costantino contro Massenzio è presente nella tavola in due versioni diverse: Warburg ricorre al dispositivo della duplicazione che spesso si ritrova nelle tavole di Mnemosyne e che qui sovverte l’ordine cronologico: in alto – accanto alla medaglia di Pisanello da cui lo studioso deriva il riconoscimento del ritratto di Giovanni VIII Paleologo nel personaggio di Costantino – è la riproduzione della variante più recente a opera di Ramboux.
Il tema del ritratto del penultimo imperatore romano – nelle due varianti: ritratto di profilo col capo coperto dallo skiadion nel recto e rappresentato a tutta figura a cavallo nel verso – occupa il lato destro della tavola con tre riproduzioni: le prime due, dalla Cavalcata dei Magi di Benozzo Gozzoli (dipinto tra il 1459 e il 1461 per la cappella di Palazzo Medici-Riccardi a Firenze) celebrano la gloria della famiglia di Cosimo il Vecchio, principale regista della politica fiorentina, dipingendo nei tre Re Magi a cavallo il ritratto del nipote ed erede Lorenzo, l’imperatore Giovanni VIII e Giuseppe – patriarca di Costantinopoli (o forse Sigismondo di Lussemburgo, imperatore del sacro romano impero). Chiude la sezione una riproduzione dell’affresco con il Ritrovamento e riconquista della Vera Croce di Antoniazzo Romano, realizzato attorno al 1492 nell’abside della chiesa di Santa Croce in Gerusalemme a Roma. Nella composizione, tra il gruppo che affolla la scena, si riconosce il nuovamente Giovanni VIII, questa volta non a cavallo e non a rappresentare se stesso, ma come figura di sovrano orientale, ormai tipizzata nel profilo del Paleologo e il suo cappello a punta (sulla fortuna dell’iconografia di Giovanni VIII Paleologo nella seconda metà del Quattrocento si vedano in Engramma Pedersoli 2001 e la Galleria delle immagini dedicata, Pedersoli [2001, 2007] 2013).
Dal ciclo delle Storie della vera Croce di Arezzo, Warburg include in Tavola 30 anche il Sogno di Costantino, che colloca nel montaggio a chiusa del lato sinistro, in dialogo sia con le scene di battaglia delle fasce superiori, sia con il tema presentato da Antoniazzo Romano.
In Tavola 30 di Mnemosyne si trovano così a intrecciarsi il tema della fortuna iconografica del ritratto di Giovanni VIII Paleologo, a partire dal medium della medaglia pisanelliana fino alla sua riemersione come segno distintivo orientaleggiante, attraverso lo snodo tematico della Battaglia di Costantino contro Massenzio delle Storie della Vera Croce di Piero, che per prima qui ne veicola l’immagine: nelle insegne degli eserciti è esplicitata e auspicata la vittoria della cristianità sui Turchi di Maometto II (sulla datazione degli affreschi in relazione alla caduta di Costantinopoli rimando a Centanni, Pedersoli 2006). Warburg, accostando la medaglia alla versione ripresa da Ramboux, ne dichiara da subito la forza e la resistenza nella distanza temporale. La distanza è anche il tema del confronto tra lo stile monumentale di Piero e quello cortese di Benozzo Gozzoli, ma anche tra le due battaglie di Piero (una citata, l’altra evocata attraverso Ramboux) che si distinguono in forza del vuoto centrale che la croce provoca tra la figura di Costantino e l’esercito di Massenzio in fuga.
Quando Gombrich si accinge a rivedere il montaggio di Tavola XXX per il Geburtstagsatlas [Fig. 4] è subito evidente – oltre che la presenza delle didascalie – la diversa collocazione delle immagini: in apertura non più la medaglia, ma i due acquerelli di Ramboux accostati; nel secondo registro la ripresa in sequenza dell’affresco di Piero e quindi, accanto, la medaglia. Rimane nella stessa posizione la riproduzione del Sogno di Costantino mentre i due particolari dalla Cavalcata dei Magi sono spostati a chiudere il montaggio. Infine Gombrich elimina la riproduzione dell’affresco con le Storie della Vera Croce di Antoniazzo Romano.
