Aby Warburg e i suoi biografi. Un ritratto intellettuale nelle parole di Giorgio Pasquali (1930), Gertrud Bing (1958), Edgard Wind (1970)
Monica Centanni e Giovanna Pasini
Warburg stesso soleva dire di sé che
egli era proprio un uomo fatto
per creare un bel ricordo.
Gertrud Bing
Aby Warburg. An Intellectual Biography è il titolo di un famoso volume di Ernst Gombrich, pubblicato a Londra nel 1970. Fino ad allora, il nome di Warburg e la sua opera di studioso erano rimasti pressoché ignoti: grazie a questo fortunato saggio biografico, tradotto nelle principali lingue europee (in Italia da Feltrinelli nel 1983), egli divenne un autore di riferimento importante nel panorama culturale internazionale. A Gombrich va quindi il merito indiscusso di aver promosso e recuperato fra le grandi figure del Novecento la carismatica personalità di Aby Warburg: quel libro, che cuce insieme racconto biografico e pezzi d’autore editi e inediti, testimonianze e documenti diaristici, appunti frammentari e brani di epistolari privati, proietta un ritratto suggestivo, tormentato e affascinante dello studioso tedesco.
Ma, paradossalmente, proprio la fortuna del libro di Gombrich, sul piano della diffusione del pensiero e del metodo warburghiano contribuì a quel fenomeno che già Gertrud Bing aveva tempestivamente denunciato: "La fama postuma di Warburg è fondata più sul sentito dire che sulla conoscenza dei suoi scritti ed egli condivide tuttora la sorte di quegli autori i quali […] sono elogiati con più zelo di quanto siano letti". La biografia di Gombrich fu oggetto di una feroce stroncatura ad opera di uno dei migliori interpreti della lezione warburghiana: Edgar Wind, in una recensione uscita pochi mesi dopo la pubblicazione, sottolineò tutti i difetti compositivi e interpretativi di quella biografia.
"Nata sotto una cattiva stella", l’opera – che viene tacciata anche di grigiore e di monotonia (oltre che di grossolanità e ottusità) – viene criticata sotto tre diversi rispetti:
- i criteri compositivi del saggio, ovvero la scelta discriminata e discriminante dei materiali editi e inediti di Warburg e la loro organizzazione approssimativa e confusa, secondo un’architettura artificiosa che vorrebbe far parlare Warburg "con le sue stesse parole" e invece produce la sensazione frustrante di involuzioni del pensiero e di brancolamenti alla cieca;
- la ricostruzione della fisionomia psicologica dell’uomo-studioso Warburg, di cui viene fraintesa la cifra tragica della pazzia, e che viene presentato come "uno spettro, con le sembianze, oggi di moda, di un tormentato mollusco, informe, esagitato e sterile, incessantemente preoccupato dei propri conflitti interiori e spinto inutilmente a esagerarli da un indomabile prurito per l’Assoluto";
- la riduzione della grandezza dello studioso e dell’importanza delle sue opere all’avventura intellettuale di uno spirito di genio, ispirato dalla follia, che percorre le volute imperscrutabili dei suoi privati labirinti, consacrando così l’unicità del suo nume ma con ciò imbalsamandolo e neutralizzando la portata rivoluzionaria del suo metodo.
L’immagine di Warburg proposta da Ernst Gombrich è in contraddizione anche con le testimonianze di quanti ebbero occasione di lavorare con lui e di conoscerlo da vicino come uomo e come studioso. Tra tutti spicca il ricordo di Gertrud Bing, la più assidua collaboratrice di Aby Warburg nell’ultimo periodo della sua vita e colei che, dopo la morte, divenne la curatrice dell’edizione tedesca dei suoi saggi (1933) e la custode appassionata della sua memoria.
Bing, nel ricordo scritto nell’imminenza del trentesimo anniversario della scomparsa di Warburg (1958), ci restituisce il ritratto di un intellettuale militante: "Warburg sentiva il suo compito scientifico come missione; parlava del ‘problema che lo comandava’, e al quale egli obbediva senza ribellarsi nonostante gli acciacchi fisici, nonostante l’incomprensione nella quale spesso si imbatteva e nonostante i dubbi che lo afferravano troppo spesso su se stesso". Vita e ricerca erano unite inscindibilmente nella cifra di un rigore assoluto, di un senso di responsabilità sempre integro, mai indulgente al compromesso: "Egli applicava la stessa serietà alle cose della vita pubblica e quando si riferivano all’arte o alla scienza subito ne faceva una causa sua. Anche in questi casi, egli non era mai disposto a venire a patti con la mediocrità e non era davvero nelle sue abitudini di porsi sul ‘terreno dei fatti’".
Un Warburg però pronto a scontrarsi duramente, proprio sul terreno dei fatti, con i sedicenti, immancabili specialisti, quando veniva offeso "il suo senso di integrità artistica e intellettuale". "Senza clemenza – ricorda Bing – ma anche senza considerare se così si rendesse inviso, egli si gettava nella battaglia con tutte le armi della sua penna e del suo spirito tagliente […]. Era per lui una questione di principio: non tollerare un ottimismo di lega scadente e non abbandonarsi a un altezzoso senso di sicurezza". A questo proposito Bing riferisce un icastico aneddoto, che propone un Warburg chiamato inopinatamente come consulente e che si rivela ancora una volta, di fronte all’ottuso pragmatismo della burocrazia, un personaggio scomodo e importuno: "Quando un giorno fu chiamato come perito davanti a una commissione che doveva deliberare se chiudere o continuare la collezione di calchi in gesso nella Kunsthalle, rispose al consueto riferimento burocratico ai precedenti e alle forti spese, con l’obiezione che la natura elargisce gesso in quantità illimitate. Il termine ‘precedente’ era per lui come un panno rosso per un toro: coi precedenti si poteva uccidere ogni iniziativa".
