Marco Bellocchio. L’arte della messa in scena
Editoriale di Engramma n. 172
a cura di Marina Pellanda e Stefania Rimini
English abstract
Il cinema di Marco Bellocchio, attraversato dalla vertigine di corpi eccedenti e da una potente geometria di sguardi, sembra richiamare quell’“intrico di spazi” che per Michel Foucault rappresenta una delle regole dell’“eterotopia”, ovvero la giustapposizione in un luogo reale di più “spazi che normalmente sarebbero, dovrebbero essere incompatibili” (Foucault, Utopie ed eterotopie, [1966] Cronopio 2006, 18-19). L’architettura filosofica di Foucault pone sullo stesso asse, nella dialettica fra estraneità e compresenza, teatro e cinema (e giardini), e proprio questa concatenazione è al centro di Engramma 172, a partire dall’idea che l’opera del regista si muove in direzione di una radicale messa in scena del rapporto con l’altro (la famiglia, il potere, la storia) e con il sé (l’inconscio, la violenza, la morte).
Dal memorabile esordio de I pugni in tasca (1965) – a partire dal quale si imbastisce il filo della corrispondenza ‘fittizia’ con Pasolini, come riferisce puntualmente Silvia De Laude nel suo “Cinema di prosa” e “cinema di poesia”, tertium datur – fino al recente Il traditore (2019), che rilancia il tentativo di mettere in quadro l’altra faccia dell’Italia, la scrittura filmica di Bellocchio si agglutina attorno a nuclei simbolici che testimoniano la ricerca di un piano immaginario capace di scardinare l’opacità del reale.
È proprio la frizione fra sogno ed esistenza, con inevitabili complicazioni di ordine psicanalitico e performativo, a determinare lo slancio eterotopico del cinema del regista, orientato verso l’esplorazione di luoghi pubblici e privati, di soglie permeabili che finiscono spesso per chiamare in causa la mobilità del dispositivo teatrale, inteso via via come traccia o superficie riflettente, come paradigma o come metafora.
I saggi che compongono questo numero analizzano, da prospettive diverse e con approcci metodologici complementari, alcune morfologie spaziali e tematiche legate all’orizzonte della scena e disegnano così una mappa genealogica che offre l’occasione di riattraversare alcune costanti della produzione del regista. Il già menzionato contributo di Silvia De Laude costituisce una sorta di ‘A side’ rispetto alla scacchiera del numero ma questa apparente lateralità consente di recuperare l’unicità di un dialogo – quello fra Bellocchio e Pasolini – su cui la critica ha indugiato a lungo, senza però sciogliere i nodi che oggi la studiosa finalmente dirada.
È Marina Pellanda, con il suo Panoramiche di interni: l’unità di luogo nel cinema di Marco Bellocchio, a suggerire la densità della relazione intermediale fra teatro e cinema all’interno del macrotesto bellocchiano e a proporre una serie di figure, e di forme, che ne sintetizzano le matrici cronotopiche. Il richiamo al Kammerspiel agisce infatti su un doppio livello: esalta le risonanze con le traiettorie di una peculiare “drammaturgia dei corpi e dei gesti” e sublima l’interazione fra spazi e sonorità, producendo uno scarto continuo fra campo e fuori campo. Pur lavorando lungo le coordinate di una ferrea unità di luogo, il cinema di Bellocchio tende verso l’eterotopia, perché – grazie all’estrema precisione dei quadri – autorizza l’“intrico”, e con esso la cristallizzazione dei diversi piani dell’esistenza. Stanze, palazzi, corridoi; e ancora specchi, porte e finestre sono indici di una temporalità franta ma anche frammenti di un teatro-mondo che inverte la dialettica fra dentro e fuori.
Oltre a essere serbatoio di storie e motivi, il teatro per Bellocchio è anche incarnazione di forme specifiche, di generi che hanno contribuito a plasmare la coscienza identitaria del nostro Paese. Fra tutti, il Melodramma assume una connotazione simbolica forte perché – come dichiara in modo netto Marzia Gandolfi ne Il melodramma della nazione – è “capace di far dialogare l’intimo col pubblico e di avere il ‘popolo’ come punto di origine, oggetto e destinatario della fiction”. La lettura sub specie operistica de Il traditore consente a Gandolfi di recuperare la pregnanza melodrammatica del cinema del regista, di sottolinearne la componente sensuale ed eccentrica, e ancora di isolare la pre-potenza dell’aria come figura di pathos.