Nelle note accompagnatorie della tavola, si legge come Gombrich identifichi proprio nell’interpretazione iconologica in chiave anti-turca il tema prevalente del montaggio:
In Piero de la Francesca hat diese Umwelt ihre monumentale Gestaltung gefunden. Warburg hat nachgewiesen, dass seine berühmten Fresken der Konstantins-Schlacht in Arezzo eine gleichzeitige Wirklichkeit spiegeln und ein Appell an die Zeitgenossen sein wollen (Gombrich [1937] 2017).
In Piero della Francesca questo ambiente ha trovato la sua forma monumentale. Warburg ha dimostrato che i suoi famosi affreschi della Battaglia di Costantino ad Arezzo riflettono una realtà contemporanea e vogliono fare appello ai suoi contemporanei (Gombrich [1937] 2017).
Per Gombrich le copie di Ramboux risultano dunque utili non tanto come testimoni della fortuna del ritratto del Paleologo, ma perché meglio conservate rispetto agli originali di Piero e quindi più funzionali alla lettura delle iconografie e del contesto anti-turco che mostrano:
In Ramoux’ [sic!] Kopien, die einen besseren Erhaltungszustand wiedergeben, wird deutlich, dass Piero in Konstantin, dem Beschuetzer der Christenheit, nach Tracht und Zuegen den byzantinischen Herrscher Johannes Paleologos dargestellt hat, der ve gebens [sic!] mit seinem Gefolge nach Ferrara und Florenz gekommen war, um die Kirchenspaltung zu ueberbruecken und so die gesamte abendlaendische Christenheit zum Kampf gegen die Tuerken aufzurufen, die Konstantinopel bedrohten (Gombrich [1937] 2017).
Nelle copie di Ramboux, che mostrano un migliore stato di conservazione, diventa chiaro che in Costantino, il protettore della cristianità, Piero ritraeva il governatore bizantino Giovanni Paleologo secondo i costumi e le dinamiche che erano giunti a Ferrara e Firenze con il suo corteo per superare lo scisma della Chiesa e quindi chiamare tutta la cristianità occidentale per combattere i Turchi, che minacciavano a Costantinopoli (Gombrich [1937] 2017).
L’importanza della visita in Italia di Giovanni VIII si risolve per Gombrich nel contrasto tra l’immaginario cortese, profondamente colpito dalle ricche fogge esotiche degli abiti e la sobrietà delle scene di Piero:
In der fremden Kleidung dieser Griechen sah man die antike Tracht lebendig, wie ihre Bildung der begehrte Schlüssel zur antiken Bildung wurde. Auch Gozzolis Koenige aus dem Morgenland im Medici Palast, sind eine Erinnerung an Pracht und Buntheit ihres Aufzugs, aber waehrend dort die erzaehlerische Freude am modischen Detail ueberwiegt, strebt Piero zur Gestaltung der antiken Szenen von innen heraus (Gombrich [1937] 2017).
Nell’abbigliamento straniero di questi Greci, si vede l’antico costume vivo, poiché la loro cultura era divenuta l’ambita chiave dell’antica cultura. Anche i re d’Oriente in palazzo Medici sono un ricordo dello splendore e della vivacità della sua sfilata, ma mentre la gioia narrativa del dettaglio alla moda prevale, Piero si sforza di progettare le scene antiche dall’interno (Gombrich [1937] 2017).
Per Gombrich è quindi nell’esibizione autorevole del segno della croce che si risolve il montaggio, amplificata anche nella distanza che si crea tra i due eserciti di Costantino e Massenzio:
Nicht durch die antikische Gewaltgebaerde triumphierenden Ueberreitens siegt Konstantin Paleologus. Wie dem Schlafenden in der Stille der Nacht der Engel das heilige Zeichen nennt, unter dem er siegen wird, so scheint in der Schlacht vom Kreuze ein heiliger Schrecken auszugehen. Feierlich haelt es der Kaiser vor sich hin, kein Feind kommt ihm nah. Maxentius flieht jenseits des Flusses mit seinen asiatischen Bogenschuetzen, eine deutliche Anspielung darauf, wer gemeint ist. Und zwischen den Heeren betont die wunderbare Landschaft jene Distanz, die der überirdischen Wirkung des Kreuzes zukommt (Gombrich [1937] 2017).