Un Warburg che interviene in dura polemica svelando i miserabili intrighi del mondo accademico – da cui si era sempre voluto tenere distante – nel momento in cui era necessario sostenere uno studioso di grande valore e un amico, come il filosofo Cassirer: "Warburg non era un pioniere accecato dall’idea che Amburgo dovesse avere una sua Università […]. Ma quando, una volta fondata l’Università, vi fu il pericolo che Ernst Cassirer venisse tolto alla sua cattedra di Amburgo da una chiamata a Francoforte, Warburg non disdegnò di entrare nella lizza della polemica quotidiana. Fece pubblicare un suo articolo nello Hamburger Fremdenblatt […] perché fermamente convinto che il largo pubblico avesse il diritto di sapere che cosa fosse veramente in gioco in simili questioni di chiamate accademiche".
Nel ritratto di Gertrud Bing Warburg appare come un maestro "che in ogni sua manifestazione reca in modo così notevole l’impronta dell’inconsueto". Maestro generoso verso collaboratori e studiosi che stimava: "Non esisteva amico più fedele di lui. Quando sentiva che poteva tributare il proprio riconoscimento, lo faceva senza riserve". Ma persino i discepoli a lui più vicini faticano a riprodurre l’eccezionale qualità del suo genio: "Nemmeno gli scolari o amici pei quali la conversazione scientifica è stata indimenticabile, saranno sempre in grado di dire in che cosa consistesse l’importanza di quei colloqui e cosa li rendesse così straordinariamente efficaci". Una passione didattica che derivava immediatamente dalla sua passione di studioso: "Il suo segreto stava nel saper rendere accessibili a tutti, a giovani e vecchi, alle persone colte o ai semplici dilettanti, e perfino ai fanciulli, le cose alle quali teneva […]. Gli sembrava più importante dischiudere […] a una più larga cerchia di dilettanti interessati le biblioteche già esistenti […] ‘indicare – come lui diceva – a quei lettori potenziali la via del libro’".
Anche nel campo della ricerca Bing restituisce a Warburg qualità di rigore metodologico e di dinamismo intellettuale: i suoi pochi saggi sono "capolavori di acribia storica, di sensibilità psicologica e di geniale padronanza del materiale". Con un metodo del tutto innovativo Warburg riconosce uno stretto rapporto tra le formule di pathos ricavate dai modelli classici e "la forma plasmata": questa necessità che infonde movimento all’espressione figurativa "compenetra di sé tutta l’opera di ricerca di Warburg" e – nota sempre Bing – suggestiona il suo linguaggio conferendogli quel peculiare senso di urgenza". E tuttavia il linguaggio rimane sempre aderente alla cosa, "non si scosta mai dal caso storico singolo che interessa l’indagine specifica".
Un metodo che apriva nuove prospettive alla ricerca, oltre ogni settorialismo e ogni disprezzo pregiudiziale per il contesto: "Al tempo di Warburg nessuno storico dell’arte si sarebbe interessato dei contratti d’affari dei Medici o del testamento di un loro socio nel quale non si parlasse d’arte, o delle lettere dei loro rappresentanti d’Oltralpe che lamentano i cattivi affari; cose del genere erano lasciate agli storici dell’economia politica. Gli oggetti d’arredamento delle case rientravano, secondo l’opinione di allora, nell’artigianato e le loro decorazioni sembravano troppo lontane per stile e per contenuto dai prodotti della cosiddetta arte libera per poter essere prese in considerazione".
Warburg è il primo a cogliere, in modo rigoroso e sistematico, il nesso di stretta necessità che lega forma e contenuto: "Il problema […] se la scelta del contenuto figurativo non fosse stata determinata anche dall’uso al quale quegli oggetti erano destinati". Grazie a questo procedimento investigativo su più livelli, che non trascura nessun dettaglio, nessuna traccia, Warburg consegna un’alta lezione di metodo: "L’insegnamento che ne abbiamo avuto – scrive ancora Bing – è che si possono far sentire voci umane articolate anche da documenti di scarsa importanza".
Ma – nota Gertrud Bing – la lezione di Warburg non sta, principalmente, in quel che ha lasciato scritto, ma anche nella sua lezione orale e nella costruzione di una nuova topografia – mentale e reale – della ricerca: le lezioni, gli appunti di studio, l’Istituto, la Biblioteca, l’Atlante. "I saggi danno solo una parte di quanto la sua opera e la sua personalità abbiano significato per la ricerca scientifica. Per averne un quadro completo bisognerebbe aggiungere a quei saggi i numerosi frammenti, i richiami, appunti e abbozzi che si trovano nelle carte da lui lasciate [...]. Bisognerebbe poter ricostruire le conferenze che egli teneva senza manoscritto, per le quali abbiamo solo schemi e notizie e bisognerebbe rifare le molte conversazioni familiari in cui non si stancava mai di parlare di quel che muoveva il suo interesse scientifico". La sua eredità è la ricezione di una importante lezione di metodo da parte della sua scuola. Scrive Bing: "Bisognerebbe soprattutto aggiungere i lavori usciti da trentasei anni a questa parte a cura dell’Istituto che porta il suo nome. Penso che in quasi ognuno di essi si potrebbe individuare quello che nel contenuto o nel metodo risale a lui".
"Spesso ironico verso se stesso", e avverso a qualsiasi riconoscimento integralistico di appartenenza, secondo la testimonianza di Gertrud Bing, Warburg coltivava un atteggiamento di deciso disincanto anche verso l’identitarismo ebraico che connotava la storia della sua famiglia: "L'orgoglio per le peculiarità ebraiche che era sempre esistito nell’ortodossia e si era poi sviluppato sotto la pressione dell’antisemitismo anche presso gli ebrei liberali, era estraneo a Warburg, il quale lo respinse sempre fermamente dovunque lo incontrasse. Egli aveva una sua risposta alla domanda su che cosa costituisca la distinzione tra gli Ebrei e i popoli che li ospitano: ‘Abbiamo patito la storia universale per duemila anni più di loro’. Non c’era altro, ma per chi conosce lo stile di Warburg non è difficile ravvisare in questa formulazione il nesso linguistico fra ‘patire’, ‘pazientare’, e ‘passione’: amor fati". A proposito della malattia, anche Bing ricorda la sua ‘ferita’, ma la ascrive a una sorta di inquietudine feconda, di "sacra insoddisfazione". Il suo spirito brillante era a tratti venato da una profonda angoscia interiore: la "tragica consapevolezza che non gli era concesso vivere in una imperturbata armonia con se stesso o con le persone a lui vicine".
