Poesia verbovisionaria
Editoriale di Engramma n. 145
a cura di Fabrizio Bondi e Andrea Torre
English abstract
"The area of poetry must be constantly re-created"
Brion Gysin
Questo numero di Engramma nasce dalla rielaborazione degli interventi pronunciati nel contesto del convegno "I verbovisionari. L’altra avanguardia tra sperimentazione visiva e sonora", tenutosi alla Scuola Normale Superiore il 24 e 25 Novembre 2016.
A propria volta, esso voleva configurarsi come un esperimento, un coup de dés, uno strano e vorremmo dire felice convergere di studiosi di diversa formazione disciplinare e appartenenza generazionale attorno a un’idea comune: non forse un concetto solidificato, storicizzato, quanto magari un fantasma, un’immagine di desiderio, abbastanza concreta però per quanto complessa e com-plicata. Un’idea di Avanguardia, certo, che non rinnegasse a priori nessuna declinazione ‘storica’ né tantomeno ‘neo’ del termine, pur essendo tuttavia collocata in una dimensione almeno parzialmente altra. Definire il senso di questa alterità, assunta appunto quale non scontata ipotesi sperimentale, era una delle poste in gioco del nostro azzardo. In più, ambientare nelle aule nobilmente paludate della Scuola Normale, tra le venerande pergamene di antichi manoscritti (non del tutto disabituati, per accidens, al contatto con le arti contemporanee) discorsi su pratiche che spesso si posero come dichiaratamente antiaccademiche, antifilologiche, per non dire talvolta eccentriche fino alla beffa più o meno neodada, aggiungeva un tocco avventuroso all’operazione: ma anche per tale location, lo vedremo, non mancavano ragioni di maggiore momento. Infine, si aggiunga una buona misura di spiazzante e forse spiazzata transdisciplinarietà, certo rinfrescante rispetto alla stretta osservanza specialistica di simili occasioni convegnistiche, ma più che altro imposta dalla natura stessa degli oggetti presi in considerazione.
Eccoci dunque all’inseguimento di quell’eteroclita genìa di sperimentatori inclassificabili e spericolati che nel secondo Novecento italiano si sono spinti ai confini della poesia e più in generale del linguaggio. E l’hanno fatto ponendosi come trasversali nella sostanza quando non estranei ai Gruppi (che pure frequentarono), alle ideologie (che talvolta condivisero), alle parole d’ordine (delle quali sempre diffidarono) ma soprattutto come ‘marginali’ rispetto al Potere accademico, culturale o al Potere tout court. Trasversali o di taglio si posero essi anche rispetto al sistema delle arti, invadendo campi e stringendo alleanze inaspettate con musicisti, pittori, teatranti, filmmakers, ed esercitandosi essi stessi in ‘altre’ arti.
Generazionalmente, essi furono quasi tutti pionieristici abitatori di un’esplosione mediale che noi conosciamo bene nei suoi effetti e nei suoi sviluppi. Tuttavia, non si può interpretare la loro multimedialità come puramente ‘reattiva’, dimenticando la profonda riflessione che stava dietro alla forse utopistica convinzione che la poesia, restituita al suo originario etimo demiurgico, potesse farsi medium totale. Due figure, entrambe esemplari per quanto distanti, di questa sperimentazione a 360 gradi e insieme di questa consapevolezza sono quelle di Adriano Spatola e Gianni Toti, qui rappresentate da due dei loro studiosi principali e custodi di memoria ed eredità (Beppe Cavatorta e Silvia Moretti).
Il taglio visivo/sonoro da noi privilegiato riduce comunque il campo, ma si pone anche in qualche modo come sineddoche rispetto alla poesia totale preconizzata da Spatola in un suo libro importantissimo. Qui ci si ‘accontenta’ soprattutto di sondare le possibilità che la Lingua sprigiona da sé qualora la si forzi alle sue due polarità estreme, visiva e sonora. Parola come Immagine, dunque, e Parola come Suono. Un’altra caratteristica degli autori che costituiscono il nucleo fondante di questa raccolta di saggi è l’attenzione alla performatività della poesia, sia in senso materiale – molti di loro furono più o meno brillanti esecutori e metteurs en scène delle loro composizioni –, sia in senso teorico (come si vede già dai titoli del saggio di Marco Berisso e del saggio di Beppe Cavatorta), nell’accezione derridiana di una clôture de la répresentation. O meglio, più precisamente: di una ouverture de la répresentation che però non fosse più mimetica; una poesia come azione, in un certo senso, e ancor più come Atto o Gesto in perenne sfida con il Significato e con il Senso, in una tensione verso l’informale che però non giunse mai – ci pare – alla totale distruzione del Segno.
Esemplare in questo senso la figura di Emilio Villa, al quale si è deciso di dedicare uno spazio un poco maggiore rispetto agli altri, ma non allo scopo di declinare una anche minima genealogia (Villa generò Spatola e Costa, che generarono Niccolai e Pasotelli...); e non solo perché Villa si pose come padre decisamente antiedipico. Le gerarchie, le genealogie e le cartografie delle cosiddette avanguardie sono non solo da fare, ma spesso anche da disfare e rifare. Alessandro Giammei nel suo saggio ci ha restituito ad esempio, con il grimaldello di una metodologia gender non autoriferita, l’autonomia, il gradiente di bruciante intelligenza e la profondità nascosta alla superficie della pratica poetica di Giulia Niccolai, ripuntando sul nostro lo sguardo che stava dietro l’obiettivo, ed era dunque assente, nelle ‘foto di gruppo’ dal ’63 in poi.