Costantino Paleologo vince non attraverso l’antico gesto di violenza del cavalcare trionfante. Come al dormiente nel silenzio della notte l’angelo menziona il segno sacro sotto il quale vincerà, così nella battaglia della croce sembra emanare un santo terrore. L’imperatore lo tiene solennemente a sé, nessun nemico gli si avvicina. Massenzio fugge dall’altra parte del fiume con i sui arcieri asiatici, una chiara allusione a chi si intende. E tra gli eserciti, il meraviglioso paesaggio enfatizza quella distanza che ottiene l’effetto soprannaturale della croce (Gombrich [1937] 2017).
La diversa collocazione delle immagini e l’eliminazione dell’opera di Antoniazzo Romano cambia in maniera sostanziale l’impaginazione della tavola. Il focus qui si concentra su uno solo dei temi indicati da Warburg nel montaggio destinato a Mnemosyne: Piero e la natura monumentale della sua pittura in contrasto con le tendenze più “alla moda” di Benozzo Gozzoli e la distanza che l’aura della croce proietta nelle sue composizioni. Del tutto eliminata è invece, nel montaggio di Gombrich, la riflessione che Warburg innesca sulla fortuna dell’immagine di Giovanni VIII Paleologo che, a partire dalla medaglia di Pisanello, viene poi a declinarsi secondo modalità che esulano dalla rappresentazione di Paleologo/Costantino, in contesti anche molto lontani geograficamente e cronologicamente.
Può risultare utile mettere a confronto con la versione originale del Bilderatlas Mnemosyne la versione in 24 pannelli redatta da Ernst Gombrich con la supervisione (o meglio su incarico) di Gertrud Bing e Fritz Saxl nel 1937. Com’è noto, quando Warburg morì di attacco cardiaco, il 26 ottobre del 1929, l’impegno primario dei suoi collaboratori, prima di tutto di Gertrud Bing, era quello di completare e portare alla luce quella che era considerata la summa del lavoro del loro maestro. Gli anni successivi alla morte di Warburg furono però occupati dal trasferimento della biblioteca e di tutti i materiali fotografici a Londra. A partire dal 1936 Gombrich fu invitato ad assistere alla redazione di una possibile pubblicazione del Nachlass, un compito che però non portò mai a termine (Wedepohl 2015, 132). L’incarico fu alquanto complesso, specialmente a causa della grande quantità di drafts, jottings, frammenti di pensiero abbandonati da Warburg lungo la via (e questo fu problematico, secondo dichiarazioni dello stesso Gombrich, anche per la formulazione della Intellectual Biography):
A large proportion of [Warburg’s] literary remains turned out to be drafts, jottings, formulations and fragments abandoned on the way to the finished work. […] Many of the notes were in headline form, indicating certain images or examples which Warburg wanted to adduce, and many of them recurred again in kaleidoscopic fashion. The problem of how to edit such papers seemed to me formidable. Yet without their edition the collection of photographs which form the Atlas would also remain unintelligible and unitiated (Gombrich in Wedepohl 2015, 135).
Questa rimarrà la preoccupazione principale di Gombrich e, evidentemente, anche la ragione per cui non verrà portato a termine il progetto di una pubblicazione della sua versione dell’Atlas: gli innumerevoli frammenti che formavano l’universo concettuale di Warburg non erano pubblicabili e l’Atlante era una naturale conseguenza di questi, non poteva essere compreso altrimenti; dunque, neanche Mnemosyne sarebbe risultato “intellegibile” (Wedepohl 2015, 135):
After just four weeks of struggling through the opaque language of Warburg’s papers Gombrich concluded that the Bilderatlas was not publishable. […] Despite his reservation, Gombrich continued his work on the edition of the Atlas, confident that ‘something’ would come out of it (Wedepohl 2015, 136-137).
La versione del cosiddetto Geburtstagsatlas esiste oggi in originale al Warburg Institute, restituito da Eric Warburg nel 1984, e in copia 1:1 al Warburg-Haus di Amburgo. È chiamato “Atlante del giorno del compleanno”, appunto perché fu confezionato come dono a Max Warburg, in occasione del suo settantesimo compleanno. Questa versione rimane dunque un adattamento privato, e probabilmente anche una bozza per una possibile idea editoriale.