E proprio Gertrud Bing in occasione dell’edizione italiana degli scritti di Warburg (La Rinascita del paganesimo antico, La Nuova Italia 1966) indicherà nel ricordo di Giorgio Pasquali, risalente a più di trentacinque anni prima, "il tributo migliore" alla lezione e alla figura del maestro: una vera biografia intellettuale, scritta in poche pagine, asciutte, rigorose, essenziali e illuminanti, in cui ogni parola, ogni frase appare soppesata con perizia e cura filologica. Eppure, questo sguardo di ampio orizzonte riesce mirabilmente a inquadrare l’uomo e lo studioso Aby Warburg in un profilo di luce in cui vita, carattere e interessi di ricerca appaiono strettamente intrecciati. Nell’aprile del 1930, a soli cinque mesi dalla morte di Aby Warburg, la rivista italiana "Pegaso" pubblicava un ritratto dell’uomo e dello studioso, opera del grande filologo classico Giorgio Pasquali.
"Quando nell’autunno passato le riviste scientifiche cominciarono a diffondere per il mondo, o almeno per il mondo internazionale dei dotti, la notizia della sua morte, qui da noi molti anche tra gli universitari si saranno chiesti se quel nome era, oltre che di un’istituzione, anche di un uomo. Ché l’amburghese ‘Biblioteca Warburg per scienza della cultura’ era più celebre del suo fondatore e direttore e (insieme con altri della sua famiglia) principale finanziatore. La biblioteca Warburg è già ora la più completa tra le raccolte specializzate di stampati e di materiale iconografico per chi voglia studiare in genere storia della cultura, ma in particolare storia della cultura del Rinascimento e segnatamente del Rinascimento nostro, fiorentino e italiano; e si trasforma una volta il mese in sala di conferenze su discipline varie, filosofia, storia delle religioni, delle arti figurate, dell’astronomia e dell’astrologia, in quanto tutte gravitano verso la storia della cultura […]. Che l’uomo Warburg, il grande ricercatore Warburg, scompaia, scomparisse già da vivo, dietro all’istituzione da lui voluta, è conforme alle sue intenzioni: egli ha voluto essere innanzi tutto un maestro e un organizzatore, ha voluto che certi suoi pensieri scientifici, non molti forse di numero ma grandi e svolti organicamente, vivessero e fruttificassero soprattutto nella mente dei suoi discepoli, che egli fin dal principio considerava collaboratori e destinava successori".
Già nell’incipit, Pasquali ricorda la "intimità fraterna" che legava Warburg all’Italia e agli studiosi italiani. Ma forse non è un caso che fra tutti gli studiosi (italiani e non solo) l’unico che trovi parole adeguate a descriverne la personalità intellettuale e che riconosca tempestivamente il valore scientifico e innovativo dei suoi studi, non sia uno storico dell’arte ma un filologo classico: "Parrà strano che parli qui di Warburg non uno storico dell’arte, di quelli che gli furono amici sin dalla giovinezza prima, ma uno che di conoscenza di arte figurata e di Rinascimento non fa professione, un filologo classico serio serio, uno studioso senz’occhi. Ma forse non è male sia così: Warburg, che in quel primo lavoro era partito da considerazioni stilistiche, non si era già allora in quelle acquietato, e non mostrò poi mai, che io sappia, tenerezza per problemi o tecnici o estetici puri: egli indagò sin da allora l’arte quale espressione di cultura".
Già nel primo lavoro di Warburg su Botticelli, Pasquali rileva la feconda ricezione della lezione nietzscheana come chiave ermeneutica indispensabile per la piena comprensione della cultura antica: "Mi sbaglio, se già in questo primo lavoro di Warburg io sento una concezione dell’antichità che non è più quella tradizionale dei retori della serenità greca? Warburg conosce all’antichità classica due facce, l’apollinea e la dionisiaca, anche se non adopra queste espressioni. La vecchia fola stupida di popoli e di età che non sapevano il dolore, non ha già allora più presa su di lui: egli sa che anche l’arte più classica è figlia della sofferenza, perché è figlia della vita, sa che essa conosce l’ebbrezza, la passione, sin la follia. Ora, molti già prima di Nietzsche avevano osservato quanta ricchezza di contrasti si celasse nell’anima antica, avevano concepito cultura antica e spirito antico come sintesi di opposti.
Ma nessuno aveva definito questa conoscenza in una formula sia pure, da un punto di vista storico, arbitraria, ma chiara e che si imprime nelle menti, nel contrasto fra apollineo e dionisiaco. Questa concezione della vita greca è stata poi ancora sviluppata e arricchita da un amico di Nietzsche, Rohde, che forse gli aveva per primo suggerito, se non quei nomi, quei concetti, e da un suo avversario, Wilamowitz, concordi tra di loro più che per molti anni non ne abbiano avuto consapevolezza. Ed essa ha vinto sull’altra, considerata ormai astorica, antistorica, illuministica da tutti tranne che da un pugno di provinciali retrivi". Il contributo di Warburg agli studi non solo artistici viene valutato come una felice affermazione di un metodo adeguatamente complesso, contro le semplificazioni di un sapere settoriale che Pasquali considera ormai – piuttosto ottimisticamente – sconfitto, in via di estinzione.