Se si è concessa la sala grande a Villa non è stato nemmeno soltanto per allinearci al riconoscimento di un ‘valore’ che è in effetti sempre più quotato nella borsa critico-accademica, ma anche per documentare un cantiere di studi forse più vasto di altri*. In detto cantiere sono al lavoro anche giovanissimi studiosi e studiose, affacendati con intelligente zelo a esplorare archivi e carteggi del disperso opus villiano: si vedano l'intervento di Bianca Battilocchi, impegnata a ricostruire archeologicamente il progetto dei Tarocchi, e il contributo di Chiara Portesine, all’opera con rigore filologico nel tratteggiare l’influenza senza angoscia che Villa ha esercitato su Corrado Costa. Maestro più o meno segreto di varie generazioni di poeti sperimentali, della complessa figura di Costa, Marco Berisso nel suo saggio documenta un aspetto importantissimo, quello performativo, in cui trovava spazio il tipico humor dell’avvocato modenese, sottilmente perturbante i quotidiani nessi fra mots et choses.
La performance, come abbiamo già detto, era momento privilegiato per quasi tutte le figure artistiche che sfilano in questo numero; significativamente, forse, non per Villa, del quale però Ugo Fracassa nel suo saggio sviluppa l’idea di gesto artistico come momento carico di pensiero, un valore pensante del gesto che non si può pensare a propria volta al di fuori di una ‘gestualità’ del pensiero stesso. Fracassa usa con esemplare sobrietà (per questi tempi pan-neuronali) gli screenings, i cavi, le luccicanze delle neuroscienze, arrivando addirittura a porre una domanda agli stessi strumenti di cui si serve (movimento dialettico tanto necessario quanto generalmente trascurato dalla critica). Il concetto di gesto, dunque, ci porta quasi ‘naturalmente’ al "gesto sonoro" il cui significato Michela Garda, nel suo contributo, cerca di delineare con grande dovizia di mezzi estetici e analitici, riconnettendo le esperienze della migliore poesia sonora con le sperimentazioni sulla voce della grande musica contemporanea. E dal suo intervento si evince anche un’altra finalità del nostro entretien verbovisionario: riportare alla luce figure su cui i riflettori si spensero, pressapoco, nello spazio in cui le scapigliate rassegne, i roventi readings, gli happenings poetici cedettero il posto – come la mosca cede alla zanzara – ai Festival con il loro ecumenismo municipale. Così, le due facce – grafico-pittorica e sonoro-performativa – di un’esperienza artistica originalissima e semisconosciuta quale fu quella di Luigi Pasotelli, vengono reinvestite di luce nell'intervento di Garda e nel saggio di Fabrizio Bondi.
Con Pasotelli il serpente del presente discorso sembra essersi riavvitato su Spatola e Costa, i dioscuri che lo rivelarono. Ma il doppio registro della sperimentazione vocale e della mnemofonia pittorica, partitura ‘privata’ che passa per il colore e il segno, idioscrittura dell’inconscio, tutto ciò si connette con evidenza a un’altra esperienza del tutto originale, che arriva però in questi territori a partire dal teatro: quella di Gabriella Bartolomei, riletta nell'intervento di Andrea Torre. È peraltro significativo che uno studioso applicatosi, tra l’altro, all’analisi della mnemotecnica medievale e rinascimentale nei suoi rapporti con la poesia e l’arte, abbia trovato empatia in una vicenda artistica così marcatamente ‘contemporanea’. Non c’è niente di paradossale infatti, nei tarocchi di Villa, nei calligrammi di Pasotelli, nella peculiarissima ars memoriae di Bartolomei, nelle riletture carrolliane di Carroll operate da Niccolai. Sono solo alcuni esempi – ma molti altri potrebbero essere fatti – di un fenomeno che questa raccolta di studi ha contribuito a mettere in luce: quello di un procedere avanguardistico che, al di là della retorica opposizione frontale con ogni Tradizione (che non fosse, semmai, Tradizione dell’Avanguardia), si ritrova impegnato non solo a creare nuove forme o a dirigere in vario modo il Difforme o l’Informe, ma anche coinvolto in un lavoro – svolto certo con mezzi del tutto propri e inopinati – di rivitalizzazione delle forme e dei procedimenti artistici antichi o addirittura arcaici.
I curatori ringraziano Elisa Bastianello e Antonella Sbrilli per la co-curatela di questo numero – rigorosa, competente e assolutamente indispensabile, ben al di là del semplice editing, per rendere intelligente il turbine del nostro corpus verbovisionario.
*Segnaliamo solo il prodotto più recente: Emilio Villa | la scrittura della Sibilla, edizioni Cinquemarzo/[dia•foria, Viareggio, 2017, a cura di Daniele Poletti, con un’antologia minima dell’opera poetica; testi introduttivi di Fabrizio Bondi e Paolo Valesio; testi critici di: Aldo Tagliaferri, Chiara Portesine, Gian Paolo Renello, Carlo Alberto Sitta, Cecilia Bello Minciacchi, Ugo Fracassa, Giorgio Barbaglia, Fausto Curi, Enzo Campi.
English abstract
Engramma issue no. 145 “poesia verbovisionaria” includes contributions by Andrea Torre, Fabrizio Bondi, Ugo Fracassa, Bianca Battilocchi, Chiara Portesine, Alessandro Giammei, Giuseppe Cavatorta, Marco Berisso, Michela Garda, Silvia Moretti. This issue was born from the reworked speeches of the convention “I verbovisionari. L’altra avanguardia tra sperimentazione visiva e sonora", Scuola Normale Superiore (11/24-25/2016).
keywords | Poesia verbovisionaria; Performance; Gesto; Reading; Happening.
Per citare questo articolo: Poesia verbovisionaria. Editoriale di Engramma n. 145, a cura di Fabrizio Bondi e Andrea Torre, “La Rivista di Engramma” n. 145, maggio 2017, pp. 129-132. | PDF dell’articolo