In scia con il saggio di Gandolfi si pone il contributo di Francesco Verona – Tempo e memoria in “...addio del passato…” – che mira a a rintracciare l’intima radice bellocchiana di un film solo apparentemente minore. “...addio del passato…” è un documentario sulla Traviata, commissionato dal Comune e dal Teatro Municipale di Piacenza, che va alla ricerca della sopravvivenza del genere melodrammatico e interseca i motivi e le trame del capolavoro di Verdi con i luoghi e le consuetudini di un presente alla deriva. Grazie al filtro di un classico della cultura, Bellocchio ha modo di perlustrare i margini di una provincia in bilico fra tradizione e disincanto. Ancora una volta, lo sguardo del regista serve a misurare la distanza della realtà dal sogno di un tempo irrevocabilmente perduto.
Il rapporto dialettico con le maschere di una teatralità debordante (fra Shakespeare e Pirandello) è al centro del contributo di Rosamaria Salvatore e Farah Polato che, fin dal titolo, tematizza l’inarcamento tra la dimensione verbale e quella architettonica: La parola e lo spazio. Il teatro di Marco Bellocchio si snoda infatti attraverso un duplice percorso che pedina, da un lato, le logiche di citazione del Macbeth in Sorelle Mai (2010) e Bella addormentata (2012); mentre, dall’altro, sceglie di analizzare il perimetro spaziale de La condanna (1991), secondo direttrici che rinviano al tema della chiusura. In entrambi i casi la metafora del teatro fa corpo con l’espressività di volti e gesti. La scena appare come l’orizzonte di situazioni-limite, solo a tratti sublimate dalla complicità della macchina da presa.
Denis Brotto legge Il gabbiano di Bellocchio attraverso la lente di ingrandimento degli Adaptation Studies ma non si limita a rinvenire scarti e corrispondenze con l’originale cechoviano. La sua indagine tenta di cogliere nella riscrittura filmica le rifrazioni autobiografiche dell’autore, le sue prove d’artista, la ricerca di un peculiare modo d’espressione.
Se i contributi di Salvatore-Polato e Brotto rimandano rispettivamente all’idea di teatro-eco e teatro-traccia, Anton Giulio Mancino nel suo Pagliacci, sorvegliati speciali, traditori insiste sul teatro-segno, sottolineando come il palcoscenico sia l’asse portante di “un divenire narrativo, storico, giudiziario, politico assai appariscente e sfrontato, drammatico e melodrammatico a un tempo, debordante di personaggi istrionici e situazioni sbalorditive”. Tale affermazione sostanzia l’analisi de Il traditore ma non rinuncia a un sistematico attraversamento di tutta l’opera del regista, da cui emerge la circolarità di una serie di stilemi.
L’unitarietà dei saggi che compongono questo numero monografico è amplificata da due contributi che sembrano mimare un doppio movimento. L’uno, Laudatio. Quando le immagini ci guardano di Gianni Canova, può intendersi come una specie di plongée, capace di restituire tutta l’ampiezza dello spettro visuale di Bellocchio, a partire da una domanda radicale: “Dove ce l’abbiamo, il cinema?”. L’altro, Intervista a Bellocchio, è insieme uno zoom e una messa in abisso, perché l’interrogazione posta al regista intorno ad alcune questioni cruciali – il rapporto teatro-cinema, la tensione melodramamtica, la peculiarità della figura dei traditori, la dialettica fra ‘scene madri’ e ‘scene sorelle’ – consente al lettore di puntare al cuore di ogni inquadratura, di ritrovare la giusta distanza per guardare le immagini del suo cinema e del suo teatro. La tesa emozionalità delle immagini bellocchiane dilata lo spazio e dà vita a nuove forme che, pur ibride e impure, si imprimono prepotentemente nella percezione dello spettatore. L’armonia o il conflitto fra i diversi principi che animano le immagini del regista a un certo punto mostra sempre un centro che le collega con l’ignoto: è un punto di resistenza assoluta ad ogni tentativo di interpretazione.
English abstract
Engramma issue no. 172, Marco Bellocchio. The Art of Staging, includes contributions by: Denis Brotto, Silvia De Laude, Marzia Gandolfi, Anton Giulio Mancino, Rosamaria Salvatore and Farah Polato, Marina Pellanda, Francesco Verona. A special text is the Laudatio “When the images look at us” that Gianni Canova gave on the occasion of the ad honorem Master's Degree conferred to the Director by the IULM University of Milano, on 9.12.2019. The issue also includes an Interview with Marco Bellocchio.
keywords | Marco Bellocchio; scenic space; theatre.
Per citare questo articolo / To cite this article: M. Pellanda, S. Rimini, Marco Bellocchio. L’arte della messa in scena, “La Rivista di Engramma” n. 172, marzo/aprile 2020, pp. 7-10 | PDF di questo articolo