Pasquali vede chiaramente che Warburg è il primo a riconoscere nel Rinascimento la travagliata riemersione di un antico essenzialmente antinomico, che contempla in sé anche l’anima dionisiaca: "Al Rinascimento l’antichità fornisce i mezzi per chiarire ed esprimere impulsi e sentimenti che già da tempo si celavano nei cuori, per disintossicarsi esteticamente […]. Un’età che avesse soltanto mirato a riprodurre il passato, non avrebbe prodotto nessuna opera grande; e gli uomini del Rinascimento non sono stati, grazie al cielo, soltanto umanisti, tanto meno poi puristi dell’età degli Antonini". E più avanti, dopo aver ripercorso in sintesi magistrale la topografia degli studi e dei ramificati interessi di ricerca di Warburg, Pasquali ancora nota: "Warburg ha diretto lo sguardo specie sugli elementi dionisiaci e su quelli demoniaci che il nostro Rinascimento attinge dall’ellenismo, rispettivamente attraverso l’arte imperiale romana e manuali del medioevo orientale e islamico. Uomo nella ricerca equilibrato, egli non ha mai inteso negare che il Rinascimento abbia desunto dall’antichità anche elementi di serenità e gravità, ‘apollinei’. La reazione contro Winckelmann non l’ha mai trasportato a disconoscere quel molto di vero, seppure di troppo parziale ed esclusivo, ch’è contenuto nella concezione tradizionale dell’antichità". Pasquali riconosce dunque nello sguardo di Warburg un Rinascimento come "sintesi complessa".
Contro l’immagine tetra, contro "la patina di nera mestizia" – per dirla con le parole di Wind – che verrà proposta nella prosopografia warburghiana posteriore (vincente), Pasquali propone a caldo un ritratto tutto diverso: "Maestro egli era nato, tant’è vero che le sue scoperte più importanti sono, più spesso che ragionate in memorie, esposte in suntini di conferenze, in fogli volanti o in appendici di giornali, difficili talvolta trovarsi se non per chi li abbia avuti in dono da lui, anche in questo generosissimo. E del maestro egli aveva la dote più necessaria, più costitutiva, la calda umanità: Warburg non ha mai fatto sentire, perché non ha mai sentito egli stesso, la distanza tra sé e il giovane che per la prima volta lo accostava con sentimenti stranamente divisi, a metà orgoglioso di un modesto risultato raggiunto, a metà trepidante nel dubbio di che cosa ne avrebbe pensato l’uomo celebre. E in tempi difficili ha considerato quale proprio dovere aiutare i principianti anche finanziariamente senza umiliarli, procurando loro lavoro scientifico a pagamento, facendone tanti collaboratori della sua impresa maggiore, la Biblioteca Warburg".
Un uomo che, proprio perché sdegnava le strade comode, fece della sua fortunata condizione familiare una risorsa per tutti. La Bing a questo proposito ricorderà la passione e la tenacia con cui Warburg portava avanti le proprie battaglie a istituzioni che con superficiali scelte politiche offendevano l’immagine delle città che amava, Amburgo e Firenze, citando, fra le altre, la sua preoccupazione per l’istruzione degli adulti che cercava di guidare ai libri perché "la cultura non fa mai male". "Warburg sentiva il bisogno di espandersi. Quest’uomo turbato da ombre paurose riacquistava di colpo la letizia, sapeva essere sereno e arguto, ogniqualvolta parlava in una cerchia di gente disposta a capirlo". Un uomo, Warburg, generoso di tempo e di parole e che nella sua Biblioteca e nel suo stile di scrittura chiama l’interlocutore a interagire: "Non so se egli fosse un buon parlatore nel senso convenzionale, retorico della parola; ma so che parlava a volte di seguito per ben più a lungo dell’ora accademica, perfino due ore, perfino più di due ore; eppure non mi sono mai stancato. Poiché non pensava mai alla forma ma alla cosa, riusciva sempre efficace, e mai noioso. Parlava senza manoscritto, spesso senza appunti, senza aver dinanzi agli occhi altro che il materiale figurativo necessario. Parlava ex plenitudine cordis senza far nulla per celare quel suo accento di patrizio amburghese, che urtava più ancora certi Tedeschi del Sud che noi stranieri. E non si peritava di intrecciare frizzi al suo discorso, se frizzi gli venivano in bocca, di rivolgersi personalmente a qualcuno dell’uditorio, quando sapeva che qualche particolare avrebbe interessato questo in modo particolare. Un parlatore, dunque, spontaneo: qualche mio collega lo avrebbe probabilmente trovato privo di dignità accademica. Ma già il suo stile didattico (e il suo stile era sempre didattico) era più vivo che austero, e non rifuggiva di immagini della vita comune, da frasi di moda tratte a un nuovo senso, da adagi: se volete, diatriba cinico-stoica, o anche dialogo socratico-platonico; conferenza sofistica mai".
Solo alla fine di questa "biografia intellettuale" Pasquali ricorda la malattia di Warburg. Ma riesce a inserire anche l’infermità nella storia intellettuale e a farne un capitolo importante della ricerca di un’esistenza non certo pacifica ma percorsa da ansie, una vita che "per ragioni non contingenti ma essenziali, non fu sempre felice": "Dal ‘18 al ‘24 Warburg ha combattuto con una malattia mentale. Testimoni autorevoli ci rivelano ora dopo la sua morte ch’egli a un certo momento aveva cominciato a vivere i suoi problemi non soltanto quali storicità. L’impulso a ricercare quale interna realtà abbia animato la magia e l’astrologia dell’ellenismo e del Rinascimento, ma anche la magia degli uomini primitivi, vivo in lui almeno da Bonn in qua, divenne a poco a poco, nell’animo suo, centrale. Egli credette in certo senso alla magia, risentì tutti i timori irrazionali dell’uomo primitivo. La malattia fu in un certo senso la continuazione della sua ricerca scientifica; e, che è più strano, egli continuò durante la malattia, profittando di quelle esperienze morbose, la sua attività scientifica. Il suo scolaro più caro narra: "Nel 1920, il professore parla nel pomeriggio di Lutero (la memoria, profonda ma sana, su Lutero e l’astrologia della Riforma è stata finita durante la pazzia), scrive nel pomeriggio le pagine meravigliose su logica e magia; alla mattina era stato un uomo magico, che credeva al demonismo delle cose inanimate". Ma alla malattia egli seppe resistere, vincendola per mezzo del pensiero scientifico e dell’attività scientifica: in uno strano sdoppiamento il Warburg non cessò mai di osservare se stesso, e in se stesso di scoprire l’uomo primitivo che ha nella magia la sua logica". L’idea del nesso tra malattia e ricerca verrà ripresa da Carlo Ginzburg che nel 1966 scriverà: "Lo studio dell’astrologia e della magia nel Quattrocento e Cinquecento s’intrecciò drammaticamente alla follia in cui cadde per lunghi anni – come se lo sforzo per padroneggiare razionalmente queste forze ambigue, per metà legate alla scienza, per metà a un mondo oscuro e demoniaco, esigesse un tragico compenso sul piano biografico".