Già dal primo sguardo si intuisce che il Geburtstagsatlas è composto secondo un metodo di visualizzazione che differisce in modo sostanziale dalla versione di Warburg. La spaziatura fra un’immagine e l’altra, ma anche l’ordine simmetrico con cui le varie immagini e didascalie vengono organizzate, è il risultato di una vera e propria deformazione concettuale operata autonomamente da Gombrich. Per altro non si può escludere che il nuovo arrangiamento essendo stato eseguito su incarico (e con tutta probabilità sotto la supervisione) di Gertrud Bing, possa rispecchiare qualcosa delle impostazioni originalmente decise per l’impaginazione finale dell’opera, delle quali abbiamo perso notizia essendosi conservate soltanto le lastre fotografiche dello stato provvisorio del lavoro, datato al 1929.
Non è escluso che l’impaginazione definitiva dell’edizione dell’Atlante prevedesse, ad esempio, un layout simile a quello proposto da Gombrich: sfondo bianco, titoli per ogni tavola e didascalie sotto ogni immagine/gruppo di immagini. È noto, infatti, che la versione con immagini montate su tessuto nero, preferita da Saxl, non era considerata definitiva dallo stesso Warburg (Wedepohl 2015, 138-139). Del resto l’impaginazione era anche suggerita dal formato editoriale corrente, dal momento che dagli inizi del ’900 erano già in circolazione vari Bilderatlanten, come quello di Willhelm Testorp del 1909 (al tempo frequentemente utilizzati nelle scuole) [Fig. 5].
Fin dalle prime righe introduttive della versione del 1937, Gombrich focalizza l’attenzione sull’opera di Kant, studiata da Warburg, “Was Heisst sich im Denken orientieren?”, del 1786, in cui viene trattato l’argomento della relazione dell’individuo con l’ambiente circostante:
Der Begriff Orientierung hat für Warburg im Anschluss an Kants Aufsatz “Was heisst sich im Denken orientieren?” sehr allgemeinen Charakter. Er ist ihm der Überbegriff für jede bewusste Beziehungnahme [sic!] des Menschen als eines Individuums mit der Umwelt im engeren oder weiteren Sinn. Erst dadurch, dass der Mensch eine Umwelt durch Zeichensetzung konstituiert – vermag er sein Ich von diesem “nicht Ich” zu distanzieren (Gombrich [1937] 2017).
Con l’invenzione della tecnica l’uomo ha creato un filtro di separazione tra se stesso e quello che lo circonda; ciò consente una padronanza su cose e oggetti che costituiscono il suo ambiente, contribuendo in modo essenziale alla formazione della consapevolezza di sé. Il processo di separazione della coscienza dall’ambiente permette di acquisire la distanza necessaria all’orientamento:
“Denkraum” nennt Warburg diese gewonnene Distanz zur Umwelt, Denkraumschöpfung den konstituierenden Akt jeder ontogenetischen und phylogenetischen Entwicklung (Gombrich [1937] 2017).
Lo spazio generato da questa separazione viene chiamato da Warburg Denkraum, spazio per il pensiero (sul Denkraum come “spaziatura del pensiero” v. Centanni 2010; sulla relazione tra Denkraum e Zwischenraum v. Cirlot 2017). Gombrich interpreta questo “processo di presa di distanza” come “principio agente essenziale e la finalità sia della filogenesi che dell’ontogenesi”, nel senso di un “conseguimento della distanza rispetto al mondo circostante”.
Anche nell’impaginazione della sua versione dell’Atlante, Gombrich riflette il pregiudizio di un Warburg psicologicamente frammentario, inintelligibile se non viene riordinato nelle sue idee come nei suoi montaggi. La versione a sfondo bianco di Gombrich viene infatti depurata, ad esempio, dei ritagli di giornale, e le immagini vengono re-impostate secondo misure e proporzioni controllate. In alcuni casi, come in Tavola 42, viene posto l’accento sulla Pietà di Cosmè Tura (la lunetta del Polittico Roverella in San Giorgio a Ferrara, ora al Musée du Louvre), opera che si impone come gerarchicamente sovrastante le altre: ma così la ratio compositiva della stessa tavola, come registrata nella versione warburghiana fotografata nel 1929, viene completamente tradita [Figg. 6 e 7].