La malattia, nota Pasquali, fu scatenata anche da una paura: "Io l’ho riveduto più quieto e più lieto al suo ritorno in Italia, nel '27, di come l’avevo lasciato nel ’15, spaventato al pensiero della guerra inevitabile tra Germania e Italia, che avrebbe, egli temeva, scavato per sempre un abisso tra i due paesi che amava". La lungimiranza dello sguardo di Pasquali sulla vita e l’opera di Warburg gli fa vedere la morte come una eutanasia autunnale: una morte improvvisa di una vita che però è "in certo senso compiuta". Il compimento che Pasquali intende, e a cui il filologo lascia ad arte l’ultima menzione, è l’opera Mnemosyne considerata, ben diversamente da come vorranno i superficiali lettori e specialisti per più di 50 anni, un’opera "compiuta": "Egli lascia pronto per la pubblicazione un atlante figurativo, che prende nome dalla memoria, Mnemosyne, e deve mostrare come i diversi paesi e le diverse generazioni […] abbiano successivamente concepito, e concependo trasformato, l’eredità ‘patetica’, dionisiaca dell’antichità. In quell’atlante egli ha voluto vivere per i posteri".
Il lascito di Warburg maestro e studioso è ricapitolato con parole di un’attualità sorprendente nella chiusa dello scritto di Pasquali: "Gli studiosi giovani opereranno secondo le sue intenzioni, se non secondo il suo spirito, se non accetteranno senz’altro concezioni che sono strettamene legate con la potente personalità di lui, se invece di quell’atlante si serviranno come di una pietra di paragone dei propri pensieri". Quindi non una lezione chiusa e ingessata, ma un percorso, un confronto, una stella su cui costruire la rotta della ricerca. "Gli storici dell’arte e gli scienziati della cultura hanno il dovere di rendere fruttifera l’opera di Warburg, lasciando che essa operi su loro, cioè trasformandola." Parole esemplari, perché alludono al problema essenziale del sapere: procedere a passi lenti nel labirinto del divenire, per correzioni successive di rotta, senza postulati rigidi o pregiudiziali, ma con una decisa intenzione interpretativa, nel confronto tra ipotesi diverse che, interagendo e trasformandosi reciprocamente, provocano scintille di conoscenza. Parole che a più di ottant’anni di distanza è tempo di raccogliere.
Riedizione novembre 2012. La prima edizione di questo contributo è stata pubblicata in "Engramma" n. 1, settembre 2000
Aby Warburg and his biographers. An intellectual portrait in the words of Giorgio Pasquali (1930), Gertrud Bing (1958), Edgar Wind (1970)
Monica Centanni and Giovanna Pasini, translated by Elizabeth Thomson
Warburg would say of himself that he
was "just the right man to create
a beautiful memory".
Gertrud Bing
Aby Warburg: An Intellectual Biography is the title of a famous book by Ernst Gombrich published in London in 1970. Until then, Warburg’s name and his scholarly work were more or less unknown. By virtue of this successful biographical essay translated into all major European languages, he became an important reference point on the international cultural landscape. It is to Gombrich, therefore, that we owe the undoubted merit of having promoted and restored from amongst the great individuals of the 19th century the charismatic personality of Aby Warburg. The book, which stitches together biographical narrative, published and unpublished writings, diaries, fragmentary notes and private letters, projects an extraordinary, fascinating and tormented portrait of the German scholar.
Paradoxically, it was the fortune of Gombrich’s book, which in terms of diffusing the thoughts and method of Warburg, contributed to the phenomenon which Gertrud Bing had already exposed: "Warburg’s posthumous fame is based more on hearsay than on the knowledge of his writings, and even today, he shares the fate of those authors who [...] are praised with more zeal than with which they are read". Gombrich’s biography was slated by one of the best interpreters of Warburg’s teachings. Edgar Wind, in a review published a few months after its publication, underscored all the shortcomings in composition and interpretation that appear in the biography.
"Born under a negative sign" the book, which was also accused of being grey, monotonous, as well as unpolished and dull, was criticised in three respects:
– The criteria which govern the composition of the essay, namely the discriminate and indiscriminate organisation of Warburg’s published and unpublished material, its imprecise and chaotic organisation within an artful structure which is meant to make Warburg speak "in his own words", and which rather, produces the frustrating impression of convoluted thinking and groping in the dark.
– His reconstruction of the psychological make-up of Warburg, the man-scholar, whose tragic insanity he misunderstands, and who is presented as a "spectre with the appearance, fashionable today, of a tormented spineless person, shapeless, restless and sterile, perennially preoccupied with his own interior conflicts and senselessly compelled to exaggerate them by his uncontrollable itch for the Absolute".
– His reduction of the greatness of the man-scholar and the importance of his works to the intellectual adventure of a genius, inspired by insanity, who travels the intricate twists and turns of his own labyrinths, establishing the uniqueness of his genius, but in so doing embalming it and neutralising the revolutionary significance of his method.
The image of Warburg which Gombrich presents also contradicts the evidence of those who had occasion to work with him and to know him personally as a man and scholar. Of these, the one that particularly stands out is the recollection of Gertrud Bing, the most assiduous of Warburg’s assistants during the last phase of his life, and who after his death became the editor of the German edition of his essays (1933), and the passionate custodian of his memory.
Bing, in the tribute written as the thirtieth anniversary of ‘Warburg’s death approached (1958), re-established the image of a militant intellectual: "Warburg saw his scientific task as a mission; he would speak of the problem that drove him, and which he obeyed without rebelling despite his physical ailments, despite the lack of comprehension he frequently ran into, and despite the doubts he frequently entertained about himself. His life and research were inseparably linked: his absolute rigour, sense of responsibility and his integrity never inclined towards compromise. "He applied the same gravity to matters concerning public life, and when referring to art or science he would always make them a personal cause. In these cases, too, he was never prepared to come to terms with mediocrity nor was it a habit of his stand on the ‘territory of the facts’."
Warburg however was always ready to face head-on the inevitable, self-appointed ‘specialists’, when "his sense of artistic and intellectual integrity was offended". "Without mercy" – Bing remembers – "but also without considering if in this way he made himself unpopular, he would throw himself into the skirmish with all the force of his pen and his cutting spirit. (…). For him it was a question of principle not to tolerate an optimism of inferior quality and not to abandon oneself to an arrogant sense of security". In this respect Bing quotes a characteristic anecdote which reveals a Warburg called unexpectedly as a consultant, who proves once again that he can be a difficult and embarrassing character when confronted by the obtuse pragmatism of bureaucracy: "One day, when he was called as an expert before a committee which had to decide whether to bring to an end or continue with the collection of chalk casts in the Kuntshalle, and was confronted by the customary bureaucratic reference to precedent and the huge expense, he observed that nature bestows chalk generously and in unlimited quantities. The word 'precedent' was like a red rag to a bull – all plans could be cut because of 'precedents'".
She recalls a Warburg who took part in tough controversial issues exposing the shabby intrigues of the academic world – from which he had always wanted to keep a distance – whenever it was necessary to back a valuable scholar and friend as occurred in the case of the philosopher Cassirer: "Warburg was not a trailblazer blinded by the idea that Hamburg had to have its own university [...]. But when, once the university was founded, it seemed likely that Ernst Cassirer would be transferred from his chair to Frankfurt, Warburg did not hesitate to enter the arena of the daily controversies. He had an article published in the Hamburger Fremdenblatt [...] because he was firmly convinced that the public at large had the right to know what was at stake in similar matters of academic summonses".
In Gertrud Bing’s portrait, Warburg emerges as a master "who brought to everything he did, and to an extraordinary degree, the imprint of the unusual". He was generous with collaborators and scholars he admired: "There was no more faithful friend than he. Whenever he felt he could extend his recognition, he did so without reservation". However, even his closest followers had difficulty in reproducing the exceptional quality of his genius: "Not even his students or friends who found his scientific discussions unforgettable, will always be able to say in what way they were important and what it was that made them so extraordinarily powerful". He had an enthusiasm for teaching, which originated directly from his enthusiasm as a scholar: "His secret was in knowing how to make the things he considered important accessible to everyone, the young and the old, educated people and amateurs, even children. He thought it was more important to make the libraries already in existence known [...] to an increasingly wider circle of interested amateurs or, as he used to say, 'to show those potential readers the way of the book'".
Even in the field of research, Bing re-establishes the reputation of Warburg’s methodological rigour and intellectual energy: his few essays are "masterpieces of scrupulous research, psychological sensitivity and a thorough understanding of the subject". Using a thoroughly innovative method, Warburg recognises the strict relationship between the formulas of pathos drawn from classical models and the "moulded form". This essential quality which "infuses figurative art with movement lies at the heart of Warburg’s research", and influences the language he uses by conferring on it a characteristic sense of urgency". Nevertheless, his language always remains faithful to the "thing", "never straying from the historical event, which is the specific subject of his enquiry".
His was a method that opened up new perspectives of research, which went beyond compartmentalisation and prejudice with regard to context. "In Warburg’s day, no art historian would have been interested in the business contracts of the Medici, in the will of one of their colleagues in which art is mentioned, or in the letters of their representatives in countries beyond the Alps who complained about bad business. Matters of this kind were left to historians of politics and economics. According to prevailing opinion of the time, objects which served as domestic furnishings belonged to the realms of the craftsman, and their decorations appeared too distant in style and content from the production of the so-called liberal arts to be taken into account".
Warburg was the first to make the absolutely essential link between art and form in a systematic and rigorous fashion: "The problem of […] whether the choice of figurative content was determined also by the use to which the objects would be put". With his multi-level investigative procedure that omits no detail, no trace, Warburg conceived a significant art historical method. "He has taught us – adds Bing – that even documents of little importance can be made to speak with a human voice".
However, Bing observes, Warburg’s teachings do not lie principally in his writings, but in his oral legacy and his construction of a new perspective – mental and real – of research: his teachings, his study notes, the Institute, the Library and the Atlas. "His essays present only a part of what his work and personality have come to signify in scientific research. To have the complete picture one would need to add to those essays the numerous fragments, cross-references, notes and sketches found amongst the papers he left [...]. One would have to be able to reproduce the lectures he held without a manuscript, for which we only have drafts and notes, and one would have to reconstruct the many conversations with his family in which he never tired of talking about his interest in science". His legacy is the methodological approach that he bequeathed to his school. Bing observes: "Above all, one would have to include the works published during the last thirty-six years and edited by the Institute which bears his name. I think that in every one of them one could identify what in content or method is attributable to him".