L’impressione generale è che le tavole warburghiane si presentano a Gombrich come brandelli di un tessuto essenzialmente mal costruito, mancante di connessioni logiche necessarie alla lettura:
Gombrich remained unconvinced that Warburg had defeated his anxieties after five years in clinics and assumed that he was not in fact healed when he was discharged from Ludwig Binswanger’s sanatorium in 1924 (Wedepohl 2015, 136).
Il tipo di collocazione nello spazio scelto da Warburg, la relazione spesso ‘obliqua’ fra i dati raccolti, appare a Gombrich la prova di un difetto fondamentale di controllo dei dati nel procedimento di indagine storica dello studioso amburghese. Questo è evidente ad esempio se si osserva la versione che Gombrich propone di Tavola XXXVII, nella quale lo spazio viene completamente stravolto e semplificato, tanto da rendere il montaggio del 1937 quasi irriconoscibile rispetto all’originale.
Nella versione semplificata viene elaborata una forma sequenziale e lineare, essenzialmente organizzata su registri orizzontali, da sinistra a destra, e a sviluppo verticale, dall’alto verso il basso. La versione di Warburg si lascia leggere per insiemi, intersecati l’uno con l’altro, che presentano le intrecciate irruzioni dell’antico nei contesti di diverse città rinascimentali (Venezia, Perugia, Firenze, Roma) [Fig. 8]; nella versione di Gombrich gli insiemi risultano ridotti a tre gruppi, ciascuno costituito da quattro immagini e introdotto dalla riproduzione dei modelli tratti dagli antichi sarcofaghi. Nella prima riga, troviamo le opere di Jacopo Bellini, Vittore Carpaccio, Giovanni Boccati e Gaudenzio Ferrari, una ciascuno. La seconda e la terza fila sono occupate dalla figura di Eracle del Pollaiolo e dal suo Ratto di Deianira; in fondo troviamo il Ratto di Elena di Gozzoli. Mancano le opere della Scuola di Mantegna, dello stesso Mantegna, di Lorenzo Costa (che vengono però menzionati nel commento esplicativo allegato alla tavola) [Fig. 9].
Nel montaggio di Gombrich il tema di Tavola XXXVII che negli appunti di Warburg e collaboratori è enunciato come “Eindringen der Antike als Plastik. Archäologische Zeichnung” (“Irruzione dell’antico come scultura. Disegno archeologico”; v. Tavola 37 nell’edizione di Mnemosyne Atlas in Engramma) non risulta soppresso, ma è presentato come depurato della sua complessità.
Leggendo, anche per campioni, la versione di Gombrich si comprende come una traduzione troppo controllata, troppo ordinata di Mnemosyne di fatto finisce per dissipare le sfumature di senso e disarticolare la scrittura “politetica” dell’Atlante (così Settis 2012) che è non solo elemento di fascino labirintico di Mnemosyne, ma anche un elemento costitutivo importante del dispositivo euristico che il Bilderatlas presenta. Discrepanze e suture formalmente e concettualmente ‘sporche’ fra le immagini, che indicano le fratture dell’indagine, la ramificazione dei sentieri di un metodo a cui Warburg voleva dare, fra gli altri, il nome di ‘psicologia della storia”.