"Frequently self-mocking", and averse to acknowledging that he belonged entirely to one camp or another, he cultivated, according to Bing, an attitude of distinct disenchantment towards the Jewish culture which had defined the history of his family. "The pride in Jewishness which had always existed in the orthodox synagogue and which had developed under the pressure of anti-Semitism even among liberal Jews, was foreign to Warburg, who always rejected it firmly whenever he came across it. He always had a ready answer when asked what distinguished the Jews from the people of their host countries. 'We have endured universal history for two thousand years longer than they have'. That was all, but to those who knew Warburg it was not difficult to recognise in the formulation of his sentence the linguistic connection between the terms endure, suffer, pain, and passion: amor fati, love of fate". As far as his illness was concerned, Bing also recalls his "wound" but she ascribes it to a kind of fruitful restlessness, a "holy dissatisfaction". His luminous spirit was at times tinged by a profound disquiet: the "tragic awareness that he was not permitted to live in untroubled harmony with himself and those close to him".
Gertrud Bing, in the Italian edition of Warburg’s writings (La Rinascita del paganesimo antico, La Nuova Italia 1966), recognises in Giorgio Pasquali’s recollection of Warburg dated thirty-five years earlier the "best tribute" to the teachings and the person of the master, a true intellectual biography, written in few austere, rigorous, essential and enlightening pages, in which every word, every phrase appears weighed with philological skill and care. Nonetheless, his comprehensive view manages admirably to capture Aby the man and scholar in a light in which his life, personality and research interests appear tightly interwoven. In April 1930, only three months before his death, the Italian magazine "Pegaso" published the portrait of Aby, the man and scholar, written by the great classical philologist Giorgio Pasquali.
"When, during the previous autumn, scientific magazines began to spread the news of his death around the world, or at least the international world of intellectuals, […] even university students must have asked themselves if the name, as well as belonging to an institute, belonged to a man too, because the Warburg Library for the Science of Culture at Hamburg was more famous than its founder and director, and together with other members of his family, its principal backer. The Warburg library is already the most complete of specialist collections of prints and iconographical material for those who wish to study the history of culture in general, and the history of the culture of the Renaissance in particular, with particular reference to the Renaissance in Italy, especially Florence. Once a month it transforms itself into a lecture hall for various disciplines – philosophy, the history of religions, the figurative arts, and astronomy and astrology, in as much as they all gravitate towards the history of culture [...]. That Warburg, the man, as well as Warburg, the great researcher, should disappear, and had done so whilst still alive, behind the institute which he himself had brought into being, was consistent with his intentions. He wanted first of all to be a teacher and organiser; he wanted his scientific thoughts, not many in number, perhaps, but significant and organically developed, to survive and bear fruit in the minds of his followers who from the beginning he considered his collaborators and successors".
From the beginning of his tribute, Pasquali recalls "the brotherly intimacy" which bound Warburg to Italy and Italian scholars. Perhaps it was no accident that of all these scholars (not only Italian), the only one who could find the most fitting words to describe his intellectual personality and who recognised early on the innovative and scientific value of his studies, was not an art historian but a classical philologist. "It may seem strange that speaking of Warburg here is someone who is not an art historian, or a friend from his early youth, but one who has not made a profession of his knowledge of the figurative arts and the Renaissance, but a very serious classical philologist, a scholar "without eyes". Maybe this is not a bad thing: Warburg, who in his first work started from stylistic considerations, even then was not satisfied by them and, as far as I know, from that time onwards never showed any feeling for problems which were purely aesthetic or technical. Even at that time he investigated art as an expression of culture".
Pasquali detects in Warburg’s first work on Botticelli his fruitful reception of Nietzschean thought as a key to fully understanding the hermeneutics of ancient civilisation. "Am I wrong if from this the first work of Warburg I have gained a perception of antiquity which is no longer the traditional one, the one of rhetoricians, which extols the tranquil nature of Ancient Greece? Warburg acknowledges that it had two faces, the Apollonian and the Dionysan, although he does not use these terms. The fatuous fairy-tale of peoples and eras with no experience of pain, even then, did not hold for him: he knew that indeed the most ancient forms of art are the daughters of suffering, because they are daughters of life, acquainted with drunkenness, passion and folly. Before Nietsche, many had observed the wealth of contrast concealed in the heart of antiquity, perceiving the spirit of ancient culture as the fusion of two extremes.
But no-one had defined this awareness in a formula, albeit, from a historical point of view, arbitrary, that was clear and that would distinguish the contrast between the Apollonian and Dionysan. This perception of Greek life was further developed and refined by a friend of Nietsche, Rhode, who was perhaps the first to suggest, if not with these names, these concepts, and also by one of his rivals, Wilamowitz; that they shared this view for many years was unknown to both. This viewpoint has prevailed over the other, now considered an ahistorical product of Enlightenment thinking by all but a handful of provincial reactionaries". Warburg’s contribution not only to art studies is considered a felicitous affirmation of a suitably complex method, which is opposed to the simplification of compartmentalised knowledge and which Pasquali by then considered – rather optimistically – vanquished and on the road to extinction.
Pasquali considered Warburg the first to acknowledge that the Renaissance was witness to the re-emergence of an antiquity that was essentially contradictory, which included at heart a Dionysan sensibility. "Antiquity bequeathed to the Renaissance the tools to clarify and express feelings and impulses that had lain out of sight for considerable time, allowing them to be aesthetically detoxed […]. An era that aimed merely to reproduce the past could never have produced great art; and the men of the Renaissance were not, thank heavens, just humanists, any more than they were purists from the time of the Antonines". Later, having summarised with masterly skill the extent of Warburg’s studies and the ramifications of his research interests, Pasquali also observes: "Warburg cast his gaze with particular interest on the Dionysan and demoniacal elements which the Italian Renaissance absorbed from Hellenism via imperial Roman art and medieval manuals from the East and Islam. A well-balanced researcher, Warburg never intended to deny that the Renaissance had also drawn from Antiquity those "Apollonian" elements of serenity and seriousness. Reaction against Winckelmann never led him to deny the much that was true, albeit excessively partial and exclusive, that is contained in the traditional perception of Antiquity". So Pasquali acknowledges that Warburg’s view of the Renaissance is a complex fusion of ideas.