Bibliografia
- Agosti, Farinella 1984
G. Agosti, V. Farinella, Calore del marmo. Pratica e tipologia delle deduzioni iconografiche, in Memoria dell’antico nell’arte italiana, vol. I, L’uso dei classici, a c. di S. Settis, Torino 1984, 373-444. - Centanni 2010
M. Centanni, Passagenwerke per Mnemosyne: montaggio di immagini e spaziature del pensiero, “Aisthesis” II/2 (2010), 15-30. - Centanni, Pedersoli 2006
M. Centanni, A. Pedersoli, Costantino (XI) contro Maometto (II) a Ponte Milvio. Nota sulla cronologia della Battaglia di Costantino e Massenzio di Piero della Francesca, “La Rivista di Engramma” 52 (novembre 2006), 1-18. - Cirlot 2017
V. Cirlot, Zwischenraum/Denkraum. Oscilaciones terminológicas en las Introducciones al Atlas de Aby Warburg (1929) y Ernst Gombrich (1937), “La Rivista di Engramma” 150 (ottobre 2017), 409-432. - Culotta 2016
S. Culotta, Teche dialettiche. Un dispositivo per l’esposizione, tesi di laurea magistrale, Università Iuav di Venezia, a.a. 2015-2016. - De Laude 2015
S. De Laude, Aby Warburg, Die römische Antike in der Werkstatt Ghirlandaios. Traccia della conferenza alla Biblioteca Hertziana di Roma (19 gennaio 1929), con una Nota al testo, “La Rivista di Engramma” 119 (settembre 2014), 8-29. - Gombrich [1937] 2017
E.H. Gombrich, Geburtstagsatlas für Max M. Warburg (5 June 1937), v. la pagina web The Warburg Institute Archive; una prima edizione digitale a c. del Seminario Mnemosyne, coordinato da M. Centanni, A. Fressola, M. Ghelardi, “La Rivista di Engramma” 151 (novembre/dicembre 2017), 11-78. - Huizinga 1933
J. Huizinga, Een cultuurwetenschappelijk laboratorium, “De Gids” 97 (1933), 363-367. - Mazzucco 2011
K. Mazzucco, The work of Ernst H. Gombrich on the Aby M. Warburg fragments, “Journal of Art Historiography” 5 (2011). - Mazzucco 2013
K. Mazzucco, Images on the Move: Some Notes on the Bibliothek Warburg Bildersammlung (Hamburg) and the Warburg Institute Photographic Collection (London), “Art Libraries Journal” 38/4 (2013). - Pedersoli 2001
A. Pedersoli, Giovanni VIII Paleologo: un imperatore e il suo ritratto. Profili e suggestioni, potenza e fortuna di un’immagine, “La Rivista di Engramma” 9 (giugno 2001), 7-20. - Pedersoli [2001, 2007] 2013
A. Pedersoli, Galleria delle immagini di Giovanni VIII Paleologo: un aggiornamento, “La Rivista di Engramma” 104 (marzo 2013), 46-49. - Settis 2012
S. Settis, Aby Warburg, il demone della forma. Antropologia, storia, “La Rivista di Engramma” 100 (settembre/ottobre 2012), 269-287. - Wedepohl 2015
C. Wedepohl, Critical Detachment: Ernst Gombrich as Interpreter of Aby Warburg, in U. Fleckner, P. Mack (eds.), The Afterlife of the Kulturwissenschaftliche Bibliothek Warburg. The Emigration and the Early Years of the Warburg Institute in London, Vorträge aus dem Warburg-Haus, Hamburg, Bd. 12, Berlin 2015, 131-164.
English abstract
Since the bibliographic survey carried out for a study of the Geburtstagsatlas composed by Ernst H. Gombrich for Max Warburg in 1937 (see in this issue of Engramma, A first digital edition of the Geburtstagsatlas materials), no important contributions have come to light that compare the compositional rationale of the plates that Gombrich proposed in his selection for the “Birthday Atlas” with the panels of the prototype by Warburg and his collaborators (Mnemosyne Atlas 1929). In recent years, several essays have marginally touched on the subject from the point of view of the state of the materials of the Atlas, the relationship between Gombrich and Warburg, and the context of Gombrich being commissioned for the Geburtstagsatlas. By selecting targeted papers, which contain methodologically valuable information and notations on the relationship between Gombrich’s version of the Atlas and Warburg’s, we have collected and here suggest three exercises in comparing and reading the panels: a paper by Salvatore Settis on the history and compositional criteria of the Bilderatlas with a particular focus on Panel 7, which the scholar took as the starting point to reflect on the polythetic series of Warburg’s method (completely neglected in Gombrich’s version); Alessandra Pedersoli’s reading of the two versions of Panel 30; Simone Culotta’s presentation of the “Birthday Atlas”, and in particular, the comparison of the two different versions of Panel 37. These three readings constitute a first contribution for a systematic comparison between the 24 panels of Gombrich’s version (1937), and the 63 panels of the Bilderatlas by Warburg & collaborators (1929).
keywords: Geburtstagsatlas; Atlas Mnemosyne; Gombrich; Warburg; Panel 7; Panel 30; Panel 37
To cite this article: S. Culotta, A. Pedersoli, S. Settis, Esercizi di confronto tra le Tavole VII, XXX, XXXVII del Geburtstagsatlas di Gombrich e le Tavole 7, 30, 37 del Mnemosyne Atlas, “La Rivista di Engramma” n.151, novembre-dicembre 2017, pp. 91-119 | PDF