In contrast with the gloomy image of Warburg which gains ground with later biographers, Pasquali offers a completely different portrait: "He was a born teacher. Indeed his most important discoveries, rather than reasoned in his head, were exposed briefly in lectures, leaflets or newspaper supplements, difficult to find unless received as a present from him, and even in this respect he was most generous. He possessed the most essential, elemental gift of a teacher: the warmth of his humanity. Warburg never felt that age was important, and when approached for the first time by a young person with oddly mixed feelings, half proud of a modest achievement, half uncertain as to what the famous man might think, would never allow the difference in their ages to matter. When times were difficult he considered it his duty to help beginners, even financially, without humiliating them, finding scientific paid work for them, and making many of them assistants in his most important undertaking, the Warburg Library".
He was a man who, precisely because he scorned the easy route, made his family’s advantageous status a resource for everyone. In this respect, Bing remembers the passion and tenacity with which Warburg would carry out his battles with institutions that, with their superficial political choices, impaired the image of the cities he loved, Hamburg and Florence. She also quotes from among his many preoccupations, his concern for the education of adults whom he sought to guide towards books because "culture never hurts". "Warburg felt the need to expand. This man, tormented by terrifying apparitions, would suddenly regain his happiness; and he knew how to be calm and witty whenever he talked to a group of people who were prepared to understand him". Warburg was a man who was generous with both his time and words, and who in his Library and his style of writing calls for his interlocutor to interact. "I don’t know whether he was a good conversationalist in the conventional, rhetorical sense of the word, but I know that he talked for far longer than the academic hour, sometimes for two; and yet I never tired. As he never thought of the form, but of the thing, he was always lively, never tedious. He talked without a manuscript, often without notes, with nothing before his eyes other than the necessary figurative material. He spoke from the fullness of his heart, without concealing his patrician Hamburg accent, which annoyed certain Germans of the South more than it did us foreigners. Nor did he hesitate to interweave his talks with gibes, if gibes came to his lips, or to turn to someone in the auditorium when he knew that something in particular would have been of special interest to him or her. He was therefore a spontaneous speaker: a few colleagues of mine would probably have considered him devoid of academic dignity. However, his didactic style (and his style was always didactic), was more lively than austere, he did not shun images from daily life, fashionable phrases given new meaning, adages": he used cynical or even stoical invective, perhaps, or Socratic and Platonic exchanges of ideas, but his conferences were never sophistic.
Only at the end of his intellectual biography does Pasquali recall Warburg’s illness. But he manages to include this infirmity in his intellectual history and makes it an important chapter in his research on what was most certainly not a peaceful existence, but was spanned by periods of anxiety, a life which "for reasons which were not contingent, but essential, was not always happy". From 1918 to 1924 Warburg fought against mental illness. Authoritative witnesses reveal to us now after his death that at a certain moment he had begun to live his illness not only as historical reality. The impulse to discover not only what internal reality might have animated the magic and astrology of the Hellenistic era and the Renaissance, but also the magic practised by primitive men, with him from the Bonn years onwards, became little by little central to his being. In a certain sense he believed in magic, and felt all the irrational fears of primitive man. The illness in a certain sense was the continuation of his scientific research, and, what is stranger, he continued his scientific research throughout his illness, profiting from the experiences of his illness. His closest student relates: "In 1920, the professor would talk of Luther during the afternoon" (his incisive and rational study on Luther and astrology during the Reformation was finished during his period of mental illness), "in the afternoon he would write wonderful pages on logic and magic; during the morning he had been a man who believed in magic, who believed in demonism and inanimate things". But he knew how to endure his illness, defeating it by means of scientific reasoning and activity. In a strange splitting of his personality, Warburg never ceased to observe himself, and to find in himself primitive man whose rationalism is rooted in magic. This idea was taken up by Ginzburg who in 1966 wrote: "His study of astrology and magic during the Quattrocento and Cinquecento was dramatically interwoven with the mental illness which affected him for long periods of time – as though the strength required to master these ambiguous forces with reason, half connected with science, half connected with a dark, demoniacal world, came at a tragic personal cost".
Pasquali observes that the illness was unleashed by fear. "I saw him calmer and happier when he returned to Italy in 1927, than when I left him in 1915, frightened at the thought of the inevitable war between Germany and Italy, which would, he feared, create an abyss between the two countries he loved". Pasquali’s far-sightedness when observing the life and works of Warburg made him view his death as an autumnal euthanasia: the sudden death of a life which was nonetheless "in a certain sense finished". The conclusion to which Pasquali refers, is Mnemosyne, which unlike the superficial specialists and readers to come during the fifty years that followed, he considered a "completed" work. "He left a figurative atlas ready for publication, which has the name of memory, Mnemosyne, which shows how different countries and different generations [...] have successively conceived, and having conceived transformed, the "pathetic", Dionysian legacy of antiquity. It was his intention to live for future generations in his Atlas".
Warburg’s legacy as teacher and scholar is recapitulated in words that have surprising relevance in the conclusion of Pasquali’s narrative. "Young scholars will work according to his intentions, if not according to his spirit, if they do not accept with conviction concepts that are closely linked with his own powerful personality, and if instead they use the atlas as a touchstone for their own thoughts". His, therefore, is not a closed, mummified message, but a journey, a comparison, a guiding star on which to construct a route of enquiry. "Art historians and cultural scientists have the duty to make Warburg’s work fruitful, allowing it to work on them, thereby transforming it". These are exemplary words, because they refer to the fundamental problem of knowledge: progressing at a slow pace, via successive changes of route, without inflexible or preliminary postulates, but with the distinct purpose of interpreting and comparing different hypotheses, which, by interaction and reciprocal transformation, create sparks of knowledge. Words on which eignty or more years later it is now time to reflect.
Re-issue November 2012. This paper has been originally published in "Engramma" no. 1, September 2000